ALESSANDRO MANZONI
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Caratteri generali
Il Manzoni compose due tragedie, entrambe d’argomento storico, in cinque atti, in endecasillabi sciolti. La prima, “Il Conte di Carmagnola”, fu scritta tra il 1816 ed il 1820 e rappresentata una sola volta a Firenze nel 1828; la seconda, “Adelchi”, fu scritta tra il 1820 ed il 1822 e rappresentata senza successo a Torino nel 1843, a Napoli nel 1873, a Milano nel 1874, e, con un certo successo, in tempi a noi più vicini e precisamente a Milano nel 1938 ed a Roma nel 1960. La realtà è che queste tragedie sono state scritte più per essere lette che per essere rappresentate, dal momento che il Manzoni difettava di una vera ispirazione tragica, di temperamento tragico, e non aveva esperienza di teatro. Certamente l’ “Adelchi” è opera di grande rilievo poetico, ma va intesa piuttosto come un “poema storico”. A dispetto tuttavia di questa sua scarsa attitudine verso il teatro e la tragedia, il Manzoni volle cimentarsi in queste due opere anzitutto per dichiarare la sua convinzione circa l’utilità della tragedia (da non pochi autorevoli letterati e filosofi messa in dubbio) e poi per dare l'esempio di una tragedia romantica e moderna del tutto affrancata dalla tradizione classica, e principalmente dalle regole pseudo-aristoteliche. Ci sembra utile riportare due stralci della “Prefazione” al “Conte di Carmagnola” per avere dalla viva voce dell’Autore le sue opinioni circa le unità di tempo e di luogo e circa l’utilità della tragedia: «Tra i vari espedienti che gli uomini hanno trovati per imbrogliarsi reciprocamente, uno de' più ingegnosi è quello d'avere quasi per ogni argomento, due massime opposte, tenute ugualmente come infallibili. Applicando quest'uso anche ai piccoli interessi della poesia, essi dicono a chi la esercita: siate originali, e non fate nulla di cui i grandi poeti non vi abbiano lasciato l'esempio. Questi comandi che rendono difficile l'arte più di quello che è già, levano anche a uno scrittore la speranza di poter rendere ragione d'un lavoro poetico; quand'anche non ne lo ritenesse il ridicolo a cui s'espone sempre l'apologista de' suoi propri versi... L'unità di luogo, e la così detta unità di tempo, non sono regole fondate nella ragione dell'arte, né connaturali all'indole del poema drammatico: ma sono venute da una autorità non bene intesa, e da princìpi arbitrari; ciò risulta evidente a chi osservi la genesi di esse. L'unità di luogo è nata dal fatto che la più parte delle tragedie greche imitano un'azione la quale si compie in un sol luogo, e dalla idea che il teatro greco sia un esemplare perpetuo ed esclusivo di perfezione drammatica. L'unità di tempo ebbe origine da un passo di Aristotele, il quale, come benissimo osserva il signor Schlegel, non contiene un precetto, ma la semplice notizia di un fatto; cioè della pratica più generale del teatro greco. Che se Aristotele avesse realmente inteso di stabilire un canone dell’arte, questa sua frase avrebbe il doppio inconveniente di non esprimere un'idea precisa, e di non essere accompagnata da alcun ragionamento. Quando
poi vennero quelli che, non badando
all'autorità domandarono la ragione di
queste regole, i fautori di esse non
seppero trovarne che una, ed è: che,
assistendo lo spettatore realmente alla
rappresentazione di un'azione, diventa
per lui inverosimile che le diverse
parti di questa avvengano in diversi
luoghi, e che essa duri per un lungo
tempo, mentre lui sa di non essersi
mosso di luogo, e d'avere impiegate solo
poche ore ad osservarla. Questa ragione
è evidentemente fondata su un falso
supposto, cioè che lo spettatore sia
lì come parte dell'azione quando è,
per così dire, una mente estrinseca che
la contempla. La verosimiglianza non
deve nascere in lui dalle relazioni
dell'azione col suo modo attuale di
essere, ma da quella che le varie parti
dell'azione hanno tra di loro. Quando si
considera che lo spettatore è fuori
dell' azione, l'argomento in favore
delle unità svanisce...» «...una questione più volte discussa, ora quasi dimenticata, ma che io credo tutt'altro che sciolta... è: se la poesia drammatica sia utile o dannosa. So che ai nostri giorni sembra pedanteria il conservare alcun dubbio sopra di ciò, dacché il pubblico di tutte le nazioni colte ha sentenziato col fatto in favore del teatro. Mi sembra però che ci voglia molto coraggio per sottoscriversi senza esame a una sentenza contro la quale sussistono le proteste di Nicole, di Bossuet e di G. G. Rousseau, il di cui nome unito a questi viene qui ad avere una autorità singolare. Essi hanno unanimemente inteso di stabilire due punti: uno che i drammi da loro conosciuti ed esaminati sono immorali; l'altro che ogni dramma deva esserlo, sotto pena di riuscire freddo, e quindi vizioso secondo l'arte; e che in conseguenza la poesia drammatica sia una di quelle cose che si devono abbandonare, quantunque producano dei piaceri, perché essenzialmente dannose. Convenendo interamente sui vizi del sistema drammatico giudicato dagli scrittori nominati qui sopra, oso credere illegittima la conseguenza che ne hanno dedotta contro la poesia drammatica in genere. Mi pare che siano stati in errore dal non aver supposto possibile altro sistema che quello seguito in Francia. Se ne può dare, e se ne dà un altro suscettibile del più alto grado d'interesse e immune dagl'inconvenienti di quello: un sistema conducente allo scopo morale, ben lungi dall'essergli contrario.» Una novità singolare nelle tragedie manzoniane è data dalla presenza dei Cori, uno al termine del secondo atto del “Carmagnola” (“S'ode a destra uno squillo di tromba”) e due nell’ “Adelchi”, precisamente al termine del III atto (“Dagli atrii muscosi, dai fori cadenti”) e dopo la prima scena del IV atto (“Sparsa le trecce morbide”). Questi cori non sono la riproposizione dei cori dell’antica tragedia greca, dai quali si differenziano nettamente, ma rappresentano come una pausa di raccoglimento durante lo svolgimento del dramma, un momento di riflessione sugli avvenimenti rappresentati, uno sforzo per penetrare nel significato più riposto delle vicende e trarne un insegnamento morale: è un mezzo per semplificare al lettore od allo spettatore la strada che conduce allo scopo che si ripropone l’Autore, quello “scopo morale” capace di contraddire l’opinione negativa del Rousseau circa l’utilità della tragedia. Ma diamo ancora una volta la parola al Manzoni stesso (sempre dalla Prefazione al “Carmagnola”): «Mi
rimane a render conto del Coro
introdotto una volta in questa tragedia,
il quale per non essere nominati
personaggi che lo compongano, può
parere un capriccio, o un enigma. Non
posso meglio spiegarne l'intenzione, che
riportando in parte ciò che il signor
Schlegel ha detto dei Cori greci: “Il
Coro è da riguardarsi come la
personificazione de' pensieri morali che
la azione ispira, come l'organo de'
sentimenti del poeta che parla in nome
dell'intera umanità”. E poco sotto:
“Vollero i Greci che in ogni dramma il
Coro... fosse prima di tutto il
rappresentante del genio nazionale, e
poi il difensore della causa
dell'umanità: il Coro era insomma lo
spettatore ideale: esso temperava
l'impressioni violente e dolorose
d'un'azione qualche volta troppo vicina
al vero; e, riverberando, per così
dire, allo spettatore reale le sue
proprie emozioni, gliele rimandava
raddolcite dalla vaghezza di
un'espressione lirica e armonica, e le
conduceva così nel campo più
tranquillo della contemplazione”. Ora
m'è parso che, se i Cori dei Greci non
sono combinabili col sistema tragico
moderno, si possa però ottenere in
parte il loro fine, e rinnovarne lo
spirito inserendo degli squarci
lirici composti sull'idea di que'
Cori. Se l' essere questi indipendenti
dall'azione e non applicati ai
personaggi li priva d'una gran parte
dell'effetto che producevano quelli,
può però, a mio credere, renderli
suscettibili d'uno slancio più lirico,
più variato e più fantastico. Hanno
inoltre sugli antichi il vantaggio
d'essere senza inconvenienti: non
essendo legati con l'orditura
dell'azione, non saranno mai cagione che
questa si alteri e si scomponga per
farceli stare. Hanno finalmente un altro
vantaggio per l’arte, in quanto, riserbando
al poeta un cantuccio dov'egli possa
parlare in persona propria, gli
diminuiranno la tentazione d'introdursi
nell'azione, e di prestare ai personaggi
i suoi propri sentimenti: difetto dei
più notati negli scrittori drammatici.
Senza indagare se questi Cori potessero
mai essere in qualche modo adattati alla
recita, io propongo soltanto che essi
siano destinati alla lettura: e prego il
lettore di esaminare questo progetto
indipendentemente dal saggio che qui se
ne presenta; perché il progetto mi
sembra poter esser atto a dare all'arte
più importanza e perfezionamento,
somministrandole un mezzo più diretto,
più certo e più determinato
d'influenza morale.» “ll Conte di Carmagnola”“Il Conte di Carmagnola”, oltre che dalla “Prefazione” di cui abbiamo riportato dei brani, è preceduta da “Notizie storiche” sul protagonista e sugli avvenimenti che fanno da soggetto della tragedia. Francesco Bussone nacque intorno al 1390 da un contadino e da bambino fu avviato a pascolare le pecore. Un soldato di ventura si imbatté in lui per puro caso e, rimasto colpito "dall'aria fiera del suo volto", gli propose di seguirlo al servizio del celebre condottiero mercenario Facino Cane. Il giovinetto acconsentì e ben presto si mise in luce per coraggio e determinazione, tanto da fare una rapida carriera militare. Si segnalò soprattutto al servizio di Filippo Maria Visconti, della cui potenza fu il principale artefice, sicché il duca lo nominò condottiero del suo esercito, gli conferì il titolo di Conte di Castelnuovo, gli consentì le nozze con Antonietta Visconti e gli permise di costruirsi un palazzo in Milano. La crescente potenza anche politica del Bussone venne però in sospetto del duca che tentò -a ciò spinto anche da non pochi cortigiani gelosi dell'ascesa del Carmagnola- di liberarsi di lui mandandolo governatore disarmato a Genova. Il Conte accettò l'incarico ma si rifiutò di rinunziare al comando delle milizie, ben prevedendo che quello sarebbe stato l'inizio d'una sua totale emarginazione dalla vita del ducato. Tentò di far desistere Filippo, ma visto inutile ogni tentativo, decise di abbandonarlo e di offrire il suo servizio prima al Duca Amedeo di Savoia e poi alla Repubblica di Venezia, tradizionali nemici dei Visconti. Fu Venezia ad accettarlo anche perché era allora in discussione un'alleanza coi Fiorentini per far guerra ai Visconti. Forse la guerra fu decisa proprio perché i Veneziani nutrivano grosse speranze di successo sull'abilità di condottiero del Carmagnola e sull'odio che questi aveva accumulato contro il suo vecchio signore. Ma nella battaglia di Maclodio, vittoriosa per il Carmagnola, questi mandò liberi, com'era usanza dei capitani di ventura, tutti i prigionieri, facendo sorgere il sospetto di essere ancora sentimentalmente legato ai vecchi compagni d'arme. Alcuni successivi insuccessi di lieve entità alimentarono i sospetti circa un qualche suo disegno di riconciliazione col Visconti a tutto danno della Repubblica e perciò i Veneziani decisero di intervenire senza mezzi termini e stroncare sul nascere l'eventuale tentativo di diserzione: invitato il Conte a lasciare temporaneamente l'esercito e venire a Venezia per discutere circa una eventuale pace da proporre al Visconti, lo catturarono di sorpresa, lo accusarono di tradimento e lo condannarono alla decapitazione. Gli storici non dispongono di documenti certi per giudicare le reali intenzioni del Carmagnola e dovendo procedere, per così dire, ad un'istruttoria indiziaria, si sono naturalmente divisi in colpevolisti ed innocentisti. Il Manzoni si è schierato dalla parte di questi ultimi ed ha tratteggiato il suo personaggio come la vittima di una infamante calunnia. Il primo atto della tragedia ci porta nella sala delle riunioni del Senato di Venezia, ove il doge Francesco Foscari mette in discussione se accettare l’alleanza proposta dai Fiorentini, se è conveniente dichiarare la guerra ai Milanesi e se è opportuno affidarne il comando al Carmagnola. |