ALTRI
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Il carme, che non fu mai ultimato e neppure definitivamente ordinato dal Foscolo, si compone di numerosi frammenti lirici, in sé compiuti, per un totale di circa 1300 versi sciolti. Già nel 1802, nel discorso sulla “Chioma di Berenice”, il Poeta inseriva alcuni frammenti lirici (da lui attribuiti - per prendersi gioco dei dotti del tempo - al poeta alessandrino Fanocle), che in seguito avrebbe utilizzato per il carme. Ma gli anni che dedicò maggiormente alla composizione de “Le Grazie” furono il 1812 ed il 1813. Inizialmente il Foscolo concepì il carme in un unico Inno, ma successivamente il disegno si ampliò e gli inni divennero tre. In quegli anni Antonio Canova, il più illustre scultore neoclassico italiano, aveva appena ultimato una statua rappresentante Venere che esce dal bagno e stava iniziando a lavorare ad un gruppo delle Grazie per incarico di Giuseppina Beauharnais. Il Foscolo pensò dunque di dedicare proprio al Canova il Carme:
Il problema della frammentarietà
Il Foscolo continuò a
lavorare al carme per tutta la vita, sia pure saltuariamente, ma,
come abbiamo detto, non riuscì ad ultimarlo né a dargli una definitiva
struttura. In più occasioni diede alle stampe singoli episodi, ma
l’opera vide la luce per intero una prima volta nell’edizione
fiorentina di tutte le opere del Foscolo curata dall’Orlandini, poco
dopo la morte dell'Autore. In questa occasione i vari frammenti del carme
furono ordinati in modo alquanto arbitrario. Miglior fortuna “Le
Grazie” ebbero successivamente nelle tre edizioni curate dal
Chiarini, l’ultima delle quali, pubblicata a Livorno nel 1904, sembra
essere la più accettabile, in quanto il critico non ritenne opportuno
costruire un’ideale architettura del carme su congetture ed ipotesi del
tutto personali, ma preferì attenersi all’ordine indicato dallo
stesso Foscolo nel terzo ed ultimo sommario scritto di suo pugno.
Confrontando i frammenti in nostro possesso (che sono certamente tutti
quelli scritti dal Poeta) con detto “sommario”
(che è dettagliatissimo e divide il carme in tre “inni”,
il secondo e il terzo dei quali sono a loro volta divisi ciascuno in tre
parti), si notano la mancanza di alcuni episodi, lo stato di puro abbozzo
di altri, la non certa rispondenza di altri, nella collocazione data dal
Chiarini, alle parti del sommario. In effetti il carme, anche dopo il
lavoro del Chiarini, rimane frammentario nella struttura, né sono da
escludere eventuali ripensamenti che sarebbero potuti intervenire
nell’Autore, dopo quel sommario, in sede di sistemazione definitiva. Ma codesta frammentarietà
strutturale nuoce veramente
alla sostanziale unità artistica del carme? Il Foscolo stesso
avvertì che il carme “ha stile
fra l'epico e il lirico”
e che il suo fine è “didattico”.
Ora, esaminando i vari progetti del Foscolo
tendenti a mettere insieme i vari frammenti in modo che ne risultasse un
disegno complessivo organico ed un discorso coerente, si avverte
chiaramente che tutto ciò doveva rispondere alla sola esigenza “didattica”.
Se il piano è rimasto interrotto e non c’è la possibilità oggettiva
di sostituirci all’Autore per realizzarlo in sua vece, non pare che ci
si debba eccessivamente rammaricare: che l’intendimento didattico
risulti imperfettamente realizzato nell’opera, è cosa di poco conto,
dal momento che i numerosi frammenti si ricompongono da se stessi in una
unità di ispirazione, che è facilmente riscontrabile nel particolare
“tono lirico” del carme,
magistralmente spiegato dal Flora con queste parole: «Dopo
i Sepolcri,
trovata ormai nella poesia una certezza morale che riscatta dal dolore e
dalla morte, l’animo del Foscolo, nei furtivi riposi in cui dalla lotta
del vivere può rifugiarsi nel suo cuor lirico, è come volto all'immagine
stessa della poesia, il ritmo eterno delle Grazie, nel poema del mondo. A
questa rapita certezza, rendendo la vita pratica un ricordo o un
desiderio, l'universo gli si atteggia come la rappresentazione della
bellezza, o anzi dell'armonia, nella forma più pura ch'essa ebbe nei
secoli dell'antica Grecia. La letteratura classica avviva gli affetti del
poeta come con un suo respiro di eterno: quel medesimo che le Muse fa
custodi dei sepolcri. E mai la grecità in cui concorrono Omero e Pindaro
e Callimaco ravvivati nella linfa latina di Catullo ebbe più puro erede».
Ed ecco cosa il Flora pensa circa l’insanabile frammentarietà esteriore
del carme: «Trovare l'ordine
ultimo che il poeta poteva proporsi è assai malagevole: e tuttavia io
direi che ha meno importanza di quel che si creda. Ciò che fa l'unità
delle Grazie
è il tono d'arte raggiunto: è, se fosse possibile dirlo, la grazietà...
E la sottile industria di una più rigorosa edizione delle Grazie,
sarà nell'indulgere a tutte le varie redazioni foscoliane, senza vane
sollecitudini per l'ultima intenzione del poeta, che è irraggiungibile;
e se fosse conosciuta ci priverebbe forse di molta poesia che egli sentì
e che una ricerca di euritmia esterna avrebbe potuto cancellare. Forse è
da benedire la sorte che le Grazie
ci siano giunte così». Anche noi siamo del
parere che forse lo stesso Foscolo avrebbe finito col nuocere alla poesia
delle “Grazie” se avesse
insistito nella costruzione di una architettura artificiale in cui
imprigionare quegli stupendi “frammenti”
nati liberi ed indipendenti.
L'argomento
Il carme può essere così riassunto. Il Foscolo immagina di dedicare, sul colle di Bellosguardo in Firenze (ove visse per alcun tempo), un tempio alle Grazie (le tre figlie di Venere: Eufròsine, Aglàia e Talìa), dato che gli Antichi, pur venerandole sempre, non ne fecero mai oggetto di culto specifico e sempre le accomunarono al culto di Venere:
L’effetto benefico delle Grazie si propagò dapprima in Grecia e per due volte esse furono ospiti dell’Italia, prima in Roma, nell’età antica, poi in Firenze, durante il Rinascimento. Ora però le Grazie sembrano essere state bandite dagli uomini. Il Poeta promette di rinnovarne il culto nel tempio da lui eretto a Bello- sguardo ed implora il loro ritorno:
Il secondo Inno, intitolato a Vesta
(simbolo delle virtù umane), rappresenta il sacro rito che si celebra
dinanzi all’ara delle Grazie, cui il Poeta invita i giovinetti che la
guerra non ha ancora strappati alle madri, perché allontanino i profani
dalla sacra soglia del tempio. Il rito si compie con l’ausilio di tre
bellissime sacerdotesse - tre donne amate dal Foscolo: Eleonora Nencini di
Firenze, Cornelia Rossi Martinetti di Bologna e Maddalena Marliani Bignami
di Milano - che rappresentano rispettivamente la musica, la poesia e la
danza. La prima sacerdotessa, la Nencini, esce dal suo palazzo di Firenze (il palazzo Pandolfini, la cui costruzione il Foscolo attribuisce erroneamente a Raffaello Sanzio, mentre fu opera di Gianfrancesco Sangallo e Bastiano d’Aristotile) e si accosta all’ara per offrire alle Grazie il suono dell’arpa:
La seconda sacerdotessa, la Martinetti, offre alle dee un favo, simbolo dell’eloquenza e della poesia, mentre il Poeta coglie l’occasione per fare un rapido excursus della letteratura greca e italiana (le due anime del Foscolo), rievocando Omero, Corinna, Pindaro, Saffo, Dante, Petrarca, Boccaccio, Boiardo, Ariosto, Tasso:
La terza sacerdotessa, la Bignami, danza leggiadramente dinnanzi all’altare delle Grazie e consacra loro un cigno offerto in voto dalla viceregina d'Italia Amalia Augusta di Baviera per ringraziare gli Dei del ritorno del marito, Eugenio Beauharnais, dalla campagna germanica del 1813:
Il terzo Inno, intitolato a Pallade (simbolo delle belle arti), dopo le prime due parti estremamente lacunose e incomplete, in cui si sarebbe dovuto narrare il soggiorno delle Grazie in compagnia di Venere sulla terra, in cielo e nell’Eliso, ci trasporta, nella sua terza parte, nell’isola mitica di Atlantide, regno di Pallade, ove la Dea fa tessere il velo promesso alle Grazie per proteggerne la grazia e il candore dall’assalto violento delle passioni degli uomini. Quando gli uomini, corrotti dall’avidità e dalla lascivia, si abbandonano ai vizi e si immergono nelle guerre, allora Minerva li abbandona e si rifugia nel suo amabile regno:
Così avvenne quando la Dea decise di por mano al velo delle Grazie:
Le Ore dispongono sul telaio le fila dell’ordito tratte dai raggi del sole mentre le Parche mettono lo stame alla spola; Psiche, pensosa e taciturna, tesse, mentre Tersicore le danza intorno per divertirla ed incoraggiarla; Iride porge i colori a Flora, che li moltiplica in migliaia di varietà, per procedere al ricamo delle figure che Erato le suggerisce cantando al suono della lira di Talia. Infine l’Aurora trapunta di rose gli orli del velo su cui Ebe versa l'ambrosia rendendolo incorruttibile. Le figure sono raggruppate in vari soggetti che rappresentano la gioventù, l’amor coniugale, l’ospitalità, l’amore filiale e quello materno. Terminato il velo,
Infine il Poeta si accommiata dalle Grazie promettendo loro di rinnovare il rito nel mese di aprile e pregandole di vegliare sulla vita della Bignami:
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