Giovanni Ipavec
Docente di Italiano e Storia
presso il Liceo classico Carlo
Alberto di Novara
Introduzione
alla
Gerusalemme Liberata
di
Torquato Tasso
(in elaborazione)
La
presente introduzione alla Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso
è stata scritta dal prof. Giovanni Ipavec insegnante presso il Liceo
Classico "Carlo Alberto" di Novara ed è coperta da diritti
d'autore. Può essere liberamente prelevata su
supporto magnetico. Non si può
utilizzare per scopi di lucro in qualsivoglia modo (carta, libro,
dischetto, CD, ecc.).
1. LA
PRIMA IDEA DEL POEMA
Nel 1558 Torquato Tasso aveva appena compiuto quattordici anni e si
trovava col padre ad Urbino, quando gli giunse la notizia che una
scorreria di pirati saraceni* aveva toccato le coste della Campania e
messo a ferro e fuoco la natìa Sorrento. La sorella Cornelia, che viveva
assistita dai parenti dopo la morte della madre, avvenuta due anni prima,
era riuscita a salvarsi a stento.
La notizia turbò
l’animo dell’adolescente, generando in lui, forse per la prima volta,
un sentimento misto di timore e di sdegno nei confronti del mondo
islamico. Erano quelli, del resto, anni carichi di tensioni per
l’Europa: i Turchi minacciavano l’Occidente cristiano; la Chiesa di
Roma, che proprio in quel periodo era impegnata a fronteggiare la Riforma
protestante* e avvertiva con crescente preoccupazione il pericolo di una
perdita irreparabile di credito e di prestigio all’interno del mondo
cristiano, guardava con apprensione ad Oriente, giudicando tutt’altro
che remota l’eventualità di un’invasione musulmana dell’Europa.
Sull’onda
dell’emozione suscitata in lui da questi avvenimenti, Torquato si
interessò alla storia dei rapporti tra Cristianità e Islam,
approfondendo in particolare lo studio delle crociate*. Era ancora vivo in
lui il ricordo della visita fatta da fanciullo al monastero di Cava dei
Tirreni dove era custodito il sepolcro di Urbano II, il papa che aveva
bandito la prima crociata. La sua formazione letteraria, inoltre, gli
aveva già fatto conoscere le opere più illustri della tradizione
canterina*, dall’Orlando Innamorato del Boiardo al Furioso
dell’Ariosto, nelle quali i nemici da combattere erano appunto i Mori,
sempre pericolosi e temibili, anche se votati alla sconfitta nella
fantasia degli autori. Soprattutto lo appassionò la Historia Belli
Sacri di Guglielmo di Tiro, cronaca medievale della prima crociata.
L’anno successivo
Torquato si trasferì a Venezia, la città da sempre più attiva di ogni
altra in Europa nei rapporti con l’Oriente, sui quali aveva fondato gran
parte della sua fortuna. Essa appariva tuttora agli occhi degli Europei
come il più importante baluardo della civiltà cristiana; i suoi ambienti
culturali si facevano interpreti presso il mondo intellettuale
dell’esigenza di mantenere desta la vigilanza contro il pericolo turco.
Non fu dunque per un caso
che proprio a Venezia il Tassino – così era chiamato il poeta nella sua
adolescenza – componesse la prima opera sull’argomento che gli stava
tanto a cuore, il Gierusalemme, abbozzo (116 ottave in tutto) di un
poema epico che avrebbe dovuto celebrare la conquista cristiana della
città santa. Ma il progetto era ambizioso e al quindicenne Torquato
mancavano ancora la tecnica poetica e la maturità intellettuale
necessarie per portarlo a termine. Così lo accantonò, ripromettendosi di
rimettervi mano in età più matura.
L’operetta, dedicata al
duca di Urbino Guidubaldo II Della Rovere, pur presentando difetti
strutturali e compositivi, testimonia un ingenuo entusiasmo e
un’ispirazione sincera. Si leggano, ad esempio, le ottave che descrivono
il risveglio dell’accampamento cristiano all’alba del giorno nel quale
i crociati riprenderanno, dopo la pausa invernale, la marcia verso
Gerusalemme:
Allor ch’a Febo in
oriente sono
del ciel dischiuse
l’indorate porte,
di trombe udissi e di tamburi un suono,
ond’al camino ogni guerrier s’essorte.
Non è sì grato a mezzo agosto il tuono
che speranza di pioggia al mondo apporte,
come fu grato a l’animose genti
l’alto romor de’ bellici strumenti.
Tosto ciascun, da gran desio compunto,
veste le membra de l’usate spoglie,
e tosto appar di tutte l’arme in punto,
tosto sotto i suoi duci ognun s’accoglie,
e l’ordinato stuolo in un congiunto
tutte le sue bandiere al vento scioglie:
e nel vessillo imperiale e grande
la trionfante Croce al ciel si spande.
(I, 8-9)
|
O quelle che presentano
l’inarrestabile avanzata della flotta e dell’esercito, i quali
procedono di conserva e senza incontrare resistenza alcuna, come un fiume
straripante:
Geme il vicino mar sotto l’incarco
di mille curvi abeti e mille pini,
e per esso omai più sicuro varco
in luogo alcun non s’apre a i saracini;
ch’oltra quei c’ha Georgio armati e Marco
ne i veneziani e liguri confini,
altri Inghilterra e Scozia ed altri Olanda,
ed altri Francia e Grecia altri ne manda.
E questi, che son tutti insieme uniti
con saldissimo laccio in un volere,
s’eran carchi e provisti in vari liti
di ciò ch’è uopo a le terrestri schiere,
le quai, trovando liberi e sforniti
i passi de’ nimici a le frontiere,
in corso velocissimo sen vanno
là ‘ve Cristo soffrio mortale affanno.
Non v’è gente pagana insieme accolta,
non muro cinto di profonda fossa,
non monte alpestre o gran torrente o folta
selva, che ‘l lor viaggio arrestar possa.
Così de gli altri fiumi il re talvolta,
quando superbo oltra misura ingrossa,
fuor de le sponde ruinoso scorre,
né cosa è mai che se gli ardisca opporre.
(I, 14-16)
|
2. I
SUCCESSIVI SVILUPPI
2.1. L’Amadigi di Bernardo Tasso
Mentre Torquato
abbandonava temporaneamente il progetto del Gierusalemme, il padre
Bernardo riusciva finalmente a pubblicare a Venezia il suo Amadigi, un
lunghissimo poema di cento canti in ottave, costato anni di lavoro e
portato a termine dopo non pochi dubbi e ripensamenti. Il soggetto era
ripreso da un romanzo spagnolo, l’ Amadis de Gaula di Garci Ordonez di
Montalvo, che a sua volta aveva rielaborato un precedente portoghese.
L’opera di Bernardo
Tasso riproponeva i classici ingredienti del medievale ciclo bretone*,
quel binomio amore-avventura che si era rivelato una formula di successo
con il Boiardo prima e l’Ariosto poi, ma con una sostanziale differenza:
la presenza dell’intento moralistico. Già nel romanzo di Garci Ordonez
Amadis appariva come l’eroe perfetto, senza macchia, campione di una
moralità che non scende a compromessi. Nella rielaborazione di Bernardo
Tasso, nonostante l'inserimento di una maggior varietà di episodi e
situazioni romanzesche, non veniva meno la finalità moralistica, seppure
ricercata attraverso un forzato allegorismo.
Non erano più i tempi
del Boiardo e dell’Ariosto. Nello spazio di due sole generazioni avevano
fatto la loro comparsa nel mondo culturale due novità destinate ad
influenzare in modo determinante l’attività di artisti e letterati:
l’azione della Controriforma* e la pubblicazione di autorevoli saggi
sulla poetica dei generi letterari. Al clima di relativa libertà nel
quale l’Ariosto aveva potuto attendere alla stesura del suo capolavoro
erano subentrati tempi più difficili e problematici, nei quali gli autori
erano sottoposti a condizionamenti e limitazioni talora pesanti.
Consideriamo
distintamente queste due importanti novità, cercando di capire in quale
misura abbiano influenzato l’attività letteraria del giovane Torquato.
2.2.
La Controriforma
L’età
dei Tasso apriva la lunga stagione della Controriforma, che si proponeva
di orientare in senso morale e religioso l’impegno degli intellettuali.
Lo sforzo prodotto dalla Chiesa nella rigorosa difesa dell’ortodossia
cattolica contro le confessioni riformate non poteva non avere
ripercussioni sulla cultura: perché esso risultasse efficace era
necessario il pieno controllo di ogni canale di diffusione della cultura e
di ogni mezzo idoneo ad orientare la sensibilità della gente e ad
influenzarne le idee in ambito morale e religioso. Di qui l’istituzione,
o l’impiego più severo che in passato, di strumenti, quali il Tribunale
dell’Inquisizione e l’Indice dei libri proibiti, atti ad inquisire,
censurare, reprimere qualsiasi manifesta o anche solo sospetta deviazione
dall’ortodossia. A farne le spese furono soprattutto il pensiero
umanistico e, conseguentemente, la produzione artistica e letteraria che a
quel pensiero si richiamava: l’uno e l’altra, infatti, essendo
improntati ad una profonda fiducia nelle capacità dell’uomo, esaltavano
ideali, valori e comportamenti connessi ad una concezione antropocentrica
ritenuta ormai incompatibile con il nuovo orientamento. Questo dunque,
sovrapponendosi all’ottica tutta laica e mondana del Rinascimento e
spesso entrando in conflitto con essa, stimolò atteggiamenti diversi: se
alcuni scrittori fecero proprie le istanze controriformistiche e
impressero alle loro opere il marchio di una religiosità sincera, più
numerosi furono coloro che aderirono al nuovo indirizzo in maniera
ipocrita e conformistica. In entrambi i casi venne a disgregarsi a poco a
poco quel sentimento di equilibrio e di sicurezza che aveva caratterizzato
l’epoca precedente; soprattutto venne meno quella condizione di libertà
intellettuale che si era dimostrata terreno fertile per la grande
fioritura dell’arte rinascimentale.
2.3.
La nuova poetica
Quanto
al dibattito sulla questione estetica, fattosi particolarmente acceso
verso la metà del secolo nei circoli letterari e nelle accademie, ci si
rifaceva molto più rigorosamente che in passato all’autorità,
considerata indiscutibile, dei classici, di Platone, Aristotele e Orazio
su tutti.
Platone
sostiene l’origine irrazionale dell’ispirazione poetica: il poeta non
è che un tramite tra Dio e gli uomini, giacchè, quando egli compone, è
in realtà il dio che, sostituendosi alla sua mente, gli detta i versi.
Aristotele, nella sua
Poetica, attribuisce alla tragedia tre funzioni fondamentali: quella
edonistica, mirante cioè al diletto dello spettatore; quella
euristico-didascalica, per la quale il fruitore dell’opera doveva essere
istruito sulla natura e sui meccanismi di funzionamento di sentimenti e
passioni; quella morale, infine, rispondente allo scopo di indirizzare il
pubblico ad una condotta virtuosa.
Orazio, infine,
riprendendo nell’Ars poetica le teorie dello Stagirita, individua
l’essenza dell’arte poetica nel miscere utile dulci, ovvero in un
giusto contemperamento della funzione pedagogica (docere) e di quella
edonistica (delectare).
Gli umanisti del
Cinquecento vollero estendere i precetti della poetica classica ad ogni
genere di componimento in versi e li rielaborarono soggettivamente, senza
troppi riguardi verso le enunciazioni originali. Così, da
un’interpretazione piuttosto arbitraria di alcuni passi della Poetica di
Aristotele (in particolare 5,3 e 8,1-3)
nacque la regola delle cosiddette unità aristoteliche di luogo, di tempo
e d’azione, che obbligavano l’autore rispettivamente ad ambientare lo
svolgimento dell’azione nello stesso luogo, a limitare ad un giorno la
durata della medesima, rispettando l’ordine cronologico dei fatti, e a
rappresentare o raccontare una vicenda semplice, incentrata su un unico
protagonista affiancato da pochi personaggi. Le tre unità, che
rispondevano all’esigenza di conferire all’opera il massimo di
verosimiglianza, acquistarono proprio nel tempo del Tasso la forza e la
rigidità di norme vincolanti.
Il trentennio che seguì
la morte dell’Ariosto (1533) e precedette la pubblicazione dell’Amadigi
fu caratterizzato da un intensificarsi del dibattito sui problemi
estetici, con esiti che dovevano influire in modo determinante sulle
scelte del Tasso. Nel 1536 fu pubblicata la Poetica di Aristotele nella
traduzione latina di Alessandro de’ Pazzi.
Il testo fu ben presto considerato un riferimento obbligato per qualsiasi
studio di poetica e alimentò di fatto una copiosa produzione: nel 1548
uscirono le Explicationes de arte poetica in librum Aristotelis di Francesco
Robortello, il quale estendeva anche ad altri generi, in primo
luogo all’epica, i canoni che riguardavano la tragedia; inoltre definiva
compiutamente il principio di imitazione e le funzioni edonistica e
catartica che Aristotele aveva attribuito alla poesia; nel 1550 Vincenzo
Maggi pubblicò le In Aristotelis librum "De poetica"
explicationes, il primo e più autorevole testo nel quale si fissava in
modo rigido la norma delle cosiddette tre unità aristoteliche di luogo,
tempo e azione. Meritano appena un cenno i saggi, tutti della seconda
metà del Cinquecento, di Piero Vettori, Giovanni Antonio Viperano e
Leonardo Salviati, nei quali si discute in particolare del rapporto tra le
due funzioni fondamentali della poesia, la pedagogica e l’edonistica,
con la conclusione, quasi unanime, che la ricerca del dilettevole, come
mezzo per suscitare l’interesse del lettore, va subordinata
all’esigenza di trasmettere un insegnamento che educhi al culto dei
valori morali.
Nel tempo della maturità
del Tasso vennero dati alle stampe i lavori del trentino Giulio
Cesare Scaligero e del modenese Ludovico
Castelvetro. Il primo, nei Poetices libri septem (pubblicati
postumi nel 1561) interpreta in senso rigorosamente moralistico il testo
aristotelico; il secondo è autore di una Poetica d’Aristotele
vulgarizzata et sposta, pubblicata nel 1570, nella quale, privilegiando la
dimensione del piacevole, definisce la dottrina del verosimile, sulla
quale, in quegli stessi anni, il Tasso fonda la sua poetica. Nel
verosimile, sostiene il Castelvetro, si realizza il principio classico
dell’ imitazione poetica della natura. La poesia deve distinguersi sia
dalla storia, che ha per oggetto la realtà documentata, sia dalla
filosofia, che ha compiti speculativi; essa può e deve avvalersi del
meraviglioso (una delle componenti d’obbligo del poema epico nell’età
umanistico-rinascimentale), prodotto dalla facoltà immaginativa del
poeta, e mira innanzitutto al diletto del pubblico.
Non va dimenticata,
infine, tra le voci più autorevoli in tema di poetica, quella del
ferrarese Giovan Battista Giraldi Cinzio. Nel
Discorso intorno al comporre de’ romanzi (1554) egli fornì della regola
pseudoaristotelica dell’unità d’azione un’interpretazione che fu
accolta con favore da molti scrittori: persuaso della necessità di
incentrare l’opera su un unico protagonista, secondo il modello
dell’epica classica, ma affascinato nel contempo dalle scelte del
Boiardo e dell’Ariosto, che avevano introdotto nei loro poemi diverse
trame e più protagonisti, trovò un compromesso tra le due istanze,
proponendo un solo protagonista autore di più azioni.
Tra i primi poeti che
vollero applicare le teorie del Cinzio ci fu il padre del Tasso.
Inizialmente orientato a comporre il suo Amadigi seguendo il modello del Trissino,
cambiò idea dopo aver conosciuto le proposte poetiche del Cinzio. Ma la
sua opera non ebbe miglior fortuna di quella del poeta vicentino.
2.4.
Il Rinaldo
L’esempio
del padre e il desiderio di cimentarsi in un genere regolato da una
normativa tanto elaborata stimolarono di nuovo le ambizioni del Tassino,
che nel giro di appena un anno riuscì a progettare, a stendere e a dare
alle stampe un poema in dodici canti di ottave, il Rinaldo, la cui
pubblicazione a Venezia nell’aprile del 1562 lo riempì d’orgoglio.
Nel Rinaldo,
evitato il terreno insidioso dell’epica storica, Torquato si librava con
le ali della fantasia nel mondo leggendario dei cavalieri e delle loro
avventure, immortalato dai romanzi cortesi del ciclo bretone*, nei quali
la materia eroica era strettamente intrecciata a quella amorosa. La regola
dell’unità d’azione era rispettata: la narrazione è infatti
incentrata in un unico protagonista, Rinaldo, l’eroico paladino cugino
di Orlando, di cui il Tasso racconta la giovinezza attraverso una serie di
avventure in verità non sempre strettamente connesse tra di loro. Al pari
del bretone Perceval* Rinaldo abbandona la casa materna e la città di
Parigi per darsi ad una vita errante per il mondo, in cerca di avventure
che possano procurargli gloria. Come Perceval conosce l’amore; ma la
donna amata, Clarice, sorella del re di Guascogna, benchè ricambi il
sentimento, ostacola con le sue maliziose schermaglie il raggiungimento di
una felice unione. I due amanti vengono poi separati da un capriccioso
destino, che li conduce qua e là per il mondo. La guerra con i Saraceni
compare saltuariamente, ma si capisce che interessa poco al poeta, che si
appassiona assai di più al racconto di storie d’amore intessute di
elementi meravigliosi, quali interventi di maghi e prodigiosi
riconoscimenti. Nelle sue peripezie Rinaldo conosce errori e sbandamenti,
che gli fanno uscire di mente Clarice. Giunto nel regno di Media, è
cortesemente accolto e ospitato a palazzo dalla regina Floriana, alla
quale racconta, come Enea a Didone, le proprie peregrinazioni: mentre lo
ascolta commossa, la donna sente accendersi nel cuore il fuoco della
passione. Rinaldo si lascia sedurre dalla bella Floriana, con la quale
sperimenta l’ebbrezza dell’amore sensuale, nella meravigliosa cornice
di lussureggianti giardini posti su un’isola incantata. Così è narrato
l’episodio della rivelazione d’amore:
Nel
palagio reale era un giardino,
ove ogni suo tesor Flora spargea;
da le stanze ivi sol del Paladino
e da quelle di lei gir si potea.
Quivi sovente il fresco matutino
Floriana soletta si godea;
la porta uscendo e entrando ognor serrava;
ché star remota a lei molto aggradava.
Mentre una volta al crin vaga corona
tesse ella quivi d’odorate rose,
e presso un rio, che mormorando suona,
sen giace in grembo all’erbe rugiadose,
e seco intanto e col suo ben ragiona,
dicendo in dolci note affettuose:
"Ahi, quando sarà mai, Rinaldo, ch’io
appaghi ne’ tuoi baci il desir mio?",
sorgiunge il Paladino, ed ode appunto
i cari detti de la bella amante.
Ahi, come allora in un medesmo punto
cangiar si vede questo e quel sembiante!
Ben ciascun sembra dal desio compunto,
e mira l’altro tacito e tremante;
lampeggia, come ‘l sol nel chiaro umore,
ne gli umidi occhi un tremulo splendore.
L’un nel volto de l’altro i caldi affetti,
e l’interno voler lesse e comprese:
rise Venere in cielo, e i suoi diletti
versò piovendo in lor larga e cortese;
e forse del piacer de’ giovinetti
subita e dolce invidia il cor le prese,
tal che quel giorno il suo divino stato
in quel di Floriana avria cangiato.
(IX, ottave 77-80)
|
E’ il preannuncio del mondo di Armida, che nella Gerusalemme
Liberata terrà avvinto a sé l’eroe in una inebriante prigione
d’amore nelle Isole Fortunate (canti XIV-XVI). Alla fine
Rinaldo e Clarice, ritrovatisi, coronano il loro sogno d’amore col
matrimonio. Il poema, benchè contenga già diversi motivi che
confluiranno nel capolavoro, è ancora acerbo: appare povero di quella
tensione drammatica e di quella complessità psicologica che
caratterizzeranno rispettivamente le vicende e i personaggi della Liberata;
l’amore è sì presente come forza ineluttabile ed è connotato da
un’accesa sensualità, ma si risolve in commedia, mentre nel poema
maggiore si accompagnano costantemente ad esso la sofferenza e la
delusione. Nei vari episodi, semplicemente giustapposti, solo le scene
idilliche e i duelli presentano un vivace colore poetico.
C’è tuttavia una
caratteristica che lega intimamente il Rinaldo alla Gerusalemme
Liberata: la propensione dell’autore a trasferirsi nei suoi
personaggi. Nell’eroe che va in cerca di gloria, che vive intensamente
il suo apprendistato di cavaliere e di amante, che trova nelle raffinate
atmosfere della corte il suo ambiente ideale, c’è il Tasso con tutte le
sue ambizioni di poeta cortigiano, così come nell’amore di Rinaldo per
Clarice si riflettono sicuramente le prime esperienze amorose del giovane
poeta con le belle dame di corte.
Altro elemento comune ai
due poemi è la perizia nella rappresentazione delle scene d’armi, in
particolare degli spettacolari duelli, minuziosamente descritti con la
competenza di chi conosce a fondo le regole della cavalleria e la nobile
arte della scherma.
Va segnalato, infine, nel
Rinaldo, un certo gusto, che si può definire romantico ante
litteram, nella rappresentazione della natura, che in alcuni episodi
non appare come uno sfondo inerte e indifferente allo svolgimento
dell’azione, bensì come una forza animata e partecipe delle vicende dei
personaggi: i diversi aspetti di essa – dall’idillico al tempestoso,
dal luminoso al tenebroso – sono chiaramente allusivi all’alternarsi
delle vicissitudini e dei sentimenti umani.
Per tutti questi motivi
è lecito pensare che il Rinaldo fosse considerato dal Tasso un
valido banco di prova per misurare le proprie capacità poetiche in vista
di un ritorno alla sublime materia del Gierusalemme.
3. GLI STUDI DI POETICA E
L’ELABORAZIONE DEL PROGETTO
Nel 1565, all’età di 21 anni, Torquato Tasso riprese il progetto del
poema eroico, rimettendovi mano con lo scrupolo di chi aveva elaborato una
norma poetica rigorosa e intendeva attenervisi. E’ significativo che,
parallelamente alla stesura dei primi canti del Goffredo – questo
il titolo primitivo scelto dall’autore per il proprio poema – egli
attendesse ai Discorsi dell’arte poetica, nei quali definiva la
sua teoria del poema epico: creazione poetica e riflessione teorica
procedevano dunque di pari passo.
Col rigoroso
rispetto delle nuove norme poetiche il Tasso prendeva le distanze dalla
tradizione ferrarese dell’epica cavalleresca e in esso faceva consistere
la maggior differenza strutturale della Gerusalemme Liberata
rispetto all’Orlando Furioso.
3.1.
La regola delle tre unità
Come
procedette il poeta? Il primo punto nodale era costituito dall’esigenza
di tener fede alla norma delle cosiddette unità aristoteliche, in
particolare al principio dell’unità d’azione, che per il Tasso era
scontato si dovesse applicare anche all’epica.
I tentativi
finora compiuti di un’applicazione rigorosa di questa norma, nel senso
di una rinuncia a priori a rendere mobile e varia la trama della vicenda,
erano ingloriosamente falliti. Tasso aveva davanti agli occhi la
mediocrità di un’opera come l’Italia liberata dai Goti di
Giangiorgio Trissino, al quale rimproverava cordialmente di non aver
saputo percepire i gusti del pubblico e di non aver sentito il bisogno di
introdurre nel proprio poema il criterio della varietà.
Per non
correre il rischio di offrire al pubblico un’opera insopportabile, egli
ricercò una conciliazione tra unità e varietà, e la trovò
semplicemente contemplando la natura del mondo creato. Come nel mondo è
dato osservare un’incredibile varietà di climi e di paesaggi, di piante
e di animali, pur mantenendo il mondo una sua indefettibile unità di
costituzione, di forma, di essenza e di struttura, così la molteplicità
dei fattori che entrano in un poema (eventi naturali e azioni umane,
espressioni di sentimenti e interventi del Cielo…) fa capo ad una trama
unitaria e compatta, nella quale i diversi elementi si combinano in una
fitta rete di rapporti e di corrispondenze. Non era più proponibile un
poema come il Furioso dell’Ariosto, la cui trama è frantumata in
una miriade di episodi e di personaggi che non si inseriscono in una
storia unitaria. Era necessario che la vicenda si sviluppasse attorno ad
un centro ideale (unità di luogo), che fosse compatta nel suo svolgimento
temporale, escludendo salti e discontinuità, limitando al massimo le
prolessi* e le analessi* (unità di tempo) e soprattutto fosse incentrata
su un unico tema fondamentale (unità d’azione). Quest’ultimo, perché
fosse evitato il rischio della monotonia o della prevedibilità, poteva
essere arricchito da numerosi episodi secondari (unità nella varietà),
purché fosse sempre evidente la relazione con il tema fondamentale.
3.2. Il rapporto
storia-invenzione
Il
secondo problema che l’autore si pose riguardava non tanto la scelta del
tema, che doveva essere storico, quanto il rapporto tra storia e
invenzione poetica. Il problema, che avrebbe appassionato nell’Ottocento
i cultori del romanzo storico, a cominciare da Scott e Manzoni, venne
risolto dal Tasso con la scelta del verosimile. Ciò che distingue lo
storico dal poeta è proprio questo: il primo deve ricercare e raccontare
i fatti, nel rispetto assoluto dell’obiettività; al secondo spetta il
compito di arricchire il racconto di tutte quelle invenzioni che possano
suscitare il diletto del lettore. L’arte non deve imitare i fatti
realmente accaduti, ma quelli che sarebbero potuti accadere; il poeta può
attingere perciò liberamente alla sua fantasia, mescolando senza scrupoli
realtà e finzione, fatti documentati e leggende, avvenimenti reali e
prodotti dell’immaginazione, purché sia rispettato il principio di
verisimiglianza nella globalità della storia. In altre parole il poeta
può travestire liberamente la verità storica con la sua immaginazione,
purché base della favola sia sempre il vero; se nei singoli
episodi dell’opera può anche spaziare in una dimensione del tutto
fantastica, l’insieme deve risultare storicamente plausibile, rispettare
cioè lo spirito degli avvenimenti storici.
3.3.
Il fine educativo
Il
Tasso visse, come si è detto, in un’epoca nella quale era molto forte
l’esigenza di un richiamo ai valori religiosi, come mezzo per un
autentico rinnovamento dei costumi. Se la teoria delle tre unità aveva
ubbidito nel primo Cinquecento ad una tendenza propria del classicismo
rinascimentale, quella cioè a fissare in norme rigide e vincolanti il
principio di imitazione dei modelli, nel clima moralistico della
Controriforma essa rispondeva invece alla necessità di educare i lettori
ai princìpi della morale cristiana.
Il
tragediografo, così come il poeta epico, non dovevano più scrivere
unicamente per il diletto dei cortigiani né rivolgersi soltanto ad un
pubblico dotto e letterato: destinataria dell’opera diventava l’intera
società moderna e cristiana, che avrebbe dovuto trovare in essa, più che
una mera fonte di diletto, un ammaestramento morale, che illuminasse il
significato e il fine stesso della vita.
Delle due
funzioni assegnate alla poesia da Orazio nel suo già ricordato precetto miscere
utile dulci venne senz’altro privilegiata la prima, l’utile,
che afferma il primato del docere, rispetto alla seconda, il dulce,
che contempla l’esigenza di delectare, cioè di procurare piacere
al lettore.
3.4.
Il disegno del poema
Il
Tasso, una volta definita la sua poetica di base – rispetto delle unità
cosiddette aristoteliche, scelta della materia storica rielaborata secondo
il criterio del verosimile, intento pedagogico -, poetica che sarebbe
andato ulteriormente definendo e perfezionando nel corso della stesura del
poema, si dedicò all’elaborazione del grandioso progetto della Liberata.
L’opera
avrebbe avuto per argomento l’atto finale della prima crociata, la
conquista della città santa (tema storico; unità d’azione);
lo svolgimento della vicenda doveva esaurirsi nello spazio di pochi giorni
e avere carattere continuativo (unità di tempo); centro
dell’azione e costante punto di riferimento sarebbe stata Gerusalemme (unità
di luogo). Quanto al messaggio religioso e morale (fine pedagogico),
esso risultava evidente dalla scelta stessa dell’argomento, che invitava
i cristiani a riscoprire la propria unità e a trovare il coraggio di
combattere per la propria fede contro le minacce interne ed esterne. Il
tema era di grande attualità, se si considera il pericolo allora
incombente di un’espansione dei Turchi in Europa, ma non è escluso che
il Tasso si proponesse altresì di difendere l’integrità della Chiesa
di Roma contro le spinte disgregatrici della Riforma luterana.
4. LA STESURA DEL POEMA. LE EDIZIONI
Nell’estate
del 1575 la prima stesura del Goffredo o Gottifredo era
terminata e il trentanovenne autore si affrettò a spedirne diverse copie
a dotti di ogni parte d’Italia, ai quali chiedeva che, letta l’opera,
gli fornissero consigli, esprimessero critiche sul contenuto e sullo
stile, proponessero correzioni e modifiche, soprattutto ne verificassero
la conformità all’ortodossia morale e religiosa e l’aderenza ai
canoni estetici, prima che egli si accingesse ad un’accurata revisione
del testo.
La ricerca del
consenso dei dotti è sicuramente uno dei tratti che maggiormente
distinguono l’età del Tasso da quella dell’Ariosto. Essa infatti non
fu dettata tanto da insicurezza o da scarsa fiducia nel proprio talento,
quanto da un’esigenza avvertita nel secondo Cinquecento, un’epoca
"intensamente votata – come osserva il Caretti - all’esercizio
critico e alla teorizzazione estetica, a differenza della precedente, che
aveva veduto gli artisti risolvere ogni loro problema nello stesso momento
creativo con una naturalezza e felicità mai più recuperate". E’
certo, comunque, che il Tasso non era soddisfatto del proprio lavoro, per
ragioni sia stilistiche sia etico-religiose, ma tale insoddisfazione era
profondamente radicata nella sua indole sensibile e umorale.
Non sappiamo
con esattezza a quanti letterati Tasso rivolse la richiesta di una
revisione della propria opera: si fa innanzitutto il nome del mantovano
Scipione Gonzaga, il destinatario delle Lettere poetiche, colui che
avrebbe provveduto alla copiatura del poema e ne avrebbe curato la
pubblicazione dopo averla sottoposta ad una rigorosa censura. Altri
studiosi interpellati furono sicuramente gli amici padovani Vincenzo
Pinelli, Domenico Veniero e Celio Magno e gli insigni professori del
Collegio Romano Sperone Speroni, Flaminio de’ Nobili, Pietro Angelio da
Barga, Silvio Antoniano e Vincenzo Gonzaga.
Dal carteggio
che Tasso intrattenne con questi suoi revisori si deduce uno stato
d’animo alquanto tormentato: ora il poeta si rimetteva con totale
arrendevolezza alle censure dei suoi dotti corrispondenti (particolarmente
dure e rigide quelle del Collegio Romano, le cui sentenze in merito
all’ortodossia morale e dottrinale erano considerate inappellabili); ora
invece cercava disperatamente di difendere le proprie scelte tematiche e
poetiche dagli interventi di una critica che, benché da lui stesso
sollecitata, gli appariva troppo severa. Se si considera che questa era
rivolta in particolare all’intera tematica erotica del poema, si
capiscono appieno le apprensioni dell’autore, che affidava soprattutto
agli episodi amorosi la fortuna del proprio lavoro. Contemporaneamente il
Tasso incominciava a leggere l’opera ai suoi protettori, il duca Alfonso
II, dedicatario del poema, e sua sorella Lucrezia, dai quali pure egli
sollecitava giudizi e osservazioni.
Il duca, pur
non pronunciando giudizi di merito sulla poesia, si mostrò
particolarmente interessato ai passi in cui erano celebrati i fasti della
casa d’Este ed espresse il desiderio che l’opera venisse
immediatamente pubblicata, ma l’autore era risoluto ad attendere il
parere degli "esperti" e il placet delle autorità
religiose.
Il quadriennio
1576-79 fu forse il periodo più difficile della vita del Tasso. Delle
varie critiche, che giungevano da ogni parte in risposta alle sue lettere,
egli cercava di tener conto, impegnandosi senza esitare in un complesso
lavoro di capillare revisione del testo; ma certe pretese dei suoi
censori, che egli trovò del tutto assurde e ingiustificate, finirono con
lo scatenare la sua insofferenza e contribuirono probabilmente
all’insorgenza di quelle turbe psichiche che avrebbero costretto il duca
ad internarlo in manicomio.
In quegli anni
copie manoscritte della Gerusalemme
liberata circolavano liberamente negli ambienti intellettuali e
venivano sottoposte dai solerti revisori ad arbitrarie integrazioni e
spregiudicate correzioni. Alla corte estense crescevano le invidie e le
gelosie nei confronti del giovane poeta di talento. Questi, un giorno del
1576, scoprì che dal suo scrittoio erano sparite importanti carte, tanto
più preziose in quanto egli non ne aveva tratto alcuna copia, e diede in
escandescenze. Torquato era sicuro che si trattava di un furto e giunse a
sospettare perfino di un caro amico, Orazio Ariosto, pronipote del grande
Ludovico e mediocre poeta. Decise pertanto di restare lontano per qualche
tempo da Ferrara. Viaggiò, fece nuove esperienze; tra il ’78 e il ’79
attraversò le terre del Novarese e del Vercellese, riportandone graditi
ricordi; soggiornò a Torino, alla corte di Emanuele Filiberto di Savoia.
Ma la lontananza non giovò alla sua salute psichica: il senso di
crescente sfiducia negli uomini, la mania di persecuzione dalla quale già
da tempo era affetto, l’incomprensione e l’indifferenza da cui si
sentiva circondato a corte e infine il timore di non riuscire a veder
pubblicato il proprio capolavoro causarono nell’infelice poeta un grave
squilibrio mentale, che rese necessaria, al suo rientro a Ferrara nel
1579, la reclusione nell’Ospedale di Sant’Anna.
Sette anni
durò la prigionia del Tasso e proprio in quel lasso di tempo si
moltiplicarono le edizioni della Liberata. A due prime edizioni
mutile, uscite con il titolo di Goffredo a Genova nel 1579 e a
Venezia nel 1580 (quest’ultima curata da Celio Malaspini) seguì nel
1581 a Parma la prima pubblicazione integrale dell’opera a cura di
Angelo Ingegneri col titolo definitivo di Gerusalemme liberata. Nello
stesso anno a Ferrara Febo Bonnà, un letterato amico del Tasso, curò
altre due edizioni integrali dell’opera, che furono approvate
dall’autore stesso. Ciò proverebbe con una certa sicurezza che il
lavoro di correzione del poema era stato portato a termine. Nel 1584 uscì
a Mantova presso lo stampatore Osanna una nuova edizione curata da
Scipione Gonzaga, il più autorevole tra i revisori del poema. Proprio in
virtù di questa autorevolezza l’edizione mantovana fu considerata fino
agli inizi del nostro secolo la più attendibile, ma i più recenti studi
filologici hanno evidenziato, in molti passi, la mano del Gonzaga e
riproposto, quale testo più vicino alla redazione ultima dell’autore e
comunque anteriore al rifacimento della Conquistata, la seconda
edizione ferrarese del Bonnà.
4.1.
Il successo e le polemiche
La Gerusalemme
liberata conobbe una rapida diffusione grazie al moltiplicarsi delle
edizioni e divenne ben presto un caso letterario, riscuotendo un successo
pari solo a quello ottenuto sessant’anni prima dall’ Orlando
furioso. Ma il successo non fu incontrastato: il 1584, l’anno
dell’edizione mantovana, segnò anche l’inizio delle polemiche intorno
all’opera, altra croce per lo sventurato recluso del Sant’Anna.
Era
inevitabile il confronto con il capolavoro ariostesco: le simpatie e le
predilezioni dei lettori si divisero equamente tra i due poeti, non solo
nell’ambito delle semplici persone colte, ma anche in quello degli
intellettuali (oggi si direbbe degli addetti ai lavori), che presero
posizione in modo reciso a favore dell’uno o dell’altro dei due
autori, giustificando le loro scelte con solide argomentazioni. Cominciò
un frate di Capua, Camillo Pellegrino, che nel dialogo Il Carrafa
ovvero della poesia epica (così intitolato perché Luigi Carrafa,
principe di Stigliano, vi svolge il ruolo di principale interlocutore e
sostenitore delle idee dell’autore) difese la superiorità della Gerusalemme
liberata rispetto all’Orlando furioso, in quanto il poema del
Tasso si presentava aderente ai canoni della poetica aristotelico-oraziana
ed era senz’altro preferibile per il tema scelto e le relative
implicazioni etico-religiose.
Al Pellegrino
rispose, l’anno successivo, un accademico della Crusca, Leonardo
Salviati, con la Difesa dell’"Orlando furioso"
dell’Ariosto contra ‘l "Dialogo dell’epica poesia" di
Camillo Pellegrino, nella quale la superiorità dell’Ariosto veniva
sancita in nome della fedeltà di questo autore al canone linguistico di
Pietro Bembo. Analoghe motivazioni si ritrovano nell’intervento di un
altro accademico della Crusca, Bastiano de’ Rossi. Ad essere messa sotto
accusa era soprattutto la lingua impiegata dal Tasso, giudicata non
confacente all’ importanza del soggetto epico per l’uso frequente di
parole ed espressioni appartenenti all’idioma corrente, plebeo e
dialettale, non in linea quindi con la nobile tradizione fiorentina. Ma la
polemica si trasferì ben presto dal piano puramente linguistico e
stilistico a quello ideologico, investendo la persona stessa
dell’autore, al quale fu rinfacciata una pregiudiziale avversione alla
conclamata superiorità della tradizione toscana e perfino alla signoria
dei Medici; né fu risparmiato Bernardo Tasso, accomunato al figlio dalle
medesime accuse. Era facile, d’altra parte, rivolgere critiche più o
meno gratuite e spesso infondate ad un uomo che l’opinione pubblica
giudicava non sano di mente e che non poteva agevolmente difendersi
dall’angusto spazio di una cella.
Il Tasso non
tardò, tuttavia, a far sentire la sua voce. Nel 1585 scrisse un’Apologia
in difesa della "Gerusalemme liberata", nella quale,
ribadendo le ragioni delle proprie scelte, ripeteva nella sostanza le idee
già espresse negli scritti di poetica e nelle lettere inviate ai suoi
revisori. Rispose anche espressamente a Bastiano de’ Rossi con una
lettera a lui indirizzata.
Di là dalle
polemiche dei dotti e dalle motivazioni che le informarono restava il dato
inconfutabile della novità e dell’importanza dell’opera del Tasso, la
quale incontrò subito il favore di determinate cerchie di lettori, di due
in particolare, molto diverse tra loro: gli oratori e i giovani. Ai primi
piacque immediatamente quella commistione di poesia e di oratoria che
costituisce il tratto più caratteristico dello stile della Liberata
ed è ravvisabile soprattutto nei discorsi, molti dei quali sono costruiti
alla maniera classica, con tanto di esordio e di perorazione. I secondi
trovavano senz’altro più congeniale alla loro sensibilità e alle loro
tendenze idealistiche e sognatrici il poema del Tasso rispetto a quello
dell’Ariosto. Mentre l’Orlando furioso, per il superiore
spirito critico che vigila sulla materia trattata servendosi di quel
formidabile strumento della razionalità che è l’ironia, sembrava
destinato ad un pubblico adulto e disincantato, la Gerusalemme liberata,
come è stato giustamente osservato, viveva della forza di un sogno e
della potenza del sentimento.
5. L’ISPIRAZIONE, I MODELLI E LE
FONTI
Mentre
componeva il suo capolavoro, il Tasso era consapevole di cimentarsi in un
genere che aveva espresso sin dalla più remota antichità grandi
capolavori e non si nascondeva quanto fosse arduo rinnovare i fasti
dell’Iliade e dell’Eneide o quelli di un poema che aveva
riscosso un immenso successo nel suo stesso secolo: l’Orlando furioso
di Ludovico Ariosto.
La grandezza di uno
scrittore si rivela anche nell’umiltà con la quale si accosta alla
tradizione letteraria, senza presumere di voler riuscire a tutti i costi
innovativo, originale o addirittura rivoluzionario. Nessuno oserebbe
negare che la Divina
Commedia sia un’opera potentemente originale, frutto di un
intelletto e di un estro straordinariamente fecondi e geniali; eppure
quante tracce vi si possono scoprire di autori ed opere precedenti, da
Virgilio a Ovidio, da Lucano alle leggende medioevali – in particolare
dalle visiones, da cui il poeta trasse non pochi spunti per
elaborare l’architettura dei suoi regni oltremondani -, per non parlare
delle Sacre Scritture e dei testi della filosofia scolastica. Ma
tutti i dati di questa multiforme tradizione si combinano mirabilmente nel
poema dantesco, quasi a costituire una sorta di robusto impiantito su cui
il poeta innalza le pareti del nuovo edificio. Non deve quindi
meravigliare e neppure attirare all’autore l’accusa di scarsa
originalità la presenza nella Gerusalemme
liberata di debiti, per così dire, letterari, frutto di letture
attente e meditate. In alcuni casi si tratta di semplici stilemi, in altri
di motivi poetici o di veri e propri temi.
5.1.
Le fonti classiche
La
rassegna delle fonti parte doverosamente da Omero, il padre dell’epica.
Dall’Iliade sono ripresi i due classici motivi dell’assedio e
del duello. Come nel poema omerico, anche in quello del Tasso la vicenda
si svolge per la maggior parte sotto le mura di una città assediata –
là Troia, qui Gerusalemme - , dall’alto delle quali si osserva
l’esercito nemico e si assiste ad episodi di valore. E’ significativa,
ad esempio, l’analogia tra i canti terzi dei due poemi: nell’Iliade
è Elena che, dall’alto di una torre, indica al re Priamo i principali
guerrieri greci; nella Liberata svolge questa funzione di
presentatrice Erminia, che, ella pure dall’alto di una torre, fornisce
al re Aladino informazioni sull’identità e sulle caratteristiche dei
campioni cristiani. Della felice vena descrittiva del Tasso in materia di
duelli e fatti d’arme si è già trattato a proposito del Rinaldo.
Qui gioverà ricordare che, come nell’Iliade, e successivamente
nell’Eneide, un duello pone fine alla vicenda, così nel poema
tassesco l’uccisione di Argante ad opera di Tancredi (canto XIX) priva
Gesuralemme dell’ultimo baluardo. E si possono individuare analogie pure
nelle parole di compianto che gli eroi vinti pronunciano sulla sorte del
proprio popolo. Ma l’elemento che più avvicina i tre poemi, quello che
maggiormente qualifica la loro appartenenza al genere epico, è
sicuramente la glorificazione del passato, come fondamento della presente
grandezza: come i Greci avevano trovato le radici della propria unità
nella comune partecipazione alla spedizione troiana e i Romani avevano
santificato le proprie origini mediante la missione del pius Aeneas,
così dalla memoria della vittoriosa crociata i popoli cristiani avrebbero
dovuto trarre gli auspici per ritrovare la propria compattezza e unità.
Un cenno a parte merita
l’Odissea, nella quale si ritrovano gli archetipi di ambienti e
situazioni cari all’epica cinquecentesca. La "schiavitù"
d’amore di Rinaldo nell’isola di Alcina richiama il soggiorno di
Ulisse nell’isola di Calipso (o in quella di Circe) e una natura
meravigliosa fa da sfondo agli amori dei due eroi.
Dal poema di Virgilio,
oltre ai motivi sopra accennati, il Tasso ricavò spunti per creare la
fisionomia poetica del personaggio di Goffredo, che forse ingiustamente
molta critica ha giudicato scialbo e quasi secondario; in realtà è
attorno al pio Goffredo che ruota l’azione degli altri crociati, così
come Enea è modello e punto di riferimento per compagni e alleati. L’incipit
stesso del poema (Canto l’arme pietose e ‘l capitano) ricalca
quello dell’Eneide : Arma virumque cano.
L’Eneide ispirò
la Liberata anche per l’affascinante commistione di motivi epici,
lirici e drammatici: si pensi, da un lato, alla tragedia di Didone, che
occupa un intero canto del poema; dall’altro allo sfortunato amore di
Erminia o alla tragica uccisione di Clorinda da parte di colui che
l’ama. Sarebbe troppo lungo, poi, ricordare gli innumerevoli passi del
poema che riecheggiano situazioni o, più semplicemente, espressioni,
figure (similitudini soprattutto) e stilemi virgiliani, ripresi non solo
dall’Eneide, ma anche dalle Egloghe (si pensi al tema
bucolico nell’episodio di Erminia fra i pastori). L’imitazione di
Virgilio non è mai pedissequa, ma frutto di rielaborazione, e appare
combinata, in una sorta di contaminatio, con riprese derivate da
altre fonti, sia antiche (Omero, Tibullo…) sia più recenti (Dante,
Petrarca). Tale ricchezza di riferimenti fu molto apprezzata dai
contemporanei del Tasso, che in alcuni casi giudicarono l’imitazione
superiore all’originale (così il Gustavini nel 1592).
A Virgilio il Tasso si
rifà anche per ciò che concerne il tono, costantemente elevato e
sublime, volendo anche in questo – oltre che nella scelta della materia
storica e nel perseguimento dell’intento morale – differenziarsi dalla
precedente epica rinascimentale (Boiardo, Ariosto), nella quale avevano
larga parte il comico e il grottesco. Sempre a moduli virgiliani, infine,
si ispira l’autore della Liberata per la rappresentazione del
"meraviglioso", che non è fiabesco, come nell’Ariosto, ma
religioso e cristiano: il divino tassesco assume spesso tratti e aspetti
dell’Olimpo virgiliano, privato naturalmente di qualsiasi connotazione
mitologica. Ma va anche precisato che il poema del Tasso modifica
notevolmente, con conseguenze che coinvolgono l’intero sviluppo della
vicenda, il pregetto virgiliano per quanto riguarda la forza
soprannaturale d’opposizione: nell’Eneide essa è rappresentata
da Giunone, che frappone ostacoli alla missione di Enea e che tuttavia
alla fine è persuasa da Giove stesso ad acconsentire all’affermazione
di Enea nel Lazio; nella Liberata invece ad avversare l’impresa
dei crociati sono le forze dell’Inferno, presentate fin dalla prima
ottava come irriducibili, per quanto destinate alla sconfitta.
Si potrebbero citare
diversi altri poeti classici dai quali il Tasso attinse elementi
stilistici di vario genere; senza voler entrare nei dettagli, basterà
ricordare i lirici (Catullo, l’Orazio dei Carmina) e più in
particolare gli elegiaci (Properzio, Tibullo, Ovidio).
Le fonti medioevali e
umanistiche - Già si è detto, a proposito del Rinaldo, quanto
debba la Liberata al modello cortese-cavalleresco espresso dal
ciclo bretone. Quanto alla grande tradizione letteraria italiana, essa non
mancò naturalmente di esercitare un influsso determinante sulle scelte
poetiche del Tasso. Dante e Petrarca erano autori ormai consacrati come
"classici" e, come tali, letti, imitati, discussi, specialmente
il secondo in virtù della sua elezione a modello da parte di Pietro Bembo.
Profonda, si potrebbe
dire quasi capillare, è la conoscenza che il Tasso dimostra di possedere
del poema dantesco, a giudicare dai frequenti riferimenti alla Commedia
presenti nella Liberata. Dante gli ispirò in particolare immagini
e allegorie inerenti al tema religioso. Si consideri, a titolo
d’esempio, la frequenza di echi e suggestioni dantesche nell’episodio
della purificazione di Rinaldo sul monte Oliveto (canto XVIII, ottave 11-17).
L’alba è imminente (12,3-4: "…l’oriente rosseggiar
si vede / ed anco è il ciel d’alcuna stella adorno") quando il
guerriero si accinge all’ascensione del sacro monte, la quale
rappresenta già di per sé un cammino di purificazione: è evidente
l’analogia con il viaggio purgatoriale di Dante, che ha inizio
all’alba (Purg. I, 115-117), l’ora della speranza che
risorge, ed è costituito dall’ascensione di una montagna sacra, il
Purgatorio appunto, con effetti di purificazione e di redenzione. Rinaldo
indossa una sopravesta di color cinerino (11,6; 16,1-2:
"…le sue spoglie / …parean cenere al colore "), che
è simbolo di penitenza e richiama il colore della veste del dantesco
angelo portinaio, che ha il compito di amministrare il sacramento della
penitenza al contrito pellegrino (Purg.
IX,
115-117). Durante la salita alza gli occhi per contemplare quelle mattutine
/ bellezze incorrottibili e divine (12,7-8) e fra sé medita
sulla stoltezza degli uomini, che sembrano insensibili ad un così
meraviglioso spettacolo. Simile nella sostanza è il senso
dell’apostrofe che Virgilio rivolge all’umanità nel finale del canto XIV
del Purgatorio (vv. 148-151). Il crociato quindi, prima di
rivolgere la sua preghiera a Dio, le luci fissò nell’Oriente
(14,4), similmente all’anima che, nella valletta del Purgatorio, ficcando
gli occhi verso l’oriente (Purg. VIII, 11) intona
l’inno Te lucis ante; poi implora la grazia di Dio "sì
che ‘l mio vecchio Adam purghi e rinovi " (cfr. Purg.
IX,
10). Il rito di purificazione consiste nell’abluzione con la rugiada
tanto per Rinaldo (15,6-8) quanto per Dante (Purg.
I, 121-127). I due espianti ne vengono rigenerati come da
un secondo battesimo, riacquistando un colore puro (16,1-4; cfr. Purg.
I, 128-129). Il candore delle spoglie rinnovate di Rinaldo
ricorda quello della veste dell’angelo nocchiero in Purg.
II,
16-24 e la similitudine del fiore che riacquista freschezza grazie alla
rugiada del mattino (16,5-8) richiama alla mente la celebre
similitudine dei fioretti in Inf.
II, 127-129. Inoltre, prima di avviarsi su per il monte,
Rinaldo penitente si confessa a Pietro l’Eremita (9, 3-4),
così come Dante, prima di iniziare il cammino di espiazione nel
Purgatorio vero e proprio, si prostra davanti all’angelo confessore e
sale i tre gradini che simboleggiano la perfetta penitenza (Purg.
IX,
94-111). Entrambi i personaggi, infine, si lasciano guidare nel loro
cammino dal sole, simbolo evidente della Grazia di Dio che illumina le vie
del peccatore verso la redenzione (14,4; 15,1-2; cfr. Purg.
I, 106-108 e XIII, 16-21).
Quanto al modello
petrarchesco, occorre tener presente che tutta la produzione lirica del
Cinquecento è caratterizzata da una vera e propria dipendenza tematica e
formale dal Canzoniere. Al Tasso non si pone l’esigenza di
un’imitazione a livello formale dato che la Gerusalemme liberata,
pur accogliendo nella propria struttura motivi di carattere lirico, è un
poema eroico e deve obbedire piuttosto ai canoni della tradizione epica;
di altra natura è il fascino che il poeta aretino esercita sul Tasso e se
ne tratterà più diffusamente nel capitolo dedicato ai temi della Liberata.
E’ con la personalità stessa del Petrarca che il Tasso sente di avere
affinità, con quel tormentoso e irrisolto dissidio tra anelito religioso
e impulso dei sensi, ovvero tra dovere morale e passione amorosa, che
caratterizza nella Gerusalemme liberata la parabola di un
protagonista come Rinaldo e suggerisce all’autore alcuni tratti
psicologici di altri personaggi quali Tancredi o Erminia. Ma il Petrarca
fornisce al Tasso anche spunti per motivi poetici di carattere elegiaco.
E’ abbastanza evidente, ad esempio, l’analogia tra G.L. VII,
ott. 21 e Canzoniere CXXVI,
27-39: come Francesco anche Erminia ipotizza il pianto dell’essere amato
sulla propria tomba, anche se si accontenta "di poche lagrimette e
di sospiri ".
Un ultimo cenno, in
merito al reperimento delle fonti, va dedicato ai poeti dell’età
umanistico – rinascimentale. Notevole fu la suggestione che l’Ariosto,
ultimo grande esponente della poesia rinascimentale, esercitò sul Tasso
sia attraverso l’Orlando furioso sia con le Rime. Né
vanno dimenticati, sempre nell’ambito dei generi lirico ed epico, il
Boiardo e il Poliziano, nell’ambito storiografico il Machiavelli
e il Guicciardini, oltre a diversi altri autori di opere storiche, grazie
alle quali il Tasso può risalire ai grandi storici dell’età classica, in
primis Livio e Tacito. La lezione degli storici si traduce, nel testo
della Liberata, soprattutto in una sapiente alternanza di
narrazioni e discorsi diretti, nonché in un’efficace rappresentazione
delle azioni belliche.
Circa le fonti dirette
della materia del poema (la prima crociata) si è già detto. Il Tasso
lesse l’Historia rerum in partibus transmarinis gestarum di
Guglielmo di Tiro (XII sec.) in una ristampa del 1549.
6. LA STRUTTURA E LA TRAMA
La
Gerusalemma liberata è un poema epico composto da venti canti in
ottave di endecasillabi. Ne è argomento la fase finale della prima
crociata, che si conclude con la conquista di Gerusalemme. Dopo lo scontro
decisivo tra le forze cristiane e l’esercito egiziano accorso a dar man
forte agli assediati, la Città Santa è presa d’assalto ed espugnata.
L’ultima resistenza dei musulmani, asserragliati nella torre di David
col re Aladino e con Solimano, capo dei predoni arabi, è vinta e Goffredo
entra da trionfatore nel tempio, dove scioglie il voto davanti al Santo
Sepolcro di Cristo.
Non è il caso di
soffermarsi sulle numerose inesattezze storiche del racconto giacché,
come si è chiarito nei capitoli precedenti, al poeta è concessa una
libertà che allo storico non è consentita: mentre quest’ultimo è
vincolato dalla fedeltà alle fonti, il primo può spaziare nel campo
della finzione letteraria, attenendosi unicamente al criterio del
verosimile.
La materia è distribuita
nei venti canti in modo disuguale (il numero medio di ottave per canto è
vicino a cento: il XV, che è il più breve, ne conta 66; il XX, il più
lungo, 144) e, come ha acutamente rilevato il critico Ezio Raimondi, è
strutturata nel suo svolgimento secondo il modello della tragedia
classicistica, che prevede una divisione in cinque atti. Questa
ripartizione, che costituisce un’ulteriore conferma dell’avvicinamento
dei generi epico e tragico nel secondo Cinquecento, non è esplicita –
Tasso non ne fa cenno - , ma si coglie con chiarezza e senza forzature ad
un’attenta lettura del poema. Si propone qui di seguito un compendio
della trama per atti e per canti (per un’esposizione più
particolareggiata si veda l’appendice).
Atto I
(canti I-III)
Gerusalemme
Dopo
il proemio la scena si apre sull’accampamento cristiano, dove Goffredo
viene eletto comandante supremo dell’esercito [I],
quindi si sposta all’interno della città di Gerusalemme. Qui si svolge
il drammatico episodio di Olindo e Sofronia: la donna, per evitare
rappresaglie ai danni della comunità cristiana, si è accusata del furto
di un’icona della Vergine, che il re Aladino aveva fatto sottrarre al
tempio dei cristiani e collocare in una moschea; viene pertanto condannata
al rogo. Olindo, segretamente innamorato di lei, si autoaccusa nel
tentativo di salvarla, ma invano. Interviene la vergine guerriera
Clorinda, che ottiene dal re la liberazione dei due giovani,
promettendogli in cambio il proprio aiuto in guerra [II].
L’esercito crociato giunge finalmente sotto le mura di Gerusalemme e si
scontra subito con il nemico; rifulge il valore di Argante e di Clorinda
tra i pagani, di Tancredi e Rinaldo tra i cristiani [III].
Atto
II (canti IV-VIII)
Cielo
e inferno, amore e guerra
La
scena si apre sugli abissi infernali, dove le forze del male congiurano
contro l’esercito cristiano. Il re di Damasco, il mago Idraote, invia
nel campo crociato la bellissima nipote Armida, la quale, dichiarandosi
perseguitata e bisognosa di protezione, getta lo scompiglio tra i
guerrieri, molti dei quali sono sedotti dal suo fascino e trascurano per
lei i propri doveri [IV]. In un diverbio
Rinaldo, il più valoroso tra i cavalieri cristiani, uccide Gernando e si
dà alla fuga [V]. Tancredi, che è
innamorato di Clorinda e amato dalla principessa saracena Erminia, viene
ferito in duello da Argante. Erminia vorrebbe raggiungerlo di nascosto
nella sua tenda per curarlo, ma, scoperta e scambiata per Clorinda, è
costretta ad una fuga precipitosa [VI],
che la porta nel mondo idillico dei pastori, dove soggiorna per qualche
tempo alla ricerca di un’impossibile serenità. Intanto la situazione
volge al peggio per i cristiani: Tancredi con altri valorosi guerrieri
finisce prigioniero di Armida in un castello incantato e i demoni
scatenano le forze della natura contro il campo crociato [VII];
Sveno muore eroicamente ucciso da Solimano e Goffredo è accusato di aver
fatto uccidere Rinaldo, di cui vengono mostrate le armi e le vesti sporche
di sangue, e solo con l’aiuto del Cielo riesce a sedare una rivolta
scoppiata all’interno dell’accampamento [VIII].
Atto III
(canti IX-XII)
La
sofferenza
Entrano
direttamente in campo le forze infernali e quelle celesti: la furia Aletto
con uno stuolo di diavoli guida Solimano in un attacco al campo crociato,
ma intervengono vittoriosamente l’arcangelo Michele e cinquanta
guerrieri sfuggiti alla prigionia di Armida grazie a Rinaldo [IX].
Solimano è salvato dal mago Ismeno, che lo rende invisibile e lo
trasporta nella reggia di Aladino, mentre Goffredo si fa raccontare dai
cinquanta cavalieri le loro vicissitudini e ha la conferma che Rinaldo è
vivo [X]. Decide quindi di sferrare un
attacco alle mura di Gerusalemme, servendosi di una torre mobile che
consenta di scalare le fortificazioni, ma l’attacco viene respinto e i
musulmani effettuano una sortita infliggendo danni e perdite al nemico [XI].
Nella notte Clorinda, dopo aver incendiato con Argante la torre mobile,
rimane chiusa fuori e non riesce a rientrare nella città; viene così
raggiunta da Tancredi, che non l’ha riconosciuta e la sfida a duello.
Ferita a morte, prima di spirare la vergine guerriera chiede e ottiene dal
suo uccisore il battesimo [XII].
Atto
IV (canti XIII-XVII)
La
riscossa
Invano i cristiani tentano di ricostruire la torre col legname della selva
di Saron: il mago Ismeno ha stregato la foresta, popolandola di fantasmi
che impediscono a chiunque di avvicinarsi. Contemporaneamente una
terribile siccità si abbatte sul campo cristiano, gettandolo nello
sconforto. La provvidenziale caduta della pioggia segna la fine delle
sofferenze e l’inizio della riscossa [XIII].
Goffredo, illuminato da un sogno, decide di perdonare Rinaldo e invia
sulle sue tracce Carlo e Ubaldo [XIV].
Grazie alle informazioni del mago di Ascalona i due guerrieri, dopo un
viaggio irto di pericoli [XV], giungono
nel meraviglioso giardino di Armida, dove trovano Rinaldo accecato dalla
passione e completamente soggiogato dalla maga. L’eroe, richiamato ai
suoi doveri, abbandona Armida, che tenta disperatamente di trattenerlo
dichiarandogli il suo amore [XVI], e
ritorna al campo, dopo aver ottenuto una nuova armatura dal mago di
Ascalona. Nel frattempo le truppe egiziane sono accorse in aiuto degli
assediati. L'atto si chiude con la visione delle future glorie della
casata d’Este, di cui sarà capostipite Rinaldo [XVII].
Atto V
(canti XVIII-XX)
Il
trionfo
Pentito
e riaccolto nell’esercito come un salvatore predestinato dal Cielo,
Rinaldo si confessa a Pietro l’Eremita, che lo invita a compiere
un’ascensione solitaria sul monte Oliveto per purificarsi delle sue
colpe. Riacquistata la Grazia di Dio, l’eroe spezza l’incantesimo
della selva di Saron, permettendo ai cristiani di ricostruire la torre
d’assedio. I crociati vincono la battaglia decisiva, espugnano le mura e
dilagano nella Città Santa [XVIII].
L’ultimo grande oppositore, Argante, è ucciso in duello da Tancredi,
che rimane ferito e viene amorevolmente assistito da Erminia, mentre
Solimano e Aladino si rifugiano nella torre di David [XIX].
Nello scontro finale contro gli Egiziani rifulge il valore di Rinaldo, col
quale si ricongiunge Armida, fattasi cristiana. Le ultime resistenze sono
vinte: morti Solimano, Aladino e tutti i campioni pagani, Goffredo entra
da liberatore nel tempio del Santo Sepolcro e scioglie il voto [XX]
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