Salvator Rosa

La poesia
(satira)


vv. 661-935

        Deh cangiate oramai stile e pensiero,
e tralasciate tanta sfacciataggine!
Detti un giusto furore ai carmi il vero!
        Chiamate a dire il ver Sunio, o Timaggine; (n.63)
giacchè l’uom tra gli obbrobri oggi s’alleva,
né timor vi ritenga, o infingardaggine!
        Dite di non saper qual più riceva
seguaci, o l’Alcorano, od il Vangelo,
o la strada di Roma, o di Geneva. (n.64)
        Dite che della fede è spento il zelo,
e che a prezzo d’un pan vender si vede
l’onor, la libertà, l’anima, il cielo:  
        che per tutto interesse ha posto il piede,
che dalla Tartarìa fino alla Betica (n.65)
l’infame tirannia post’ha la sede:
        ch’ogni Grande a far or suda, e frenetica;
e ch’han fatta nel cor sì dura cotica,
che la coscienza più non gli solletica.
        Deh prendete, prendete in man la scotica, (n.66)
serrate gli occhi; ed a chi tocca, tocca!
Provi il flagel questa canaglia zotica!
        Tempo è ormai ch’Angerona (n.67)apra la bocca
a rinnovar i Saturnali (n.68) antichi,
or che i limiti il mal passa e trabocca.
        Uscite fuor de’ favolosi intrichi,
accordate la cetra ai pianti ai gridi
di tante orfane, vedove, e mendichi!
        Dite senza timor gli orridi stridi
della terra, che invan geme abbattuta,
spolpata affatto da’ tiranni infidi.
        Dite la vita infame, e dissoluta,
che fanno tanti Roboam moderni; (n.69)
la giustizia negata, e rivenduta.
        Dite che a’ tribunali, e ne’ governi,
si mandan solo gli avoltoi rapaci:
e dite l’oppression, dite gli scherni.
        Dite l’usure, e tirannie voraci,
che fa sopra di noi la turba immensa
de’ vivi Faraoni, e degli Arsaci. (n.70)
        Dite, che sol da’ Principi si pensa
a bandir pesche e caccie: onde gli avari
sulla fame comune alzan la mensa:
        che con muri, con fossi, e con ripari
ad onta delle leggi di natura,
chiuse han le selve, e confiscati i mari;
        e che oltre ai danni di tempeste, e arsura,
un pover galantuom, che ha quattro zolle,
le paga al suo signor mezze in usura.
        Dite, che v’è talun sì crudo e folle,
che sebben de’ vassalli il sangue ingoia,
l’ingorde voglie non ha mai satolle.
        Dite che di vedere ognun s’annoia
ripiene le città di malfattori,
e non esservi poi se non un boia:
        che ampio asilo per tutto hanno gli errori,
e che con danno, e pubblico cordoglio
mai si vedon puniti i traditori.
        Dite che ognor degli Epuloni al soglio
i Lazzeri cadenti, e semivivi,
mangian pane di segala, e di loglio.
        Dite, che il sangue giusto sgorga in rivi,
ch’esenti dalle pene in faccia al cielo
son gl’iniqui, ed i rei felici e vivi.
        Queste cose v’inspiri un santo zelo;
nè state a dir quanto diletta e piace
chioma dorata sotto un bianco velo.
        A che giova cantar Cintia e Salmace,
o di Dafne la fuga, o di Siringa,
i lamenti di Croco, o di Smilace? (n.71)
        Più sublime materia un dì vi spinga;
e si tralasci andar bugie cercando,
nè più follìe genio Dirceo vi finga!
        E chi gli anni desìa passar cantando,
lodi Veturie in vece di Batilli, (n.72)
sante sapienze, e non pazzie d’Orlando.
        Che omai le valli al risuonar di Filli, (n.73)
vedon sazi di pianti, e di sospiri
i sentieri d’Armida, e d’Amarilli.
        Per i vestigi degli altrui deliri
ognun Clori ha nel cor, Lilla ne’ labri;
ognun canta di pene, e di martìri.
        Imitan tutti, benchè rozzi e scabri,
Properzio, Alceo, Callimaco, e Catullo,
d’amorose follie maestri, e fabri.
        Stilla l’ingegno a divenir trastullo
degli uomini dabbene, e ognun trattiensi
al suon d’Anacreonte e di Tibullo.
        D’incontinente ardor gli Ovidj accensi,
vengon d’affetti rei figli lascivi
a stuzzicare, a imputtanire i sensi.
        E degli scritti lor vani, e nocivi
nelle scuole Cinnarie, (n.74)e di Cupido
studian le Frini (n.75) a spennacchiar corrivi.
        Perché diletti più, l’onesta Dido
si finge una sgualdrina; e per le chiese
serve per ufficiolo il Pastorfido.
        Da qual donzella non son oggi intese
le Priapèe? (n.76) ed han virtù che alletta
l’opre, benchè impudiche, e le sospese.
        De’ versi Fescennini (n.77)ognun fa incetta,
e di Curzio la sordida Morneide
si vede sempre mai letta e riletta.
        Son gl’ingegni oggidì da far Eneide,
quei che premendo di zaffate i calli,
scrivono la Vendemmia, e la Merdeide.
        I lascivi Fallofori, e Itifalli, (n.78)
con Inni scellerati e laudi oscene
si tiran dietro i vil Menandri, e i Galli.
        Di voi, sacre Pimplee, (n.79)timor mi tiene,
mentre vi veggio strucciolare in chiasso
al pazzo arbitrio di chi va, e chi viene.
        L’orecchio aver bisognerìa di sasso,
per non sentir l’oscenità de’ motti,
ch’usan nel conversar sboccato e grasso.
        Son questi insin nei pulpiti introdotti,
d’ond’è forzato, che un cristiano inghiozzi
le facezie dei Mimi, e degli Arlotti. (n.80)
        Miserie inver da piangere a singhiozzi!
Che al par de’ banchi ormai de’ saltinbanchi
vanta il pergamo ancora i suoi Scatozzi. (n.81)
        Quando mai di cantar sarete stanchi
di dame e cavalier, d’armi e d’amore,
sprone d’impudicizie agli altrui fianchi?
        A che mandar tante ignominie fuore,
e far proteste tutto quanto il die,
che s’oscena è la penna, è casto il cuore?
        Tempi questi non son d’allegorie:
l’età, che corre di tre cose è infetta,
di malizia, ignoranza e poesie.
        Sentito ho raccontar, che fu un trombetta
preso una volta da’ nemici in campo,
mentre stava suonando alla vedetta.
        Il qual per ritrovar riparo o scampo,
dicea, che solamente egli suonava,
ma col suo ferro mai non tinse il campo.
        Gli fu risposto allor, ch’ei meritava
maggior pena però, poichè suonando
alle stragi, al furor gli altri irritava.
        Intendetemi voi, voi che cantando
siete cagion che la pietà vacilla,
e che il timor di Dio si ponga in bando.
        Da voi, da voi negli animi si stilla
la peste d’infinite corruttele,
agl’incendi voi date esca e favilla.
        Dite poi, che da un fiore e tosco e mele
trae, secondo gl’istinti, o buoni, o rei,
ape benigna e vipera crudele.
        Oh empj, iniqui, e quattro volte e sei;
pormi il tosco alla bocca, e poi, s’io pero,
dir che maligni fur gli affetti miei.
        Questo è paralogismo (n.82)menzognero:
non è simile al fiore il verso osceno,
nè men l’ape e la vipera ha il pensiero.
        Non racchiudon quei fiori il tosco in seno,
ma sono indifferenti; ai vostri versi
è qualitade intrinseca il veleno:
        nè l’ape e il serpe trae dai fiori aspersi
il tosco, e il miel per elezion; natura
gli spinge ad opre varie atti diversi.
        Ma l’alma, ch’è di Dio copia, e figura,
libera nacque, e non soggiace a forza,
benchè legata in questa spoglia impura:
        opera in sua ragione; e nulla sforza
l’arbitrio suo, che volontario elegge
ciò ch’essa fa nella terrena scorza:
        ma perché danno a lei consiglio e legge,
nel riconoscer le cose, i sensi frali,
facilmente ella cade e mal si regge.
        E voi, Sirene perfide e infernali,
le fabbricate con un rio diletto
il precipizio al piede, il vischio all’ali.
        Non ha la poesia più d’un oggetto:
il dilettare è mezzo, ell’ha per fine
sedar la mente, e moderar l’affetto:
        ella prima addolcì l’alme ferine,
e ne insegnò soave allettatrice
con favole sue l’opre divine:
        ella, figlia di Dio, mostrò felice
il suo fattor al mondo; e poscia adulta
fu di filosofia madre e nutrice.
        E in vece d’esser oggi ornata, e culta
di dottrine santissime, disposti
son sempre i vizj, e la ragion sepulta.
        Anzi con esecrandi contrapposti
oggi il dar del divino è cosa trita
agli sporchi Aretini, agli Arïosti.
        Dunque chi più la mente al vizio incita
avrà titol celeste? Ah venga meno,
e vanità sì rea resti sopita!
        Udite un Agostin di Dio ripieno,
ch’ebri d’error vi pubblica e palesa,
e sacrileghi e pazzi un Damasceno.
        L’iniqua Poesia la traccia ha presa
degli empj Machiavelli e degli Erasmi,
e di chi separò Cristo e la Chiesa.
        A che vantar del cielo gli entusiasmi,
se con maniera più profana, e ria
da miniere d’onor traete i biasmi?
        Scrivere a voi non par con leggiadria,
buffonacci, superbi e ateisti,
se non entrate in chiesa o in sagrestia.
        D’alme dannate fa maggiori acquisti
per opra vostra il popolato inferno;
così Parnaso ancora ha gli Anticristi.
        Pensate forse che il flagello eterno
non punisca le colpe, oppur credete
che degli eventi il caso abbia il governo?
        Se la galea, l’esilio e le segrete,
e se la forca è poi l’ultima scena
ai poeti giammai, ben lo sapete.
        Sfregiato il volto, e livida la schiena
a quanti han fatto dir con quel di Sorga, (n.83)
che il furor letterario a guerra mena!
        Deh cangiate tenor, e il mondo scorga
candor su i vostri fogli, e maestosa
la già morta pietade in voi risorga.
        Sia dolce il vostro stile, onde gioiosa
corra la terra a lui; ma serbi intanto
nel dolce suo la medicina ascosa:
        sia vago perché alletti; e casto, e santo
perché insegni il costume: è sol perfetto
quando diletta, ed ammaestra il canto. Sia del vostro sudor virtù l’oggetto;
ché, mentre queste atrocità cantate,
d’un insano furor v’infiamma Aletto. (n.84)
        Che se gli allori, e l’edere vantate,
è perché avete in testa un gran rottorio
e i fulmini del cielo in voi chiamate.
        E poi, che giova aver plettro d’avorio,
se quasi ogni poeta in grembo al duolo
delle fatiche sue canta il mortorio?
        A che di libri più crescer lo stuolo?
Purché insegnasse a vivere e morire,
soverchierebbe al mondo un libro solo.
        Rimoderate dunque il vostro ardire;
ché rarissimi son quei, che si leggono,
ed un di mille ne suol riuscire.
        All’immortalità tutti non reggono:
tra le tarle e le polveri coperti
i libri, ed i licei perir si veggono.
        La vostra fama è dubbia e i biasmi certi;
e in questi tempi sordidi, ed ingiusti
son pronti i Galbi (n.85) e i Mecenati incerti.
        Perché a scorno de’ principi vetusti,
in vece di Catoni e Anassimandri,
s’amano gl’ignoranti e i bellimbusti;
        
        e son gli Efestion (n.86) degli Alessandri
i becchi e i parasiti indegni e vili,
e prezzati i Taurei più che i Licandri:
        e in cambio degli Orazi e de’ Virgili
danzano in Corte baldanzosi, e lieti
i branchi de’ Clisofi e de’ Cherili (n.87) .
        Stiman più i Regi stolidi e indiscreti
d’un istrione o cantatrice i ghigni,
che il sudore de’ saggi e de’ poeti.
        Ed apre sol de’ potentati i scrigni,
e quando più gli piace ottien udienza
chi porta i polli, e non chi porta i cigni. (n.88)
        Spenta è già di quei grandi la semenza,
che in distinguere usaro ogni sapere
da i marroni al Maron la differenza,
        non speri il Mondo più di rivedere
l’eroe di Pella, (n.89) che dormir fu visto,
e dell’opre d’Omer farsi origliere. (n.90)
        Di dotti ognuno allor giva provvisto;
e vantava Artaserse un grand’impero
quando facea d’un letterato acquisto.
        L’istesso Dionisio empio, e severo,
per le pubbliche vie di Siracusa,
a Platon fe’ da servo e da cocchiero.
        Ma dove, dove mi trasporti, o Musa?
L’orecchio ha il mondo sol per Lesbia e Taide:
ragionar di virtude oggi non s’usa.
        Solo invaghita di Batillo e Laide,
stufa è di versi quest’età che corre:
secoli da fuggir nella Tebaide; (n.91)
        Tempi più da tacer, che da comporre.
 
 
 
 
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Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998