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Giovanni
Ipavec
IL
PENSIERO
di
GIACOMO LEOPARDI
1
- Introduzione – Leopardi: filosofo o
poeta o entrambi?
Che Leopardi sia poeta nessuno l’ha
messo in discussione. Che sia anche
filosofo, invece, è stato oggetto di
acceso dibattito. Alla base c’è il
fatto che egli ha scritto di filosofia
e, per così dire, da filosofo: sullo Zibaldone
troviamo tanti e tali pensieri
sull’anima, la metafisica, la
religione, la società, la natura, la
morale, e via dicendo, che l’opera,
ancorché disorganica e non sistematica,
ben potrebbe configurarsi come trattato
filosofico. Né si può dire che manchi
a Leopardi lo stile filosofico, perché
alcune sue pagine, specie quelle
relative alla teoria del piacere, sono
di tale rigore e oggettività che
sembrano stilate dalla penna di un Locke
o di un suo seguace.
Ma non tutti i critici sono d’accordo
su questo punto. Il vecchio filone della
cultura laicista italiana, da De
Sanctis a Croce, nega la
filosofia di L., ritenendola scarsamente
significativa, non originale né
profonda.
Per Francesco
De Sanctis (cfr. Schopenhauer
e Leopardi), interessato
all’uomo e all’artista, essa esprime
un superficiale pessimismo, contraddetto
dalla poesia, l’unica sua produzione
genuina e profonda; il L. filosofo, che
odia la vita, con la sua poesia ce la fa
amare: "La
vita rimane intatta quando ci sia la
forza d’immaginare, di sentire e di
amare: che è appunto il vivere. Dice
l’intelletto: l’amore è illusione,
sola verità è la morte. E io amo e
vivo e voglio vivere. Il cuore rifà la
vita che l’intelletto distrugge".
Vera poesia è l’idillio, che è
mera espressione del sentimento;
l’elemento raziocinante è un
ostacolo, un pericolo, dal quale il
poeta non riesce sempre a guardarsi nei
"piccoli idilli", quasi più
nei Canti
scritti dopo il ’30.
Benedetto Croce
riprende la contrapposizione, ma
restringe ancor più il campo poetico:
la poesia del recanatese gli sembra
oscillare tra filosofia e letteratura,
quasi mai riuscendo a tenere la rotta
mediana (di qui la sua sostanziale e
netta stroncatura).
Una nuova linea,che rivaluta L.
filosofo, è aperta nei decenni tra le
due guerre. Giovanni
Gentile, che legge L. con
interessi filosofici, nell’intento di
rivalutare le Operette
morali, arriva ad affermare
che L. è autentico e grande filosofo.
Nel 1940 Adriano
Tilgher sostiene che esiste
una filosofia di L., che non è
sistematica né procede per astrazioni (L.
non indaga i problemi gnoseologici o
metafisici); essa ora si serve di
un’espressione lirica o letteraria (Canti,
Operette morali), ora è
comunicata in modo immediato,
solitamente non elaborato, attraverso lo
Zibaldone.
Nel dopoguerra si assiste ad un
sostanziale rinnovamento degli studi
leopardiani, grazie prevalentemente agli
apporti della critica
storicistico-marxiana, la quale mette in
risalto l’ultimo L. (la produzione
posteriore al ’30), sostenendo
l’eccellenza del poeta impegnato e
progressivo contro quello isolato e
solitario dell’idillio. Saggi
fondamentali sono i seguenti: L.
progressivo di Cesare
Luporini (Firenze,
1947), La nuova
poetica leopardiana di Walter
Binni (Firenze, 1947), Alcune
osservazioni sul pensiero di L.
di Sebastiano
Timpanaro (Pisa, 1965), La
protesta di L. di W. Binni
(Firenze, 1973), La
posizione storica di G.L. di Bruno
Biral (Torino, 1974), L.
– Schizzi, studi e letture di
Carlo Muscetta
(Roma, 1976). Questi contributi, tutti
contrassegnati da una decisa matrice
ideologica, individuano una linea
"eroica" del pensiero
leopardiano (L. consapevolmente eroico
di fronte al proprio destino), pensiero
che, non elevato al rango di filosofia,
non è più un ostacolo alla poesia, ma
piuttosto il suo vitale nutrimento.
Notevole il saggio di Umberto
Bosco Titanismo
e pietà in G.L. (Firenze,
1957) per il tentativo di spiegare tutto
il percorso intellettuale del poeta alla
luce del motivo eroico-titanico.
Infine, entro l’ambito di una critica
prevalentemente stilistica si sono mosse
le ricerche di Bigongiari, Getto,
Ramat, Solmi e Bigi.
In conclusione, mentre per alcuni
studiosi L. è un filosofo esistenziale,
che si pone problemi di ordine
pratico-morale (la vita ha un senso?
può l’uomo essere felice? dopo la
morte c’è qualcosa o con la morte
finisce tutto?), la maggior parte dei
critici concorda oggi nel ritenere che
L. non possa essere considerato filosofo
per il fatto che, pur avendone
l’attitudine e i mezzi
"culturali", era viziata in
partenza la sua volontà di
speculazione. Egli infatti, sollecitato
da motivi biografici e storico-culturali
(vedi sotto il punto 2), assunse sin
dall’inizio un atteggiamento critico
negativo nei confronti della vita e dei
valori che essa esprime, considerati
alla stregua di miti e illusioni. Tali
convincimenti, penetrati profondamente e
per tempo nel suo pensiero, ne
condizionarono di fatto l’attività e
gli intendimenti, cosicché, quando L.
disporrà degli strumenti filosofici, se
ne servirà non per sottoporre a critica
razionale il suo atteggiamento di base,
bensì per rafforzarlo, per aumentarne
la consistenza logica e la naturale
persuasione. Così facendo, però, si
precludeva la via alla vera filosofia:
il giudizio, se segue e scaturisce
dall’analisi, è oggettivo e
logicamente valido, ma se la precede
diventa pregiudizio e strumentalizza e
vizia gli esiti di quella.
2
- La formazione di Giacomo (1798-1816)
La genesi del pensiero di L. appare
determinata da una progressiva presa di
coscienza della propria infelicità.
All’origine di questa si possono
individuare due diversi ordini di
fattori: biografico-ambientali e
storico-culturali.
Tra i primi l’atmosfera
affettivamente carente della sua
famiglia e l’educazione retrograda
e autoritaria, impartita da una
madre bigotta e formalista e da un padre
conservatore e chiuso; poi la formazione
isolata e solitaria, da autodidatta,
quello "studio matto e
disperatissimo" che contribuì
all’insorgere di diverse malattie
croniche e alla malformazione fisica.
Al gelo dei rapporti familiari vanno
aggiunti lo scherno e la derisione
dei concittadini, la mediocrità e
la scarsa cultura dell’ambiente
recanatese, la precoce sensibilità
e la vivace intelligenza di
Giacomo.
Motivi di ordine storico-culturale
furono la crisi dell’illuminismo
e l’insorgere inizialmente indistinto
e confuso di nuove ideologie, la perdita
d’identità e di funzione
politico-civile dell’intellettuale,
l’arretratezza sociale e culturale
dello stato pontificio.
Né va dimenticato che il periodo
storico in cui Giacomo raggiunge la
maturità è l’età della Restaurazione,
caratterizzata dal conflitto tra
nazionalismo, liberalismo e romanticismo
da una parte, cosmopolitismo,
assolutismo e classicismo dall’altra.
In ambito letterario nasce e si sviluppa
la polemica classico-romantica attizzata
dall’articolo di M.me
de Stael, nella quale interviene
anche L. (vedi sotto il
punto 3).
Punto di partenza della speculazione
leopardiana, volta a tentare di chiarire
il senso della vita, è dunque il
disagio esistenziale dell’autore,
ovvero la sua infelicità fisica e
psicologica. Tale disagio è
all’origine di un pessimismo di
tipo esistenziale, le cui
caratteristiche si possono compendiare
come segue: precoce venir meno delle
illusioni e dei sogni infantili,
sfiducia nella vita, sentimento (non
ancora razionalizzato) di desolazione e
di delusione, insofferenza verso i
condizionamenti, sensazione di
inutilità e di soffocamento.
3
- La fase del pessimismo storico
(1816-1820)
Il pensiero leopardiano prende l’avvio
da una meditazione sull’infelicità in
sé, della quale vengono indagate le
cause, le dinamiche e le conseguenze.
Alla base c’è la teoria
dell’amor proprio (di derivazione
illuministica), secondo la quale
l’uomo è un essere che ama
necessariamente se stesso e mira alla
propria conservazione e alla propria
felicità. L’altruismo è un
controsenso: quando io faccio del bene
ad un altro è perché provo piacere,
quindi lo faccio sempre a me stesso.
L’altruismo non è il contrario
dell’egoismo, ma è una sublimazione
dell’amor proprio, in quanto esistere
significa amare se stesso, cercare la
propria felicità. L’amor proprio non
coincide con l’egoismo: quest’ultimo
è una degenerazione dell’amor proprio
causata dallo sviluppo della civiltà e
dal predominio della ragione; è uno
degli esiti di quel progresso storico
negativo, all’indietro, che è,
secondo L., il passaggio dai primitivi
ai civilizzati. L’amor proprio è
fonte di nobili azioni, di sacrifici
eroici; l’egoismo, invece, è calcolo
meschino. L’amor proprio è la
volontà di potenza dei forti,
l’egoismo è il calcolo razionale del
debole che uccide la vita.
L. respinge le ideologie ottimistiche e
le utopie rassicuranti del suo secolo,
si ribella alla meschinità del suo
tempo e alle convenzioni del suo
ambiente, che giudica arido e gretto;
rimpiange un mondo mitico di nobili
virtù e di valori incorrotti,
in cui gloria e fama, unici
antidoti contro il grigiore della vita,
erano possibili, conseguibili. Si
scaglia con veemenza contro i miti
dell’Ottocento, la storia e il
progresso, e contro la stoltezza di un
secolo che dalla filosofia della storia
di Hegel fino al balletto Excelsior esalta
l’uomo come creatore della realtà.
Per L. si tratta di un
antropocentrismo fanatico, al quale egli
si oppone con forza, affermando che la
storia non è progresso, ma regresso dal
primitivo stato di natura, buono e
felice, allo stato di civiltà, corrotto
e decadente.
Nella storia del genere umano si
distinguono quattro tappe:
1) l’età
primitiva, quando gli
uomini vivevano in uno stato di
perfezione e di innocenza anteriore alla
civiltà;
2) l’antichità
classica, civiltà che L.
ammira come sintesi equilibrata di
natura e ragione (nello Zibaldone
sostiene la superiorità del politeismo
greco-romano rispetto alla religione
cristiana);
3) il medioevo,
nel giudicare il quale L. incorre nei
tipici luoghi comuni dell’illuminismo
(secoli bui, epoca negativa, trionfo
della barbarie);
4) l’età
moderna, con il predominio
assoluto della ragione, la freddezza, il
convenzionalismo, il calcolo, la
funzionalità, in una parola la vita
inautentica.
L. rifiuta il progresso
civile e tecnologico, convinto che sia
negativo in sé, poiché
l’incivilimento è snaturamento,
allontanamento dalla natura: il mondo è
sempre più corrotto e non può essere
corretto. Netta, quindi, per L.
l’antitesi tra la remota grandezza
e la miseria morale e materiale odierna.
L’antagonismo di L.
con gli orientamenti spirituali e
culturali del proprio tempo si manifesta
anche nell’impegno in favore dei
classicisti, i quali devono assolvere il
duplice compito di riproporre i
valori classici, che hanno funzione
liberatoria e di stimolo delle
coscienze, e di scrivere per il
proprio tempo (= alfierismo).
Causa della decadenza è la ragione,
"nemica della natura",
corruttrice dei costumi, madre della
civiltà e della società con tutti i
loro egoismi, distruttrice del rimpianto
mondo eroico. Sogno è ritrovare la
"favilla antica", cioè la
vivacità dell’immaginazione, la forza
delle illusioni, la vitalità
dell’ieri contro la delusione
dell’oggi, attraverso il meccanismo
della ricordanza.
Come già il Foscolo,
anche L. avverte la
necessità delle illusioni
(gloria, amor propri