Poema
in terzine di endecasillabi, di cento
canti, divisi in tre cantiche (Inferno,
Purgatorio, Paradiso), scritto da Dante
Alighieri. La prima idea di narrare un
viaggio ultraterreno a celebrazione di
Beatrice si può riconoscere in alcuni
versi della canzone giovanile Donne
ch’avete intelletto d’amore (1289
circa):
Diletti
miei, or sofferite in pace
che vostra
speme sia quanto me piace
là ov’è
alcun che perder lei
s’attende,
e che dirà ne
lo inferno: O mal nati,
io vidi la
speranza de’ beati.
|
Il
proposito appare più maturo nella
chiusa della Vita nuova, dove Dante
dichiara, in seguito a una mirabile
visione, di non voler dire di Beatrice
finché non possa trattare di lei più
degnamente. Al poema però egli prese a
lavorare soltanto fra il 1306 e il 1307,
quando interruppe la composizione del
Convivio, e gli risultò chiaro che la
sua personalità avrebbe potuto
esprimersi a pieno, meglio che in un
trattato filosofico, in un’opera nella
quale anche filosofia e scienza
recassero l’impronta di una soggettiva
e drammatica conquista.
L’Inferno
fu dunque composto fra il 1307 e il
1310, il Purgatorio fra il 1310 e il
1313, e l’una e l’altra cantica
vennero pubblicate dopo la morte di
Arrigo VII, quando già il poeta
lavorava al Paradiso, che nella sua
integrità venne alla luce postumo. Il
titolo "Commedia" fu dato
avendo riguardo alla distinzione
medievale fra commedia e tragedia, ossia
al fatto che la materia del poema, sul
principio dolorosa, ha una conclusione
lieta, ma in considerazione pure dello
stile, giacché - secondo la teoria
esposta nel De vulgari eloquentia -
comico è lo stile che può accogliere
in sé anche elementi umili e
realistici. L’epiteto di
"divina" venne proposto dal
Boccaccio nel Trattatello in laude di
Dante, ed ebbe fortuna da quando apparve
la prima volta sul frontespizio di
un’edizione veneziana del 1555.
Dai
racconti medievali di viaggi
nell’oltretomba e dalle descrizioni
popolaresche dell’aldilà il poema
dantesco si differenzia, oltre che per
l’altissima poesia, per la solidità
strutturale. Il viaggio che il poeta
immagina cominciato la sera dell’8
aprile 1300 e durato una settimana - il
tempo della passione e resurrezione di
Cristo nell’anno del grande giubileo
indetto da Bonifacio VIII - si svolge in
un mondo che non ha soltanto contorni
ben definiti, ma rispecchia nel suo
ordine un’organica concezione
dell’universo. L’Inferno è
immaginato come un immenso cono
capovolto che ha l’ingresso sotto
Gerusalemme e il vertice al centro della
Terra, dove sta confitto Lucifero: esso
ebbe origine quando il grande ribelle
precipitò dal cielo e la Terra,
ritraendosi per l’orrore, formò i
continenti dell’emisfero boreale.
Nell’Antinferno, al di qua
dell’Acheronte, stanno gli ignavi e
gli angeli che nel giorno della
ribellione di Lucifero si tennero
neutrali. Il primo cerchio è il Limbo,
dove con i fanciulli innocenti non
salvati dal battesimo si trovano i
magnanimi che, vissuti o innanzi o fuori
dal cristianesimo, praticarono le sole
virtù cardinali. I dannati sono poi
distribuiti in modo che coloro che
peccarono d’incontinenza - lussuriosi,
golosi, avari e prodighi, superbi e
iracondi - occupino i cerchi dal secondo
al quinto; nel sesto, dove comincia la
città di Dite, stanno coloro che
volontariamente mancarono di fede, vale
a dire gli eretici; nel settimo quelli
che peccarono per bestialità, distinti
nei tre gironi dei violenti contro il
prossimo, violenti contro se stessi e le
proprie cose, violenti contro Dio,
natura e arte; nell’ottavo o Malebolge, distinto in dieci cerchi
minori, coloro che commisero frode in
danno di chi non aveva speciali motivi
di fidarsi (seduttori, adulatori,
simoniaci, indovini, barattieri,
ipocriti, ladri, consiglieri di frode,
seminatori di scandali e scismi,
falsari); nel nono coloro che
esercitarono la frode verso chi aveva
ragione di fidarsi, ed essi (tutti
confitti nel ghiaccio di Cocito) si
trovano divisi in quattro zone, Caina,
Antenora, Tolomea, Giudecca, secondo che
tradirono i congiunti, la parte
politica, gli ospiti, imperatori o papi.
Più
semplice è la struttura del Purgatorio,
le cui sette cornici corrispondono ai
sette peccati capitali: superbia,
invidia, ira - che nascono da eccessivo
amore di sé -; ignavia — che è
difetto d’amore —; avarizia, gola,
lussuria — che sono conseguenza di un
amore delle cose non controllato da
ragione. Tenendo conto
dell’Antipurgatorio, nel quale le
anime prima di essere sottoposte alle
varie pene espiano il tardivo
pentimento, e del Paradiso terrestre che
si apre in vetta al monte, anche nella
divisione del Purgatorio si ripete il
mistico numero nove, il quale torna pure
nel Paradiso.
Al
di sopra, infatti, dell’atmosfera
terrestre e della zona di fuoco che la
chiude, si volgono concentrici come
sfere diafane rotanti intorno alla Terra
i nove cieli del sistema tolemaico
(Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte,
Giove, Saturno, Stelle Fisse, Primo
Mobile), al di là dei quali si apre
infinito e immateriale l’Empireo.
Nel
suo viaggio ultraterreno Dante ha come
guida Virgilio sino alla vetta del
Purgatorio, e di qui all’Empireo
Beatrice: quando essa sale a occupare il
seggio che i suoi meriti le hanno
sortito nella Rosa dei beati, affinché
il poeta possa portare a compimento la
visione beatifica di Dio gli è
confortatore e consigliere san Bernardo.
Virgilio, sulla cui personalità di
saggio oltre che di poeta il medioevo
aveva intrecciato curiose leggende,
adempie la funzione di maestro fin dove
la ragione umana può penetrare i
misteri di Dio; Beatrice, che già in
Terra era trascorsa come
un’apparizione angelica, è
l’incarnazione di una bellezza pura e
di una sapienza luminosa alla quale il
poeta tutto si affida nell’ultima sua
ascesa. L’uno e l’altra sono figure
essenziali al mistico viaggio di Dante,
creature ricche di vita, nelle quali si
rispecchia sublimata non solo la sete di
sapere del poeta ma il suo profondo
bisogno di intime corrispondenze
affettive, e per esse si comprende come
il soggettivo e l’oggettivo,
l’impulso autobiografico e il
significato universale si fondano e si
compenetrino nel grande poema. Del resto
la concezione stessa del viaggio
nell’oltretomba, necessaria espiazione
di colpe personali ma pure voluto
perché il poeta rammenti all’umanità
sviata quali sono i suoi veri fini,
nacque dall’esigenza di dare un
significato oggettivo a un’esperienza
personale. Per questo giudicando e
ammonendo, Dante assunse funzione più
che di poeta: volle essere maestro di
verità morali, religiose, politiche, e
nell’allegoria generale del poema ha
un significato altissimo la profezia
dell’avvento di colui che dovrà
riportare la giustizia in Terra,
adombrato vagamente nella figura del
Veltro del primo canto dell’Inferno,
più chiaramente definito nel
"cinquecento diece e cinque"
del trentatreesimo canto del Purgatorio:
un personaggio nel quale, e per il luogo
in cui esso si colloca — al termine
della mistica processione cui Dante
assiste nel Paradiso terrestre — e per
il tempo in cui gli ultimi canti del
Purgatorio vennero composti, è ben
motivato riconoscere Arrigo VII,
restauratore dell’Impero.
Ma
la poesia stessa della Divina Commedia,
nel suo vario e pur coerente
manifestarsi, mostra con quale potenza
di fantasia Dante abbia dato consistenza
oggettiva a ciò che nasceva dalla sua
partecipazione umana alla vita. Ove si
eccettuino pochi personaggi che, attinti
dal mito o dalla storia antica,
grandeggiano per il significato morale
che a essi attribuì il poeta — i
mostri infernali, Giasone, Capaneo,
Ulisse, Catone, Stazio — nel poema
rivivono uomini e vicende della vita
contemporanea tanto che persino nel
Paradiso i santi dei quali è rievocata
la vita con maggiore ricchezza di
particolari sono quelli più vicini nel
tempo e la cui lezione restava più
attuale: san Francesco, san Domenico,
san Pier Damiani. Tuttavia la poesia
dantesca non ristagna mai nella cronaca,
e sia che il poeta condanni chi si
macchiò d’infamia o esalti chi ebbe
animo grande, sia che compianga chi
ingiustamente sofferse o rievochi con
cuore commosso chi ebbe amico nella vita
terrena, egli crea figure che hanno il
palpito eterno della poesia. È vero
piuttosto che nelle tre cantiche, le
quali corrispondono a tre momenti della
vita spirituale del poeta, si danno toni
fondamentalmente diversi: nell’Inferno
prevale la drammaticità appassionata,
nel Purgatorio più si dispiega una
malinconica elegia, nel Paradiso un
lirismo commosso e contemplativo. Non
mai però si attenua la partecipazione
alla vita terrena, ché anzi nel
Paradiso l’invettiva contro la Chiesa
degenere e contro ogni specie di
corruzione morale suona più aspra che
altrove. Nella terza cantica si fa
invece più ardua la materia dottrinale,
che è pur presente in tutto il poema, e
al lettore moderno più grave viene a
proporsi il quesito del rapporto tra
scienza e poesia, perché se sovente
Dante dalla difficile materia
scientifica, tanto a fondo posseduta da
divenire oggetto di serena
contemplazione, riesce a estrarre poesia
di alta ispirazione, non di rado
tuttavia mette in versi qui, più che
nelle prime due cantiche, concetti
filosofici e tesi scientifiche del tutto
vuoti di spirito poetico. Ma a
distinguere con chiarezza nella Divina
Commedia la poesia da ciò che poesia
non è, e pure ha un valore positivo,
soltanto la critica moderna è arrivata
attraverso lunghe e pazienti
discussioni. Nel poema i contemporanei,
pur avvertendone l’alto pregio
artistico, ammirarono innanzi tutto la
vasta dottrina e apprezzarono il nobile
insegnamento morale, e ben presto si
ebbero commenti in latino e in volgare.
Il più antico di essi, limitato al solo
Inferno, si deve al figlio del poeta,
Iacopo; poco dopo la morte di Dante, nel
1324, espose in latino l’Inferno
Graziolo Bambaglioli, notaio bolognese,
e non molti anni più tardi Iacopo della
Lana commentò in volgare le tre
cantiche. Altri commenti seguirono sino
alla fine del secolo: il così detto
"Ottimo Commento" di un
anonimo fiorentino, quello
pregevolissimo del Boccaccio rimasto
interrotto al diciassettesimo canto
dell’Inferno, quello latino di
Benvenuto Rambaldi da Imola, il più
ricco di notizie storiche, e quello
volgare di Francesco Buti, notevole fra
tutti per l’interpretazione della
lingua. Nel secolo dell’Umanesimo
gravò in parte sul poema il generico
pregiudizio contro la letteratura
volgare non tanto però che,
specialmente in ambiente fiorentino, non
se ne riconoscesse l’eccezionale
grandezza. Nel maturo Rinascimento la
Divina Commedia fu ancora ammirata,
benché se ne criticasse la struttura
medievale e si giudicassero severamente
gli idiotismi linguistici e certa
asprezza di toni. Fu pertanto merito dei
letterati dell’Accademia fiorentina, e
in particolare del Gelli e del Varchi,
avere rivendicato i pregi del poema
sebbene essi indugiassero più sulla
materia dottrinale che sull’arte,
sulle peculiarità linguistiche che
sulla poesia. Più acuto lettore,
competentissimo nell’intendere
rettamente la lingua e ben ferrato nelle
varie questioni storiche, fu Vincenzio
Borghini, il cui merito risulta tanto
maggiore a chi consideri che egli
giudicava intelligentemente la poesia
dantesca in un’epoca nella quale
l’aristotelismo estetico opponeva a
essa gravi pregiudizi. Scarso fu invece
l’interesse per la Divina Commedia nei
letterati del Seicento, ove si
eccettuino alcuni fiorentini, quali
Carlo Danti, Benedetto Buonmattei,
Lorenzo Magalotti; ma ancora nel secolo
successivo il gusto classicistico
allontanò dalla poesia dantesca, e si
ebbe anzi allora l’episodio più
clamoroso dell’antidantismo: la
pubblicazione delle Lettere virgiliane
di Saverio Bettinelli (1757), un libello
senza dubbio inclemente ma nel quale è
pur da notare il consenso sincero per
alcuni grandi episodi patetici e
drammatici dell’Inferno. Fa eccezione
nel Settecento Giambattista Vico, il
quale solo, prima dell’Alfieri, seppe
comprendere la grandezza di Dante, che a
lui appariva come un geniale poeta
primitivo: l’Omero dell’italica
barbarie. Da Alfieri, ossia da colui che
fu il primo vero poeta romantico
italiano e insieme il profeta del
Risorgimento, ha origine la valutazione
tutta positiva della Divina Commedia,
che la critica successiva ha sempre
meglio ragionato e discusso grazie a
interpreti geniali e appassionati quali
Ugo Foscolo e Francesco De Sanctis, e a
molti altri tra i quali, per dire solo
di coloro che hanno segnato un’orma
più profonda negli studi danteschi,
sono almeno da ricordare Benedetto
Croce, Ernesto Giacomo Parodi, Michele
Barbi nonché commentatori come G.
Scartazzini, N. Sapegno, A. Momigliano e
filologi come G. Contini. La fortuna del
poeta, e in particolare della Divina
Commedia, fuori d’Italia ebbe inizio
nell’età romantica, quando il ritorno
nostalgico al medioevo e il culto del
primitivo disposero gli animi a
veramente comprendere e amare la poesia
dantesca. I primi grandi ammiratori di
Dante furono in Germania Herder, A. W.
Schlegel, Hegel, Schelling, e in
Inghilterra Carlyle.
In
Germania dal culto per il poeta ebbero
impulso seri studi filologici e storici
sulla sua vita e le sue opere: a Dresda,
nel 1865, venne fondata, prima ancora
che in Italia, una società dantesca, e
C. Witte diede, nel 1862, un’edizione
critica della Divina Commedia. Altri
insigni studiosi di Dante furono poi A.
Gaspary, lo svizzero-tedesco G. Andrea
Scartazzini, il Bassermann, K. Vossler,
H. Gmelin, E. Auerbach, L. Spitzer.
In
Inghilterra si devono menzionare gli
importanti contributi filologici di E.
Moore, editore di tutte le opere
dantesche, di G. Warren lord Vernon, di
P. Toynbee e gli scritti del poeta Eliot.
In Francia dopo gli studi dell’Ozanam
e di P. Colomb De Batines, autore di una
fondamentale bibliografia dantesca,
vennero quelli dell’Hauvette, del
Nolhac, dell’Hazard, e quelli anche
più rilevanti del Gilson, del Pézard,
del Renaudet. Anche negli Stati Uniti
d’America gli studi danteschi furono e
sono tuttora coltivati con passione e
competenza: a Cambridge (Massachusetts)
venne fondata nel 1881 una società
dantesca; ricerche storiche e
filologiche si ebbero poi per merito di
non pochi studiosi, tra cui vanno
menzionati il Wilkins e il Singleton.