ALTRI
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Nacque a Pescara da famiglia medio-borghese nel 1863, ma a soli 18 anni, dopo aver conseguito la licenza liceale presso il collegio Cicognini e già noto per la pubblicazione di una prima raccolta di versi (“Primo vere”), si trasferì a Roma e iniziò la sua turbinosa avventura esistenziale fatta di amori, di duelli, ma anche di intense letture e di proficua attività giornalistica e letteraria. Compì numerosi viaggi, fra cui una crociera nell’Adriatico abbastanza avventurosa (1887) e un viaggio in Grecia (1895) con l’amico Edoardo Scarfoglio (fondatore de “Il Mattino” di Napoli e marito della celebre scrittrice verista Matilde Serao). Nel 1897, nel collegio di Ortona a mare, venne eletto deputato nelle liste della destra, ma non esitò a passare alla sinistra per protesta contro le proposte restrittive della libertà fatte dal Pelloux. Nel 1898 si trasferì in Toscana, ove visse per circa un decennio nella villa della Capponcina a Settignano, nei pressi di Firenze, quasi travolto da un’altra intensa passione amorosa con la sua amante di turno, la famosa attrice Eleonora Duse. Non potendo far fronte ai debiti, si rifugiò in Francia, ove visse dal 1910 al 1915 ad Archanson, presso Bordeaux, e scrisse drammi in francese. Scoppiata la prima guerra mondiale, tornò in Italia e si rivelò fra i più accesi interventisti. Partecipò alla guerra mettendosi in evidenza con personali atti di coraggio clamorosi (“Beffa di Buccari”, volo su Vienna) e infine occupando militarmente Fiume - contro la volontà dello stesso governo italiano che fu costretto ad intervenire anche militarmente - per protestare contro la Conferenza di pace che non aveva concesso l’annessione della città all’Italia. Nel 1921 si ritirò a Gardone, sul lago di Garda, nella straordinaria villa di Cargnacco, che egli trasformò in un vero e proprio museo delle sue gesta e chiamò il “Vittoriale degli Italiani”. La sua adesione al fascismo fu forse più tiepida di quanto volle far credere il regime, che seppe ben utilizzare la retorica dell’eroe presente nell'opera dannunziana. Morì nel 1938. La poetica e l'arte
Da queste sia pure scarne notizie biografiche, appare già abbastanza chiara la personalità del D’Annunzio, “superuomo” nella vita come nell’arte, che tenta di fare della sua reale esistenza la sua più bella opera d’arte. Egli stesso, nell’ “Avvertenza” a “Il venturiero senza ventura” (dalle “Faville del maglio”), datata 14 luglio 1924, confessò: «Tutta la mia vita è innamoratamente congiunta alla mia arte, come apparve e appare nella mia meditazione occulta e nella mia azione palese». In effetti egli sostituì il senso estetico al senso morale e visse intensamente al di fuori di ogni regola del comune comportamento civile: “Habere non haberi” (“possedere, non essere posseduto”) e “Memento audere semper” (“ricordati di osare sempre”, da cui la sigla “M.A.S.” che denominò i motoscafi di attacco impiegati nella “Beffa di Buccari”) furono i motti a lui più cari. Nell’arte, però, dovette faticosamente raggiungere la sua totale autenticità e singolarità, perché, dotato da madre natura di una forte capacità assimilatrice e di un inesauribile desiderio di conoscenze letterarie, per lungo tempo non riuscì a sottrarsi alle suggestioni delle esperienze altrui e fece propri il classicismo del Carducci come il realismo del Verga e dello Zola, l’estetismo dei parnassiani come il simbolismo dei decadenti. A tal proposito, in un articolo apparso sul quotidiano “Il Mattino” di Napoli, Guido Cattaneo nota: «D’Annunzio per tutta la vita era sempre riuscito ad essere presente con una nota spiccata di originalità nel mondo della letteratura avvertendo prontamente quello che era nell’aria. Esordisce come poeta a sedici anni con trenta “odi barbare” sulla scia di Carducci; dopo l’apparizione di “Vita dei campi” di Verga scrive le novelle di “Terra vergine”, ma più tardi è parnassiano nello “Intermezzo” e nelle “Elegie romane”, preraffaellita3 nell’ “Isottèo” e nella “Chimera”. Nel “Poema paradisiaco” mima Verlaine e Maeterlinck. Gli scrittori veristi si orientano verso miraggi decadenti e D’Annunzio pubblica “Il piacere”. Sono alla moda i narratori russi e lui scrive “Giovanni Episcopo” e da Dostoevskij passa a Tolstoj nell’ “Innocente”». Le caratteristiche salienti dell’arte dannunziana sono il soggettivismo esasperato, cioè la tendenza ad espandere il proprio Io fino a contenere in sé l’intero universo; il conseguente sensualismo, che va inteso non tanto in senso erotico ma piuttosto come estrema dilatazione di tutti i propri sensi per appropriarsi della Natura e goderne con sottile voluttà; ed infine l’estetismo, cioè il culto del bello e la tendenza ad esaltare la ricercatezza formale. Caratteristiche, queste, sempre vistosamente affermate nella vasta produzione dannunziana, ma affatto estranee - o, per lo meno, rattenute - in quelle opere che sgorgarono più spontaneamente dall’animo del Poeta nei rari momenti di abbandono in cui, deposta ogni maschera, affiora l’uomo con le sue pene e le sue angosce. Un aspetto notevole della poesia del D’Annunzio - per molto tempo trascurato e solo di recente messo adeguatamente in luce da un attento e sensibile critico letterario -, anche perché rappresenta una costante in tutte le opere del pescarese, è il profondo attaccamento al mondo pastorale e contadino della sua terra, del quale sono rievocati usi e costumi con sincera partecipazione. Raffaele Matarazzo, cui va il merito di questa puntualizzazione (“Il mondo pastorale e contadino nell' opera di D’Annunzio”, Napoli, Guida Editore, 1989), ha individuato in quasi tutte le opere, sia di poesia che di prosa e di teatro, scene di vita paesana tratte dalla memoria storica del Poeta e descritte realisticamente sia pure filtrate dalla sua memoria culturale. A proposito de “Il trionfo della morte”, così scrive il Matarazzo: «Un’umanità dolente e miserevole affolla il racconto del D’Annunzio, rifluendovi dalle sue prime esperienze narrative, a ulteriore prova che costante in lui è stata l'ispirazione che quel mondo atavico esercitava su di lui, sulla sua immaginazione, di figlio di quella terra... Certo, D’Annunzio non era un contadino e in lui, uomo estremamente colto, il fascino di tutto quel cerimoniale si tramutava in qualcosa di diverso: le donne che cantavano in duplice fila, reggendo su le braccia i grandi vasi dipinti “davano immagine d'una di quelle teorie votive che si svolgevano armoniosamente in basso rilievo su i fregi dei templi o intorno ai sarcofaghi”. Diremo allora che la vita dei contadini cui si ispira il D’Annunzio sia meno “vera” e meno fedelmente ritratta sol perché, poi, suscita in lui queste immagini mediate da un'altra cultura? Importante è che le immagini successive non distruggano la verità di quelle originarie. Caso mai, è da constatare quanto profonde siano le emozioni che quella vita suscita nel narratore da propiziargli tutta quella ricchezza di rievocazioni e di richiami culturali!».
Le opere
Vastissima la sua produzione letteraria che va dalle raccolte di versi (“d’amore e di gloria”), alle opere in prosa (novelle e romanzi), alle tragedie. Ci limitiamo a farne un
elenco:
L’opera maggiore è costituita dalle “Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi”, pubblicata in più occasioni parzialmente e in parte anche postuma. Si compone di 5 libri:
Il 1916, a seguito di una ferita ad un occhio riportata in guerra, il D’Annunzio fu costretto a vivere per alcun tempo al buio. Fu certamente il periodo più triste e sconsolato della sua vita ed egli, deposta la maschera del superuomo e del tribuno, si lasciò andare a sincere confessioni, a liberi sfoghi dell’animo. Scrisse per l’occasione una prosa, il “Notturno”, in cui appare «un senso cupo del finire delle cose, la presenza, quasi, della morte» (Guglielmino). Al “Notturno” fecero seguito altre pagine di autentica confessione che il D’Annunzio andava pubblicando sul “Corriere della Sera” e che poi raccolse e pubblicò, nel 1924, sotto il titolo di “Le Faville del maglio”. Queste prose, che costituiscono la cosiddetta “fase notturna” dell’opera dannunziana, sono oggi considerate dalla critica il vero messaggio artistico del D’Annunzio.
Svolgimento
dell’arte dannunziana
E' pressoché impossibile
trascorrere, sia pure rapidamente, le innumerevoli opere di poesia,
di narrativa e di teatro del D’Annunzio e, d’altra parte, risulterebbe
in buona misura lavoro inutile, dal momento che molte opere non hanno
origine da un’autentica necessità spirituale, ma sono il frutto di un
vieto esibizionismo o, peggio, di un desiderio di guadagno. Con ciò non
si vuole minimamente intaccare il pregio dell’arte dannunziana, di
quella espressa nei momenti più felici dell’ispirazione. Ci
interesseremo, quindi, solo di alcune opere, quelle comunemente
considerate dai critici le più valide. * Nella piena maturità artistica il
D’Annunzio compose i versi delle “Laudi
del cielo, del mare, della terra e degli eroi”, suddivisi
in cinque libri cui diede i nomi delle Pleiadi: MAIA, ELETTRA, ALCYONE,
MEROPE e ASTEROPE. I primi tre libri rappresentano il meglio della
produzione dannunziana, ma ad “Alcyone”
è comunemente attribuito il titolo di “capolavoro”. MAIA,
che ha per sottotitolo “Laus
vitae” (lode della vita), è un lungo poema di 8.400 versi e
rappresenta l’annuncio di una nuova morale
destinata ai superuomini.
La morale consiste non solo nel diritto del superuomo di far valere la
propria “volontà di potenza”
sulla massa bruta degli altri uomini considerati “schiavi”,
ma anche e soprattutto nel suo diritto di esprimere compiutamente, fino in
fondo, la propria capacità di godere la vita al di là di ogni
restrizione o rinuncia imposta dalla morale comune e dalle convenienze
sociali. Già nel primo canto, nell’ “Annunzio”,
il Poeta canta il ritorno sulla terra
del dio pagano Pan, simbolo della pienezza della vita in senso
cosmico: sarà questo dio a dare nuova linfa al desiderio di voluttà
dell’uomo eletto. Successivamente il Poeta racconta un suo favoloso
viaggio attraverso la Grecia antica, culla della civiltà classica pagana,
poi attraverso la Roma antica e rinascimentale, simbolo della forza fisica
e spirituale, e infine nel Deserto, ove è lecito abbandonarsi ai più
sfrenati istinti e dove incontra la Libertà e la Felicità. ELETTRA
comprende canti che potremmo definire “patriottici”
in quanto fanno l’esaltazione degli eroi (“Per
i marinai d’Italia morti in Cina”, “A
uno dei Mille”, “La notte
di Caprera”, ecc.), di artisti (“A
Dante”, “Per
la morte di Giuseppe Verdi”, “Nel
primo centenario della nascita di Vincenzo Bellini”, ecc.) e di città
(Ferrara, Pisa, Ravenna, Rimini, Urbino, Padova, Lucca, ecc.).
Appare chiaro che il Poeta trasferisce il mito del superuomo nella
concezione della nazione: l’Italia diviene per lui la “supernazione”
destinata a dominare su tutte le altre: nascono il “nazionalismo”
e l’ “imperialismo”
dannunziani che avranno non poca responsabilità nella propaganda di miti
velleitari che porteranno alla prima guerra mondiale ed all’avvento del
fascismo. ALCYONE è considerata il capolavoro del D’Annunzio. Comprende, infatti, le liriche più famose, come “La sera fiesolana”, “La pioggia nel pineto”, “Le stirpi canore”, i “Madrigali dell’estate”, i “Sogni di terre lontane” (con la celebre lirica “I pastori”) e termina con “Il commiato” dalla terra di Toscana. «E' una raccolta di liriche che si compongono insieme come un vasto e continuo poema solare; è il poema dell’Estate, sentita come un’entità divina e un nuovo mito sorto dall’animo del poeta, ritornato a un'elementare comunione con la natura...E nell’ “Alcyone” esprime questa arcana consonanza, questa comunione dell’anima umana con l’anima delle cose; si immedesima col pulsare innumerevole della vita universa, coi mari, coi fiumi, con l’ardore della calura, con la pioggia, con gli alberi.» (Pazzaglia):
Nell’ “Alcyone” il mito del superuomo sembra purificarsi delle passioni più torbide, della consueta ed esasperata lussuria, per far posto ad un più naturale e gioioso sensualismo: tutti i sensi sono impegnati per realizzare una sorta di magica simbiosi fra l’uomo e la natura. * Se IL PIACERE fu il romanzo con cui il D’Annunzio definì la figura dell’ “eroe” decadente, cioè del “superuomo” che si pone al di fuori e al di sopra dei comuni mortali restando poi vittima della sua presunzione (cfr. pag. 263), L’INNOCENTE fu il romanzo che lanciò in Europa la fama dell’Autore dopo la traduzione che ne fu fatta in Francia col titolo “L’intrus”. Il protagonista, Tullio Hermil, ha condotto una vita dissoluta, sempre e soltanto dedicandosi al soddisfacimento dell’inesauribile sete di piacere (specie quello della carne). La moglie Giuliana, continuamente e gravemente offesa ed umiliata, non si è mai ribellata ed ha accettato di soffrire in silenzio per amore delle due figliolette e della suocera, una pia donna. Quando Tullio finalmente si ravvede e decide di riconquistare l’amore e la stima della moglie, scopre che Giuliana, per aver ceduto ad un’unica tentazione di cui è sinceramente pentita, è incinta: metterà al mondo un bellissimo maschietto accolto con grande gioia dai familiari e dai parenti e destinato a diventare l’erede del nome degli Hermil. E' però un intruso che sconvolge la vita dei coniugi e costituisce un insormontabile ostacolo alla ricostruzione del ménage familiare. Giuliana vorrebbe morire, ma Tullio decide di sopprimere l’intruso innocente e mette a punto con fredda determinazione e lucidità, al riparo da ogni sospetto, un piano preciso che attua durante la novena di Natale. Una sera, mentre tutta la famiglia è ra |