ALESSANDRO MANZONI
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Manzoni e ScottI Promessi
Sposi sono un romanzo storico, un
nuovo genere di romanzo che ebbe grande
successo nell’Ottocento e che ha il
suo capostipite nell’ “Ivanhoe”
(1819) dello scrittore inglese Walter
Scott (1771-1832). Diciamo subito,
però, che l’influenza dello Scott fu
pressoché irrilevante
sull’ispirazione del Manzoni,
anzitutto perché il Nostro aveva già
dimostrato con estrema evidenza il suo
orientamento a trarre dalla storia non
solo gli argomenti ma anche i motivi
delle proprie opere (liriche civili e
tragedie), ma anche e soprattutto
perché gli esiti del suo romanzo sono
risultati estremamente diversi da quelli
conseguiti dallo Scott con i suoi vari
romanzi storici. Lo Scott fa, tutto
sommato, storia romanzata, nel senso che
rappresenta epoche ambienti e personaggi
storici mettendone in risalto gli
aspetti più pittoreschi e più capaci
di colpire la fantasia del lettore e
quello che di fantastico aggiunge ai
dati reali finisce col falsare la
realtà stessa. Il Manzoni, invece,
anche nel romanzo, come già nelle
tragedie, è rispettoso della verità
storica e quello che vi aggiunge di
fantastico non nasce da una pura e
gratuita invenzione, a fine di diletto,
ma da una cordiale e profonda
penetrazione dei fatti reali allo scopo
di intuire e meglio rappresentare la
verità della vita quale si agita nel
profondo della coscienza umana. Senza
voler essere irriguardosi dell’arte
dello Scott, che fu pure un notevole
scrittore, ci sembra di poter affermare
che fra i romanzi dell’inglese e
quello del Manzoni corre la stessa
differenza che separa i romanzi
d’appendice da un grande poema
esistenziale. Le edizioniI motivi fondamentali: la Provvidenza e la StoriaLa trama del romanzo è fin troppo nota ai nostri giovani lettori che vorranno perciò scusarci se non ci addentriamo in una descrizione analitica. Riteniamo tuttavia opportuno richiamare alla loro memoria alcuni dati essenziali. Come si sa, il filo conduttore del romanzo è dato dalla vicenda di due umili promessi sposi, Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, che vengono contrastati nel loro disegno di nozze dalla tracotanza di un signorotto locale, don Rodrigo, che ha messo gli occhi sulla formosa Lucia e si avvale di ogni mezzo per farla sua, ricorrendo alla complicità del timoroso Don Abbondio, ma anche all’influenza di cui son capaci i suoi potenti parenti di Milano, quando è necessario ridurre all’impotenza quel certo Padre Cristoforo, che ha osato prendere le difese di una insignificante contadina mettendosi contro un nobile casato. Don Rodrigo, forte della protezione che la società del tempo gli offre, non rinunzia alla sua impresa neppure quando non ha altra scelta che il rapimento della ragazza, che egli tenta una prima volta con i suoi bravi, senza successo, e poi con l’aiuto di un ribaldo più potente di lui (l’Innominato). La vicenda si svolge tra il 7 novembre 1628 e la fine del 1630 nella Lombardia dominata dagli Spagnoli. Ha inizio in un piccolo paese tra Como e Lecco, ma si estende poi in uno scenario ben più vasto coinvolgendo soprattutto Monza, il Bergamasco, Milano. La vicenda dei protagonisti è essenziale all’Autore per poter esprimere la sua profonda ispirazione, il suo Vero, che consiste nella eterna lotta tra il Bene ed il Male, ma essa si inserisce costantemente in situazioni ben più rilevanti della storia di quegli anni (la carestia, la peste, la guerra per la successione al ducato di Mantova, la discesa dei Lanzichenecchi; il malgoverno spagnolo, la crisi della giustizia, le violente contestazioni popolari, ecc.) senza per questo annullarsi e neppure ridimensionarsi agli occhi del lettore, che partecipa al dramma dei due giovani promessi (come a quello di tanti altri personaggi minori: ad esempio, la madre di Cecilia) con non minore commozione di quella che lo coglie alla visione dei campi desolati e inariditi dalla siccità, delle strade di Milano ora invase dalla folla tumultuante ora squallidamente deserte per timore della peste, dell’agghiacciante scenario del Lazzaretto. Forse è proprio qui il segreto della “coscienza storica” del Manzoni, che non riesce a cogliere alcun significato nei grossi avvenimenti della storia se non verificandone cause ed effetti nelle singole coscienze degli uomini, potenti od umili che siano, dato che la vera tragedia della storia è lì che si compie. E che di tragedia si tratti è dimostrato dalla considerazione, tutt’altro che gratuita, che la vita è essenzialmente “dolore”, l’egoismo non paga, la fede in una superiore Giustizia resta l’unica risorsa dell’uomo per fargli accettare la vita come dolore ed il Bene come un valore. Si spiega così nel romanzo la costante presenza della Provvidenza, che non è un personaggio a sé stante come i miti delle divinità pagane nelle opere classiche, ma è indistintamente, impalpabilmente dappertutto: è l’anima stessa della storia. D’altra parte la storia, al di là delle apparenze che ce la mostrano assai spesso in contrasto con la Legge di Dio, non può che tendere verso il fine supremo prescritto da Dio. Scrive a proposito il Sapegno: «In questo mondo basso, più triste che lieto, l'opera di Dio la senti soprattutto nelle tribolazioni, negli affanni, e in quegli spiragli di luce che s'aprono improvvisi in mezzo alle tenebre dell'angoscia e chiudono le porte alla disperazione... E' una presenza paterna, amorosa e severa, che palpita in ogni cosa; e il poeta l'avverte con la fede semplice e intatta di un fanciullo, la fede dei suoi contadini e di tutta la povera gente... Non a caso i Promessi Sposi sono stati chiamati il romanzo della Provvidenza». Ma se questo è vero, è pure vero che «se davvero di un protagonista sensibile si vuol parlare - come osserva il Russo -, bisognerebbe pensare e sostenere che protagonista è tutto un secolo, è tutta una civiltà, protagonista vero e immanente in ogni pagina è il Seicento». Leggiamo questa pagina interessantissima del Russo: «Di quel secolo egli viene tracciando l'intera vita, la quale, perché svuotata del sentimento intimo di Dio, deve essere necessariamente vana, pomposa, barocca. Il puntiglio e l'orgoglio, ecco le più vere divinità di quel secolo esteriore e farisaico. Don Rodrigo muove tutta l'azione per spuntare un impegno, per tenere fede a una vile scommessa; il conte Attilio e il conte zio debbono sostenere l'onore del casato; il podestà, l'onore della formale dottrina giuridica; don Ferrante, il più innocente di tutti, l'onore della scienza umbratile ed inutile e quello delle buone regole ortografiche. Il cancelliere Ferrer, per tutelare l'onore del governo, prima abbassa il prezzo del pane, e poi sguinzaglia i suoi bargelli; e don Gonzalo Fernandez de Cordova, per salvare l'onore di un trono, conduce una guerra funesta per la conquista del Casal Monferrato. Più cupo di tutti, come eroe di questo pregiudizio dell'onore e del decoro, il principe-padre, che sacrifica e conduce alla perdizione una figliuola. Del farisaismo del secolo il principe-padre è forse l'espressione più complessa. Nessuno vìola lo spirito formale delle leggi; nessuno impone, apertamente, la sua volontà. Il principe non adopera mai parole grosse. Egli ha un rispetto pieno di cortesia della volontà, delle inclinazioni, degli affetti della figlia; ma sulla sua volontà egli agisce, per vie indirette, quasi magicamente, demiurgicamente, creando tutta una atmosfera, che deve ispirare a poco a poco certi determinati sentimenti». Quindi
i veri protagonisti
del romanzo
sono la Provvidenza e la Storia.
Questo secondo protagonista ha un nome:
il Seicento. E come tutti i personaggi
storici del romanzo ha una sua
fisionomia inconfondibile che non può e
non deve essere alterata. Non per niente
il Manzoni, prima di accingersi a
scrivere l’opera, si è
abbondantemente documentato sulla
realtà storica di quel periodo,
leggendo le storie di Giuseppe Ripamonti
e di Pietro Verri, l’ “Economia
statistica” di Melchiorre Gioia,
la vita di Federico Borromeo scritta da
Francesco Rivola, ma soprattutto
un’infinità di cronache e documenti
sparsi. Ciò non toglie, però, che quel
secolo fu scelto a protagonista
dell’opera più per rispetto di un
principio teorico del Manzoni (“l'interessante
per mezzo”) che per autentiche
esigenze di ispirazione. Esso infatti,
rappresentando la vita sociale,
politica, economica, religiosa e,
quindi, morale
della Lombardia soggetta agli Spagnoli,
richiamava la condizione attuale dei
Lombardi soggetti agli Austriaci. Ma
l’esigenza di scavare nel fondo degli
avvenimenti reali per mettere a nudo il
vero dramma degli uomini, soprattutto
degli umili, coinvolti nell’eterna
lotta tra il Bene ed il Male, certamente
il poeta l’avrebbe potuta soddisfare
con qualsiasi altra epoca storica. E'
perciò più giusto affermare che non il
Seicento, ma la Storia intesa come
tragedia umana è il secondo
protagonista del romanzo, che per questo
è stato definito il romanzo
degli umili. Il romanzo degli umili: l'umorismoScrive ancora il Sapegno: «Questo fondo popolano tiene una parte grande, predominante, nella struttura del romanzo. Anche il quadro storico, in cui tutta la vicenda si inserisce, non tocca se non di passata gli eventi politici, diplomatici, bellici, quelli insomma che formano essenzialmente e quasi esclusivamente la trama di una storia nel senso corrente del termine, e si specifica piuttosto in una serie di quadri d'ambiente e di costume, per cui si delinea, non il corso solenne dei fatti, sì il colore, la fisionomia minuta e variegata di un'epoca. E quando un avvenimento di vasta portata -il malgoverno spagnolo, la carestia, la guerra, la peste- penetra nel racconto, è visto non in una considerazione astratta e disinteressata da storico professionale, bensì in quanto aderisce alla vita degli umili, li agita, li fa soffrire, reca un improvviso sconquasso nelle loro abitudini e nelle loro coscienze. Naturalmente, in quella rappresentazione vasta e complessa di un periodo storico visto nei suoi riflessi umani e quotidiani, debbono entrare anche i grandi, i personaggi illustri, i rappresentanti dei ceti e degli ordini privilegiati; ma vi entrano, come è giusto, in funzione subordinata: o per antitesi, come le ombre che hanno il compito di delimitare e porre in rilievo le zone di luce; ovvero come elementi di sostegno e di conforto del concetto che regola la rappresentazione nel suo complesso, in quanto si tratti di potenti che s'adeguano al mondo degli umili e si mettono al loro servizio.» A questo mondo di umili il Manzoni aderisce con intima cordialità e profonda solidarietà. E se pure è vero che egli tratti quella povera gente con affetto e con simpatia, ma pur sempre con un certo compiaciuto divertimento nel sottolineare l’ingenuità od anche l’astuzia proverbialmente contadinesca (“scarpe grosse e cervello fino”), è senz’altro da scartare l’ipotesi di un atteggiamento volutamente malizioso ed è piuttosto da riscontrare in ciò la registrazione fedele di un rapporto genuino, non farisaico, fra l’Autore, aristocratico intellettuale, e le sue umili creature. E forse proprio grazie a questa
genuinità di rapporti è nato il tono
umoristico del romanzo, che poi ha
assunto l’ufficio, ben più importante
ed essenziale all'ispirazione
etico-religiosa, di far da livellatore
tra la severità del giudizio morale e
l’umana comprensione o di limitare
l’asprezza della polemica
sociale
(Così
va il mondo, o almeno così andava nel
secolo decimosettimo!”). I personaggi
Ricchissima la galleria dei personaggi tratti dalla storia, come il cardinale Federico Borromeo, la monaca di Monza (figlia del conte Martino de Leyva), l’Innominato (Francesco Bernardino Visconti), il suo amico Egidio (Gian Paolo Osio), il gran cancelliere Antonio Ferrer, lo stesso |