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Giuseppe
Bonghi
Introduzione
alle
Operette
morali
di
Giacomo
Leopardi
- La presente
Introduzione può essere riprodotta su
qualsiasi tipo di supporto magnetico, ma
non su carta in qualsiasi forma. Per i
diritti d'autore rivolgersi a Giuseppe.Bonghi
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- Edizione
telematica, HTML, revisione,
impaginazione: Bonghi Giuseppe,
Dicembre 1996
- tratto da: Leopardi, Tutte
le opere, vol. I, Sansoni Editore,
Firenze 1969, con introduzione a cura di
Walter Binni e con la
collaborazione di Enrico Ghidetti,
che ha curato la Vita e le opere di
Giacomo Leopardi e la Nota
bibliografica.
Introduzione
Le Operette Morali,
progettate sin dal 1820 in un progetto
"vago e sovrabbondante", con
l'idea di riprendere il genere dei Dialoghi
dello scrittore greco Luciano,
vengono scritte nel 1824 (le prime
venti) e stampate a Milano dall'editore
Angelo Stella nel 1827, dopo che tre di
esse erano uscite nel 1826, due sul
numero di gennaio dell'Antologia
(Dialogo di Timandro e di Eleandro,
Dialogo di Torquato Tasso e del suo
Genio familiare e Dialogo di
Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez)
del Viesseux e successivamente su due
numeri del Nuovo Ricoglitore.
L'edizione
completa, come si potrà leggere in Appendice,
con l'aggiunta delle ultime quattro
scritte negli ultimi anni, uscirà nel
1835 a Napoli presso l'editore Saverio
Starita, un'edizione che non ottenne il
permesso di pubblicazione ufficiale, ma
che ebbe lo stesso un buon successo.
Nelle Operette Leopardi esprime
la sua diagnosi della realtà, trattando
la sua visione con assoluta libertà
proprio assumendo le vesti più
disparate dei personaggi dei suoi Dialoghi,
che discutono con i morti o sono
semplicemente animali domestici come il
gallo silvestre; guida i suoi lettori
verso traguardi noti a lui solo, a
scoprire la vera essenza del quotidiano,
quasi anticipando l'analisi umoristica
pirandelliana, facendoci vedere l'altro
aspetto della realtà, non quello più
nascosto, ma quello più difficile da
cogliere se si analizzassero le cose col
solito modello di pensiero. Invita i
lettori a svestorisi del proprio modo di
pensare per vedere non dentro le cose
(un'operazione che tutti fanno), ma
dalla parte opposta e simmetrica, a
sentire l'altro suono della campana.
Il
ricorso alla fantasia della
rappresentazione non si scontra mai con
l'analisi della realtà, non è
un'operazione dell'immaginazione, ma
della logica seguendo strutture di
ragionamento diverse, come diverse sono
le epoche in cui sono situati i
personaggi, come diversi sono i modi di
pensare e di vedere: ma tutti dovrebbero
condurre a una sola unità d'intenti, a
una sola visione, agli stessi valori ed
ideali, eliminando arrivismi ed egoismi
che tutto distruggono.
Analizzando
proprio il Dialogo cancellato dal
poeta, che
riportiamo in Appendice,
possiamo capire come i grandi valori
sociali (la patria, l'onore) siano
diventati la ricchezza sfrenata, i
divertimenti, la voglia di primeggiare.
Le Operette esprimono la
meditazione leopardiana sulla condizione
umana sospesa tra passato e presente,
tra aspettative naturali e realizzazione
pratica, sul destino, sull'aspirazione
di ogni uomo a una felicità che sembra
raggiungibile nella prima giovinezza ma
che si rivela ad ogni anno che passa (Dialogo
di un venditore di almanacchi e di un
passeggere) sempre più un sogno
impossibile; non a caso si aprono con la
Storia del genere umano, in cui
Leopardi rappresenta la successione
delle tappe della sua storia spirituale
che riflette quelle della storia del
genere umano in generale, e si chiudono
con il Dialogo di Tristano e di un
amico che rappresentano la
"virile attesa della morte, solo
rimedio all'inutile miseria della
vita... sottolineando così la sua
solitudine e il coraggio con cui
ricercava il vero, fra gli uomini che
preferivano banali e confortanti
illusioni. Scritte nel 1824,
rappresentano la presa di coscienza del
crollo delle sue illusioni giovanili,
tornando a Recanati, il "natìo
borgo selvaggio", dopo che
fiducioso tre anni prima era corso
incontro al mondo allontanandosi da
casa, in cui gli sembrava impossibile
vivere e raggiungere un'accettabile
condizione di vita felice.
L'ironia
che le pervade non sono una ricerca
spirituale di distacco dall'amarezza che
la materia trattata gli infonde, ma sono
la scoperta del senso fondamentale della
vita che si nasconde dietro le banali
apparenze quotidiane della cultura e dei
modi di vivere. Proprio questa scoperta
sarà alla base della sua grande poesia
a partire dal 1827. É una scoperta
dolorosa, ma rappresenta anche
l'accettazione del male della vita,
esclusa da ogni speranza di bene o
contento, come dirà nel Canto
notturno, che altri forse avrà, ma
che lui non potrà mai raggiungere perché
questa è la condizione umana.
Le
domande che si pone, e che scaturiscono
dai Dialoghi, rimangono senza
risposta; il dialogo stesso diventa
fittizio e apparente, perché resta un
monologo che scaturisce dai due aspetti
della realtà che lo affascina e lo
intristisce, una, quella dell'apparenza,
che l'uomo vive nella fiduciosa
giovinezza, nel momento in cui le cose
appaiono, e l'altro che si afferma all'apparir
del vero.
Per
questo le Operette rappresentano
un punto di partenza fondamentale per la
formazione umana e sociale dell'uomo
moderno, lontano da tutto ciò che
impoverisce l'esistenza umana,
appiattendola su apparenze vuote o
sospingendola verso chimeriche forme di
vita ultraterrena; in esse il poeta
tocca e rivela i più profondi motivi
del nulla, della noia-angoscia, della
vita come morte, senza mai cadere
nel patetico, ma sempre stimolando
l'energia virile dell'uomo ad affrontare
l'esistenza con il coraggio che deve
portare alla ricerca della verità.
Appendice
NOTIZIA
INTORNO A QUESTE OPERETTE
[Edizione Starita, 1835]
Queste
Operette, composte nel 1824, pubblicate
per la prima volta in Milano nel 1827,
ristampate in Firenze nel 1834 coll'aggiunta
del Dialogo di un venditore di
almanacchi e di un passeggere, e di
quello di Tristano e di un amico,
composti nel 1832; tornano ora alla luce
ricorrette dall'autore notabilmente, ed
accresciute del Frammento apocrifo di
Stratone di Lampsaco, scritto nel
1825, del Copernico e del Dialogo
di Plotino e di Porfirio, composti
nel 1827. Il Dialogo di un lettore di
umanità e di Sallustio che si trova
nelle altre edizioni, in questa manca
per volontà dell'autore.
Dialogo
di un lettore di Umanità e di Sallustio
Lettore.
Figliuoli, questo luogo del testo non mi
contenta; e ve ne ammonisco accioché
l'autorità di Sallustio non v'induca in
errore.
Sallustio. Che si va mormorando
dei fatti miei? Se avessi saputo che
l'invidia non muore in mille novecent'anni,
io toglieva d'essere invidioso piuttosto
che eccellente.
Lettore, Chi seei tu?
Sallustio. L'autor che tu hai
nelle mani.
Lettore. Tu vuoi dire l'autor del
libro che ho nelle mani, ma per amore di
brevità non hai rispetto a darmiti in
pugno personalmente. Or come sei tu qui?
Ma comunque ci sii, non rileva. Io
vorrei che tu mi sciogliessi una
difficoltà che mi nasce in un passo qui
dell'aringa che tu fai sotto nome di
Catilina quando sta per dare la
battaglia alle genti del proconsole. Il
passo è questo: Quapropter vos moneo
uti forti atque parato animo sitis, et
quum proelium inibitis memineritis vos
divitias, decus, gloriam, praeterea
libertatem atque patriam in dextris
vestris portare. Dimmi: alla scuola
di Nigidiano o di Fausta, o pure in
Numidia al tempo che attendevi a far
bene ai popoli sgravandoli del loro
avere, o dove e quando si sia, studiasti
tu di rettorica?
Sallustio. Così studiasti tu
d'etica. Che dimande sono coteste?
Lettore. Non andare in collera:
così possa tu guarire dei segni delle
staffilate che rilevasti da Milone per
amore della bellezza. Dimmi in cortesia:
che figura intendevi tu adoperare in
questo passo? quella che i miei pari
chiamano della gradazione, o qualche
altra?
Sallustio. Maestro sì, quella.
Lettore. La gradazione sale o
scende com'è l'occorrenza; ma qui
conviene che salga, cioè a dire che
delle cose che tu nomini, la seconda sia
maggiore della prima, la terza della
seconda, e così l'altre, in modo che
l'ultima vorrebbe essere la maggiore di
tutte. Non dico io vero?
Sallustio. Oh verissimo.
Lettore. Ma tu, caro Crispo, sei
proprio andato come il gambero, o come
vanno le persone prudenti quando veggono
l'inimico. La prima cosa che tu nomini
è la ricchezza, la quale dice Teognide
che si dee cercare al caldo e al freddo,
per terra e per acqua, balzando a un
bisogno giù dalle rocce, scagliandosi
in mare, e non perdonando a pericolo né
a fatica che torni a proposito. La
seconda è l'onore, del quale una gran
parte degli uomini fa capitale, ma non
tanto, che non lo venda a buon mercato.
La terza è la gloria, che piacerebbe a
molti, se la potessero acquistare senza
fatica e senza scomodo, ma non potendo,
ciascuno si contenta di lasciarla stare.
La quarta è la libertà, della quale
non si ha da far conto. L'ultima è la
patria, e questa non si troverebbe più
al mondo, se non fosse nel vocabolario.
Insomma la cosa che tu metti per ultima,
non solo non è maggiore di tutte
l'altre, ma già da gran pezzo non è più
cosa; l'altre importano ciascheduna più
della susseguente; e la prima è tale
che gli uomini per ottenerla son pronti
a dare in occasione la patria, la libertà,
la gloria, l'onore, che sono quegli
altri tuoi beni; e darli tutti in un
fascio; e farci la giunta se occorre. Oh
vedi se questo era nome da rimpiattarlo
in un cantuccio della clausola, come ti
fossi vergognato di scriverlo. Veramente
se Catilina asoperò questa figura al
rovescio come tu la reciti, io non mi
maraviglio che ei non movesse gli
uditori, e ben gli stette che si
portarono male e perdettero la giornata.
Sallustio. Forse io potrei
rispondere che dal mio tempo a cotesto
ci corre qualche divario d'opinioni e di
costumi circa quel che tu dici. Ma in
ogni modo il tuo discorso mi capacita, e
però scancella questo passo e tornalo a
scrivere così come io ti detto.
Lettore. Dì pure.
Sallustio. Et quum proelium
inibitis memineritis vos gloriam, decus,
divitias, praterea spectacula, epulas,
scorta, animam denique vestram in
dextris vestris portare.
Lettore. Ecco fatto. Così mi
piace e sta bene. Salvo che i cinque
ultimi capi hanno tanto di persuasivo,
che io comincio a temere del successo
della battaglia, se Antonio o Petreio
non fanno alle loro genti un'altra
orazione su questa corda.