GIACOMO LEOPARDI
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«Questo
è il
sentimento che riempie di
sé tutta l'opera leopardiana: la
desolata nostalgia d'una felicità
sconosciuta ed assurda, la disperata
aspirazione verso un mondo migliore.
Nelle più riuscite fra le
"Operette", come nei
"Canti", la poesia non nasce
dalla brutta realtà ma dal vano bisogno
di superarla... Così nelle
"Operette" come nei
"Canti" questa realtà grigia
si disegna sul fondo luminoso di un
ideale: e l'impressione dominante è
quella di una delusione non rassegnata». Queste parole di Attilio Momigliano bastano da sole a definire il mondo poetico del Leopardi; e di una definizione sintetica il giovane lettore aveva certamente bisogno dopo la lunga attenzione dedicata ai “Canti”. Ma
queste parole valgono anche come
magistrale premessa allo studio delle
“Operette
Morali” perché ci danno subito
una indicazione preziosa: che le “Operette”
sono
certamente opere di poesia a
dispetto dello stesso Autore che voleva
forse farne opera di filosofia e che
anche per questo aveva adottato la
prosa. Anche per questo, ma la ragione
più profonda, quella che si impone da sé
all’artista, certamente derivò dalla
condizione particolare in cui venne a
trovarsi l’animo del Poeta, costretto
nuovamente, dopo la squallida parentesi
romana, a rinchiudersi in Recanati senza
alcuna prospettiva per un futuro
migliore (resterà nel “borgo
selvaggio” dal 1822 al 1825, fino
a quando, cioè, ebbe l’invito di
recarsi a Milano dall’editore Stella;
la maggior parte delle “Operette”
risalgono al 1824). Nelle “Operette Morali” il Leopardi ci vuol dare “la descrizione concreta della vita e la dimostrazione che essa è ignobile e misera” (Momigliano) e a questo scopo non serve il ritmo del verso, l’immagine icastica che sorge per incanto da un sostantivo, da un aggettivo, e che invita la fantasia a prodursi in un volo acrobatico nella stratosfera del sentimento: serve invece il tono dimesso, che più agevolmente scivola nei meandri della coscienza, il sottile linguaggio del persuasore che deve inculcare una amara verità. Eppure anche nella prosa delle “Operette” il Leopardi è soltanto poeta: «Sembra prosa riflessiva - osserva il Momigliano -, ragionativa, ma in fondo non è. Si paragoni, per esempio, con quella del “Principe”; e si vedrà che qui si può sempre isolare il periodo o il breve tratto che, anche in sé, ha il suo significato e il suo rilievo, perché la sua forza deriva dal pensiero, da una riflessione morale o psicologica: nelle “Operette” questo non succede, perché il motivo è diffuso, è uno stato d’animo assai più che una osservazione o una constatazione: e anche le “Operette”, come i “Canti”, sono, nella loro viva essenza, un’autobiografia sentimentale». Insomma il Leopardi prosatore non cessa di essere poeta; e se si risolve a scrivere in prosa è perché egli in questi anni, “ripiegandosi su se medesimo - come nota il Fubini - trova purificati e chiariti i motivi originari del suo pessimismo, formulati in alcuni concetti tra logici e fantastici a cui egli si può rivolgere con un moto di affetto, di amore e di odio”: non per nulla le pagine più vive e palpitanti sono quelle in cui riaffiorano le rimembranze degli ameni inganni, si riaccendono lumi di speranza nonostante la piena consapevolezza che la vita è male. Le “Operette Morali” composte dal Leopardi furono 26. Due, però, il Poeta stesso le ripudiò successivamente, sicché l’edizione definitiva curata da lui stesso tra il 1834 ed il 1835 ne comprende 24. Di queste, 19 furono scritte nel 1824, una nel 1825, due nel 1827 e due nel 1832. Le “Operette” non vanno intese singolarmente, come opere a se stanti, ma nel loro insieme, perché tutte rappresentano un'opera d’arte sostanzialmente unitaria per tono ed ispirazione. Questo anche se alcune sono in forma di dialogo (ad imitazione dei dialoghi ironici dello scrittore greco Luciano di Samosata, 121-180 d.C.) ed altre in prosa continuata. Vari documenti
danno la certezza che
il
Leopardi meditasse da tempo sul
progetto di queste “Operette”:
nel 1818 scrisse che aveva in animo di
dare all'Italia un nuovo tipo di prosa
in cui “la
lingua e lo stile essendo classico e
antico paresse moderno e fosse facile ed
intendere e dilettevole così al volgo
come ai letterati”; nel 1819
affermò di volere scrivere alcuni “dialoghi
satirici alla maniera di Luciano... tra
personaggi che si fingono vivi, ed anche
volendo, fra animali”; nel 1821
annunciava: «Io
cercherò di portare la commedia a
quello che finora è stato proprio della
tragedia, cioè i vizi dei grandi, i
princìpi fondamentali della calamità e
miseria umana, gli assurdi della
politica, le sconvenienze appartenenti
alla morale universale e alla filosofia,
l’andamento e lo spirito generale del
secolo, la somma delle cose, della
società, delle civiltà presente»
(da qui forse derivò l’idea di
definire “morali”
le sue future operette); e sempre nel
1821, quasi a voler giustificare per
tempo quella che sarebbe stata una
tendenza abbastanza diffusa nella sua
opera di prosatore, e cioè la
rievocazione di “favole
antiche”,
scrisse: «Io
non voglio credere alle allegorie né
cercarle nella mitologia o invenzioni
dei poeti o credenze del volgo. Tuttavia
la favola di Psiche, cioè dell’anima,
che era felicissima senza conoscere e
accontentandosi di godere, e la cui
infelicità provenne dal voler
conoscere, mi pare un emblema così
conveniente e preciso, e nel tempo
stesso così profondo della natura
dell’uomo e delle cose, della nostra
destinazione vera
su questa terra, del danno del
sapere, della felicità che si
conveniva, che unendo questa
considerazione col manifesto significato
del nome Psiche appena posso discredere
che quella favola non sia un parto della
più profonda sapienza e cognizione
della natura dell’uomo e di questo
mondo»; e, ancora più
esplicitamente, qualche mese dopo: «Uno
dei principali dogmi del cristianesimo
è la degenerazione dell’uomo da uno
stato primitivo più perfetto e
felice... Il principale insegnamento del
mio sistema è appunto la detta
degenerazione. Tutte, pertanto, le
infinite osservazioni e prove generali o
particolari ch’io adduco per
dimostrare come l’uomo fosse fatto
primieramente alla felicità, come il
suo stato perfettamente naturale, che
non si trova mai nel fatto, fosse per
lui il solo perfetto, come quanto più
ci allontaniamo dalla natura tanto più
diveniamo infelici... ». Se però il Leopardi
meditava da tempo la composizione delle
“Operette”,
bisogna riconoscere che a queste pose
mano quando il suo “istinto”
poetico glielo impose. Ed anche se parla
di sistema ed afferma di voler
dimostrare
con osservazioni e prove generali
la degenerazione della condizione umana,
in effetti anche in queste prose dà
corpo alla propria immaginazione ed
esprime i propri sentimenti: non è cosa
assai ardua “rendersi
conto della sostanziale unità -
come sostiene il Ferretti - che
accomuna l’opera poetica e quella in
prosa del Leopardi, poeta in quanto
filosofo e filosofo in quanto poeta, più
conscio forse d’esser filosofo, cioè
di aver offerto ai suoi lettori la
documentazione di un pensiero originale
e coerente, che d’esser poeta: ma, per
noi, essenzialmente poeta non meno nella
limpida prosa che nei versi concettosi,
perché non meno in quella che in questi
muove l’immaginazione, cioè fa
rivivere in noi il suo mondo interiore”.
«...fatto accorto, per le cose passate, della propria natura degli uomini, e che non può loro bastare, come agli altri animali, vivere ed essere liberi da ogni dolore e molestia del corpo; anzi, che bramando sempre e in qualunque stato l'impossibile, tanto più si travagliano con questo desiderio da se medesimi, quanto meno sono afflitti dagli altri mali; deliberò valersi di nuove arti a conservare questo misero genere: le quali furono principalmente due. L'una mescere la loro vita di mali veri; l'altra implicarla in mille negozi e fatiche, ad effetto di intrattenere gli uomini, e divertirli [= distrarli] quanto più si potesse dal conversare col proprio animo, o almeno col desiderio di quella loro incognita e vana felicità.
Quindi primieramente diffuse tra loro una varia moltitudine di morbi e un infinito genere di altre sventure; parte volendo, col variare le condizioni e le fortune della vita mortale, ovviare alla sazietà e crescere colla opposizione dei mali il pregio de' beni; parte acciocché il difetto dei godimenti riuscisse agli spiriti esercitati in cose peggiori, molto più comportabile che non aveva fatto per lo passato; e parte eziandio con intendimento di rompere e mansuefare la ferocia degli uomini, ammaestrarli a piegare il collo e cedere alla necessità, ridurli a potersi più facilmente appagare della propria sorte, e rintuzzare negli animi affievoliti non meno dalle infermità del corpo che dai travagli propri, l'acume e le veemenza del desiderio...
E per escludere la passata oziosità, indusse nel genere umano il bisogno e l'appetito di nuovi cibi e di nuove bevande, le quali cose non senza molta e grave fatica si potessero provvedere, laddove insino al diluvio gli uomini, dissetandosi delle sole acque, si erano pasciuti delle erbe e delle frutta che la terra e gli arbori somministravano loro spontaneamente, e di altre nutriture vili e facili a procacciare, siccome usano di sostentarsi anche oggidì alcuni popoli, e particolarmente quelli della California... Esso medesimo diede leggi, stati e ordini civili alle nuove genti; e in ultimo volendo con un incomparabile dono beneficiarle, mandò tra loro alcuni fantasmi di sembianze eccellentissime e soprumane, ai quali permise in grandissima parte il governo e la potestà di esse genti: e furono chiamati Giustizia, Virtù, Gloria, Amor patrio e con altri sì fatti nomi. Tra i quali fantasmi fu medesimamente uno chiamato Amore, che in quel tempo primieramente, siccome anco gli altri, venne in terra: perciocché innanzi all'uso dei vestimenti, non amore, ma impeto di cupidità, non dissimile negli uomini di allora da quello che fu di ogni tempo nei bruti, spingeva l'un sesso verso l'altro, nella guisa che è tratto ciascuno ai cibi e a simili oggetti, i quali non si amano veramente, ma si appetiscono.»
In
questa terza
età
gli uomini condussero
una vita abbastanza tollerabile,
ma poi si stancarono anche di essa e
cominciarono a pretendere di conoscere
la verità. Giove, seccato di questa
eterna incontentabilità degli uomini,
mandò in terra la Verità e rimosse
tutti gli altri antichi fantasmi, ad
eccezione dell'Amore: sorse così la
quarta ed ultima età dell'uomo, quella
della infelicità. La seconda delle “Operette” è in forma di dialogo e si intitola appunto “Dialogo d’Ercole e di Atlante”. Anche qui la materia è tratta da una favola mitologica: Ercole, per volere di Giove, si reca da Atlante per aiutarlo a sostenere la sfera terrestre. Questa però non ha più quasi alcun peso e sembra morta o addormentata. Per scuoterla in qualche modo decidono di giocare “a palla”, ma la sfera cade loro di mano e dopo un botto sembra per davvero morta. I due si spaventano: Atlante si affretta a riporsi il carico su |