ALESSANDRO MANZONI
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Contrariamente a quanto avviene per il Foscolo, il biografo del Manzoni ha non poche difficoltà a tracciare il profilo psicologico del grande lombardo che, nonostante la lunga vita, ha lasciato poche testimonianze, dirette o indirette, sulla sua vita intima. Questo, però, ci consente di rilevare un primo aspetto della sua personalità: la ritrosia a parlare di sé e la tendenza a vivere appartato dal mondo o, per meglio dire, dalla società, perché, in effetti, la sua adesione alla vita del mondo fu quanto mai cordiale ed intensa, come ben si vede nelle sue opere maggiori. A queste appunto fa riferimento la maggior parte degli studiosi per desumere una immagine complessiva e persuasiva dello scrittore: procedimento, questo, giustificato dalla carenza di notizie autobiografiche e dalla scarsezza di testimonianze altrui dovuta alla volontaria solitudine in cui il Nostro si ridusse a vivere gran parte della propria esistenza, ma tuttavia in parte arbitrario e, comunque, precario perché eccessivamente condizionato dalla particolare sensibilità e, perché no?, dai pregiudizi del biografo. Volendo percorrere un itinerario più agevole, dobbiamo rifarci alle notizie certe, sia pure scarse, in nostro possesso e da queste dedurre valutazioni psicologiche che non siano in contrasto con la personalità dell’artista, quale emerge imponente dalla sua opera. Il Manzoni ebbe certamente un’infanzia difficile ed infelice. Nato da un matrimonio sbagliato che aveva legalmente unito due persone diversissime e lontanissime tra loro (la madre, appena ventenne, spirito vivace e di buona cultura; il padre, di ventisei anni più anziano della moglie, incolto e rozzo) e forse figlio di una delle tante infedeltà coniugali della madre, visse i primi anni in un clima di tensioni familiari appena mascherato in superficie dal contegno aristocratico di entrambi i coniugi. E proprio per sottrarlo a quest’aria irrespirabile, fu mandato ad appena sei anni in collegio, presso i Somaschi prima ed i Barnabiti poi, che non sopperirono punto alla mancanza di affetto che travagliava l’adolescente, favorendo in lui l’inclinazione alla solitudine. Dopo nove anni di segregazione, fece ritorno in casa, ove fu accolto dall’indifferenza del genitore, che nel frattempo si era legalmente separato dalla moglie. Questa era andata a convivere col conte Carlo Imbonati a Parigi, dove le convivenze illegali non destavano scandalo ed erano frequenti nel bel mondo. Forse proprio per reazione a siffatta situazione, il Manzoni si diede alla bella vita. Ma forse anche per vincere la timidezza del carattere che in pubblico lo rendeva finanche balbuziente. Fu questa comunque una breve parentesi, perché egli non abbandonò quegli studi che aveva intrapreso da autodidatta e di nascosto già in collegio e non celò né a se stesso né agli altri la sua precoce disposizione alle lettere. A soli sedici anni, nel 1801, si provò a comporre, sull’esempio dell’Alfieri (e non del Foscolo, il cui sonetto “Solcata ho fronte” fu pubblicato per la prima volta solo nell’autunno del 1802), un “Ritratto di se stesso”, un sonetto pessimo dal punto di vista estetico, ma degno di considerazione, sia perché rappresenta forse l’unica occasione in cui il Poeta parla volutamente ed esplicitamente di sé, sia perché ci fa capire alcuni aspetti fondamentali del suo carattere mai smentiti in seguito. Ecco il sonetto:
E' inutile soffermarci e recriminare su quell’ “occhio loquace” o su quel “labbro stretto” o su quella “bocca esile”: il sonetto è opera di un adolescente non ancora maturo per l’arte. Ci interessa invece ricavare da questi versi alcune connotazioni che non ci sembrano distanti dall’immagine ideale che ci siamo fatta dell’Autore. Questi fu veramente alquanto impacciato nel dialogare, specialmente se con persone estranee al suo ristretto mondo consuetudinario, e preferiva piuttosto ascoltare che parlare, soprattutto quando si trattava di esprimere sentenze e giudizi e pareri: il profondo rispetto che nutriva per il prossimo l’induceva non solo ad evitare di esprimere su persone determinate giudizi di merito, ma anche ad astenersi dal dare consigli sembrandogli presuntuoso farsi “dottore” agli altri. Quando però parlava era sempre per dire chiaro e tondo quel che gli sembrava il “vero”, senza tentennamenti e senza riguardo per chi non gradisse quel vero. Ad essere eccessivamente prudente lo spingeva anche una certa irresolutezza negli affari concreti e minuti della vita, cosa questa in netto contrasto con la fermezza e determinazione dimostrate nei confronti dei princìpi fondamentali della sua fede morale e religiosa. Fu anche piuttosto scontroso (“duro di modi”) e facile all’ira (“a l'ira presto”), ma solo da giovane, perché la maturità degli anni lo perfezionò molto a questo riguardo. Non dové mai cambiare, invece, la tendenza innata alla bontà ed al perdono, che anzi con gli anni esaltò sempre più. E fu grazie a codesta tendenza, oltre che al lungo digiuno di affetti familiari, se, una volta ritrovata tutta per sé la madre (dopo la morte dell'Imbonati), le si legò in modo, non diciamo morboso, ma certamente profondo, fino a compiacersi di subirne l’ascendente. Per lei scrisse il “Carme in morte di Carlo Imbonati”, nel quale sono enunciati princìpi di morale e di arte, cui l’Autore rimase fedele in vita e che rappresentano ulteriori indizi validi per la conoscenza del suo mondo interiore. In questo carme, in cui il Poeta immagina di aver avuto la visita notturna dello spirito del conte, il Manzoni esprime un giudizio abbastanza negativo sulla società del suo tempo, un giudizio improntato a quella severità morale che fu suo abito costante anche dopo la conversione (sia pure in termini di maggiore compassione e di minore acredine): l’Imbonati afferma che gli è doluto di morire solo perché ha abbandonato al pianto la sua più cara amica, ma non per altro:
Lo spirito dell’Imbonati prosegue elogiando il ventenne Alessandro di non frequentare la compagnia dei malvagi e di preferire quella di pochi e intemerati amici e ancor di più quella dei grandi Autori del passato, “che, spenti, al mondo anco son pregio e norma”. E il Poeta prende da ciò spunto per confidare al conte:
Giudizio,
questo, assai duro sulla educazione
ricevuta nei collegi, di cui si pentirà
in seguito, non tanto perché fosse
spropositato rispetto alla realtà, ma
piuttosto perché gli sembrava poco
cristiano (questo pentimento fu il
motivo ufficiale addotto dal Manzoni per
impedire successivamente la ristampa del
carme, ma è lecito ritenere, o quanto
meno supporre, col Dolci, che la ragione
più vera fu forse “quella
di porre un velo su di un fallo materno
che, se nella sua giovanile ingenuità,
aveva in certo modo approvato ed
esaltato, non avrebbe potuto ora, nella
sua nuova severa coscienza di credente,
non condannare”). Ma i versi più famosi del carme sono quelli in cui l’Imbonati elenca al giovane amico una serie di precetti per vivere degnamente:
Questi
versi rappresentano bene, più che un
programma di vita morale, un impegno
etico assunto dall’Autore in piena
coscienza e ponderata determinazione,
non sotto l’impulso di una tensione
passeggera. L’immagine del Manzoni
sedicenne, quale ci appare nel sonetto
dell’autoritratto, è qui
approfondita, non smentita, né
corretta. E questi precetti, enunciati
dal giovane “illuminista”
e “miscredente”
Manzoni, non avranno bisogno di alcuna
modifica da parte dell’uomo maturo e
credente: si arricchiranno semplicemente
della nuova luce della Fede, che, in
definitiva, è nuova luce di Speranza. Il
rinnovato affetto per la madre,
l’amore profondo per la moglie, la
numerosa prole che lo attorniava
festante, gli offrirono quella serenità
dello spirito necessaria all’arte,
grazie alla quale poté lavorare ai suoi
capolavori. Ma fu solo la Fede quella
che gli consentì di accettare senza
ribellarsi le innumerevoli sciagure che
si abbatterono su di lui ed accentuarono
quei disturbi nevrotici che lo
afflissero per tutta la vita e che aveva
forse ereditato per via genetica (il
nonno materno ne era stato affetto).
Questi disturbi egli non fece mai pesare
- come generalmente avviene - su chi gli
era vicino e li sopportò con dignitosa
riservatezza, anche se lo tormentarono
quotidianamente sotto forma di tante
piccole ma fastidiosissime manie (come
quella di cambiare l’abito più volte,
nel corso della giornata, a seconda
della variazione di temperatura e
pesando gli abiti per farli “scientificamente”
corrispondere alle reali necessità). Per
concludere questa nota diremo che egli
si dedicò
anche all' agricoltura, pur
potendo vivere di rendita, non solo per
“distrarsi”
di tanto in tanto dalle afflizioni o
dagli impegni intellettuali, ma perché
riteneva poco degna un'esistenza spesa
tutta per l'arte e per la cultura e poco
o nulla per le occupazioni pratiche che
servono al sostentamento della vita
fisica ed all'ordinamento della vita
civile. A tal proposito ci piace
riportare uno squarcio della famosa “Lettera
ad un giovane” (A Marco Coen -
Venezia - Milano, 2 giugno 1823), anche
perché questa ci consente di avviare il
discorso sulla concezione che ebbe il
Manzoni delle "lettere" e che
sarà in parte l'oggetto del prossimo
paragrafo. «Il
suo signor padre ha voluto ch'Ella si
appigliasse al commercio: la rettitudine
del suo cuore ha fatto ch'Ella e
obbedisse e desiderasse d'obbedir
volentieri; ma da quel giorno in poi
Ella non ha più pace né requie: tutto
Le è venuto a noia e in dispetto: Ella
non vede di potere più andare innanzi
così. E perché? per amor delle
lettere. Ma che lettere son codeste, che
non lasciano aver bene un uomo
nell'adempimento del suo dovere, e in
una occupazione che ha uno scopo utile,
e che presta pure un continuo esercizio
alla riflessione ed alla sagacità
dell'ingegno? Sono elle le buone
lettere? Le cose buone e vere si amano
con un ardore tranquillo e paziente;
non portano a non volere, se non ciò
che è incompatibile con esse, né ad
abborrire così fortemente, se non il
loro contrario, cioè le cose false e
malvagie. Io temo che codeste lettere,
di cui Ella è tanto accesa, sien quelle
appunto che vivon di sé e da sé e non
veggono che ci sia qualcosa da fare per
loro, dove non si tratti di giocare
colla fantasia; temo, anzi credo, che
codesta tanto violenta avversione al
commercio sia cagionata in Lei, per
gran parte, dalle impressioni che Le
hanno fatta quelle massime, quelle
dottrine che esaltano, consacrano
certi esercizi della intelligenza e
della attività umana, e ne sviliscono
altri, senza tener conto della ragion
delle cose, del sentimento comune degli
uomini, e delle condizioni essenziali
della società. Ma si franchi un momento
da queste dottrine, ne esca, e le guardi
dal di fuori; e pensi di che sarebbe più
impacciato il mondo, del trovarsi senza
banchieri o senza poeti; quali di queste
due professioni serva di più, non dico
al comodo, ma alla coltura dell'umanità.
Codesta avversione non Le lascia
scorgere come l'occupazione che Le è
data, non solo non Le tolga ogni mezzo a
progredir nelle lettere, ma ne sia un
mezzo ella medesima. Ché certamente il
suo tempo non sarà così interamente da
essa portato via, che non gliene avanzi
da dare alla lettura o all'esercizio
dello scrivere; ed è forse piccolo
sussidio ad ogni studio liberale la
cognizione degli uomini e delle cose,
che si acquista nel commercio?» E per conoscere
l'opinione che il Manzoni ebbe della
fama e della gloria terrene, si legga
quest’altro passo della medesima
lettera: «Nelle
lettere Ella vede un mezzo d'acquistar
fama: un vivissimo desiderio di questa,
un nobile sdegno dell'oscurità, per
ripetere le sue parole, sono il suo
stimolo principale allo studio, e il suo
tormento. Ma crede Ella forse, che
l'ottener questa fama porrebbe fine al
tormento? Per amor del cielo, si levi
dall'animo una tale speranza. Quando
Ella avrà veduto un avaro felice
dell'essersi fatto ricco, s'aspetti
allora di vedere un cupido di fama
felice dell'esser diventato famoso.
Iddio ci vuol troppo bene per lasciarci
trovare la contentezza nel
soddisfacimento delle nostre passioni.
Ella è infelice, perché vuole
ardentemente cosa che Dio non ha
promesso a nessuno, che non gli si può
domandare, ch'Egli non ci ha insegnato a
cercare, che ci ha anzi prescritto di
non cercare; ed è infelice non perché
non la possegga ancora, ma perché la
vuole. Il dolore nasce non dalla
mancanza, ma dall'amore della cosa: chi
la possiede, o, per dir meglio, che ne
possiede, e l'ama, ha mutato il dolore,
non se l'è tolto. E neppure l'ha
mutato: ché, mentre conosce per prova,
che codesta così desiderata gloria non
ha virtù di farlo contento, pur ne
desidera di più, ne sente la vanità e
teme di perderla.» |