GIACOMO LEOPARDI
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I grandi idilli
Sempre a Pisa, nello stesso anno 1828, il Poeta scriverà una delle sue poesie più belle, “A Silvia”, il primo dei “Grandi Idilli”, cui seguirono, tra il 1829 ed il 1830, gli altri cinque composti a Recanati, dove era stato costretto a ritirarsi per il ricomparire dei suoi soliti malanni fisici.
Questi canti, scritti “in sedici mesi di notte orribile”, costituiscono il capolavoro del Leopardi. E' bene precisare subito che nei grandi idilli il Leopardi confonde il suo dolore con quello universale, che “canta” ispirandosi ai cari ricordi della fanciullezza: la rimembranza antica avvolge d’un velo di pudore il pianto del cuore e consente al Poeta un sentimento di tenerezza che lo tiene lontano sia dall'invettiva consueta contro il destino e, più ancora, contro la Natura, sia dal bisogno di usare le “tinte fosche” che meglio converrebbero alla sua ispirazione. Più che cantare gli effetti brutali del dolore che sommerge impietosamente tutto ciò che esiste, egli canta tutto ciò che di bello, di verginale, di consolante si trova purtroppo solamente nei sogni dell’infanzia e non mai nella realtà: quei sogni, quelle illusioni, quegli “ameni inganni” non possono rivivere che in versi sognanti, in versi accarezzati dalle dolci note di una musica lontana, che erano liete ed ora si caricano via via di una tenera malinconia: non trovano posto la disperazione e la rabbia; ed anche quando il Poeta non può fare a meno di riconoscere ed affermare per l'ennesima volta che “è funesto a chi nasce il dì natale”, il tono della voce è pacato, il cuore sembra non aver dimenticato l’immagine sognata della Primavera che ride a un suo segreto amante, gli occhi sono asciutti di pianto, forse perché non hanno più lacrime da versare, ma forse anche perché il Poeta non ha cuore di intristire il ricordo della sua fanciullezza (come appunto si fa dagli adulti che nascondono le proprie pene ai fanciulli). Il primo dei grandi idilli fu, come già detto, “A Silvia”, composto a Pisa nel 1828. Anche questo canto, come già “Il sogno”, rievoca la tenera immagine di Teresa Fattorini, morta giovanissima (all'età di 21 anni, ma il Poeta anticipa la morte ancor prima del “limitar di gioventù”, in quanto la fanciulla qui è assunta come simbolo della caduta d’ogni sua antica speranza). In “A Silvia” il Leopardi rievoca gli anni della sua prima adolescenza, quando sovente si affacciava alla finestra rapito dal canto della fanciulla, che sognava un lieto avvenire. Ma la sorte le fu avversa e stroncò violentemente ogni cara illusione:
Ecco come è descritta la morte prematura della fanciulla: solo due parole vestite a lutto: “morbo” e “perivi”; tutte le altre vestite a festa: a cominciare da quel “tenerella” - che vien subito dopo “perivi”- che non sembra affatto riferita ad una fanciulla sul letto di morte, ma piuttosto ad una bambinella che ti gironzola intorno timidamente allegra; e poi: “il fior degli anni”, “molceva”, “dolce lode”, “negre chiome”, “sguardi innamorati”, “dì festivi”, “amore” ! Tornano alla mente le parole del De Sanctis: “chiama illusioni l'amore..., e te ne accende in petto un desiderio inesausto”. E si noti con quanto affetto e - diremmo quasi - riconoscenza il Poeta si rivolge alla Speranza, che lo ha abbandonato dopo averlo illuso ma anche allietato negli anni dell'adolescenza:
Quasi certamente l’anno dopo, nel 1829, dopo il ritorno a Recanati, il Leopardi compose quel canto che aveva in mente da circa dieci anni e che volle inserire tra i piccoli idilli: “Il passero solitario”. E' infatti l'unico di questo ciclo che si ispiri al “dolore personale”. Ma lo stile è quello adulto del Leopardi maggiore. La canzone, a schema libero, si divide in tre strofe: la prima descrive il modo di vivere del passero solitario, che non si cal d’allegria, schiva gli spassi, canta e così trascorre il più bel fiore dell’anno e della sua vita; la seconda strofa descrive la vita giornaliera del Poeta, assai simile a quella del passero solitario, perché anch’egli non cura sollazzo, riso e amore ed anzi da loro quasi fugge lontano, rinviando ogni diletto in altro tempo, nonostante il tacito ammonimento del sole che, dileguandosi tra lontani monti dopo il giorno sereno, “par che dica che la beata gioventù vien meno”; nella terza strofa c’è l’amara conclusione che si ricava dal raffronto delle due vite:
Questo canto è singolarissimo nella produzione leopardiana: concepito in età di circa ventun anni, già a quell’epoca si ispirava ad una situazione psicologica più antica ed era perciò scevro di ogni urgenza passionale e conseguentemente di ogni tinta drammatica. Rievocato poi in età di trentun anni, lasciò intatta la sua primitiva freschezza, quasi per nulla risentendo del travaglio intellettuale intercorso nel frattempo nell’Autore delle “Operette Morali”. Il quale, con la sua sensibilità di grande poeta, ben comprese che il posto da assegnare a questo canto nella raccolta era tra i primi idilli. E qui l’avremmo lasciato volentieri anche noi, se avessimo saputo rinunziare per una volta allo scrupolo didattico, se cioè non ci fossimo posti il dubbio che il giovane lettore avrebbe potuto non comprendere le ragioni più intime del salto di qualità dello stile conseguito dal Poeta.
Ma il Poeta sa bene che la sventura non è soltanto sua:
Anzi la vita tutta è niente altro che “inutile miseria”:
L’ultima strofa rievoca un personaggio femminile, Nerina, morta in giovane età e perciò assunta dal Leopardi come simbolo della giovinezza infranta, del fatale crollo d’ogni speranza all’apparir del vero, dell’inconsistenza delle illusioni umane. Si è a lungo discusso se Nerina fosse solamente un simbolo od anche il ricordo di una fanciulla realmente esistita ed amata dal Poeta. La concretezza di molti riferimenti che il Leopardi fa alla vita vissuta da Nerina fa propendere per la seconda ipotesi. In tal caso, però, risulta difficile risalire all’individuazione della donna cui si riferirebbe il Poeta: gli studiosi sono divisi fra la Teresa Fattorini del canto “A Silvia” ed una certa Maria Belardinelli che sei anni prima di morire andò a vivere con la famiglia a Recanati ed abitò nei pressi della casa Leopardi (morì il 3 novembre 1827, in età di 27 anni). E' chiaro che, in mancanza di una qualche indicazione dello stesso Autore, non si possa andare al di là di semplici congetture, ma è ancora più chiaro che poco interessi alla comprensione del canto conoscere la verità: Nerina è Nerina come Silvia è Silvia: due momenti della “storia dell’anima” leopardiana, due fantasmi evocati dal sepolcro dei sogni infranti:
Riferimenti concreti che fanno pensare ad una creatura reale. Ma Nerina è soprattutto il simbolo della rapidità con cui passano i sogni, della nostalgica ricordanza che ne avanza e su cui mesto riluce delle stelle il raggio. Sembra quasi che nel Leopardi la Natura, una volta tanto, appaia pietosa della condizione umana (come i foscoliani “rai di che son pie le stelle alle obliate sepolture”), ma non è così perché anche qui è lo stato soggettivo del Poeta a sentir mesto il raggio delle stelle, come già prima gli era apparso “nebuloso e tremulo” il volto della luna. «Ma veramente una
giovane
dai sedici ai diciotto anni ha
nel suo viso, ne' suoi moti, nelle sue
voci, salti, ecc., un non so che di
divino, che niente può agguagliare.
Qualunque sia il suo carattere, il suo
gusto; allegra o malinconica,
capricciosa o grave, vivace o modesta;
quel fiore purissimo, intatto,
freschissimo di gioventù, quella speranza
vergine, incolume
che gli si legge nel viso e negli atti,
o che voi nel guardarla concepite in lei
e per lei; quell'aria d'innocenza, di ignoranza
completa del male, delle
sventure,
de'
patimenti; quel fiore insomma, quel
primissimo fior della vita; tutte queste
cose, anche senza innamorarvi, anche
senza interessarvi, fanno in voi una
impressione così viva, così profonda,
così ineffabile, che voi non vi saziate
di guardar quel viso, ed io non conosco
cosa che più di questa sia capace di
elevarci l'anima, di trasportarci in un
altro mondo, di darci un'idea d'angeli,
di paradiso, di divinità, di felicità...
Del resto se a quel che ho detto, nel
vedere e contemplare una giovane di
sedici o diciotto anni si aggiunga il
pensiero dei patimenti che l'aspettano,
delle sventure che vanno ad oscurare e a
spegnere ben tosto
quella pura gioia, della vanità
di quelle care speranze, della
indicibile fugacità di quel fiore, di
quello stato, di quelle bellezze; si
aggiunga il ritorno sopra noi medesimi;
e
quindi un sentimento di compassione per
quell'angelo di felicità, per
noi medesimi, per la sorte umana,
per la vita,
(tutte cose che non possono
mancar di venire alla mente), ne segue
un affetto il più vago e il più
sublime che possa immaginarsi.» Un esame approfondito
e dettagliato di questo brano (che
lasciamo alla sensibilità ed alla
intelligenza del giovane lettore)
consentirà un contatto più diretto con
gli "ameni
inganni” che allietarono la
fanciullezza e l'adolescenza del
Leopardi ed una presa di coscienza dell'
"animo”
con cui il Poeta li rievocò da adulto,
dopo avere scoperto il vero volto della
realtà ed avere sperimentato sulla
propria persona "il
male di vivere”. In soli quattro giorni (17-20 settembre 1829) il Leopardi compose "La quiete dopo la tempesta”, che consta di tre strofe di diversa lunghezza: nella prima il Poeta descrive la gioia festosa che sopraggiunge negli uomini quando, passata la tempesta, ricompare il sereno: "Ogni cor si rallegra, in ogni lato / risorge il romorio, / torna il lavoro usato”; nella seconda medita sulla consistenza di questo piacere che non esiste in positivo, ma è soltanto "figlio d'affanno”, "gioia vana”, "frutto del passato timore”; nella terza, infine, ringrazia sarcasticamente la Natura per i doni che porge ai mortali:
Pochi giorni dopo il Poeta compose “Il sabato del villaggio”, che è tra gli idilli più suggestivi per la grazia e la soavità con cui viene descritta l’attesa della festa in un semplice villaggio. Una serie di quadretti luminosi e riposanti e solo sullo sfondo il colore della malinconia che tarda a mettersi in evidenza: la donzelletta che viene dalla campagna recando un mazzo di fiori che serviranno ad incorniciare la sua fresca bellezza il dì di festa; la vecchierella che siede di fronte al sole cadente (simbolo anche del suo imminente tramonto) e si lascia per un po' trasportare in questa atmosfera di spensieratezza, riandando sull'onda dei ricordi al tempo della sua giovinezza, quando ancora sana e snella, festeggiava con la danza i suoi anni migliori; i fanciulli che gridano festosi nella piazza; lo zappatore che torna a casa fischiettando, mentre il falegname si affretta a completare il lavoro per rendersi libero la domenica. Tutto questo per nulla adombrato dallo sfondo che, però, alla fine emerge e si impone all'attenzione dell'osservatore:
Morale: la felicità non esiste in atto; esiste solo nella speranza d’un futuro migliore (che poi si svelerà come un inganno) o nella rimembranza del tempo passato (ricordando cioè gli anni della speranza senza tener conto della realtà che ne seguì). Ecco perché il sabato è il miglior giorno della settimana e non già la domenica, che non appaga le attese della vigilia; e la fanciullezza è la migliore stagione della vita umana, perché precorre alla festa della vita, che è l’età virile, che poi sarà inevitabilmente piena di affanni e di pene. Il canto termina con un'esortazione ai fanciulli di godersi la loro età felice e di non crucciarsi se la maturità tardi a venire:
L'ultimo dei grandi idilli è il “Canto notturno di un pastore errante dell'Asia”, il capolavoro dei capolavori, secondo il nostro giudizio. L'idea di questo canto venne al Poeta da un articolo del barone Meyendorff comparso nel settembre del 1826 sul “Journal des Savants”, in cui si diceva dell'esistenza di pastori nomadi asiatici che usavano trascorrere la notte, seduti su di una pietra, a contemplare la luna ed a sfogare le proprie tristezze. Il Poeta presta i propri pensieri ed i propri sentimenti alla semplice ed ingenua voce del pastore e fa interrogare la luna sul mistero della vita. La vita della luna è simile a quella del pastore: sorge la sera e va contemplando i deserti fino al suo tramonto, proprio come il pastore che “sorge in sul primo albore, move la greggia oltre pel campo, e vede greggi, fontane ed erbe”, finché a sera, stanco, si riposa. L'unica differenza è che il corso della luna è immortale, la vita del pastore breve. Ma qual è il fine di entrambi? La vita dell'uomo è paragonabile ad un vecchio che trascina a fatica le sue infermità e le sue miserie “per sassi acuti, ed alta rena, e fratte”, finché giunge al termine del suo corso: un precipizio che lo annienta nel nulla. Infatti già il nascere, per l’uomo, è causa di tormento e rischio di morte. Poi, fin da fanciullo, i genitori debbono consolarlo dell'esser nato. Ma, “se la vita è sventura, perché da noi si dura?” |