Italo Svevo
La coscienza di Zeno
VII (parte
1)
Storia di un'associazione commerciale
Fu Guido che mi volle con
lui nella sua nuova casa commerciale. Io morivo dalla voglia di farne parte, ma son sicuro
di non avergli mai lasciato indovinare tale mio desiderio. Si capisce che, nella mia
inerzia, la proposta di quell'attività in compagnia di un amico, mi fosse simpatica. Ma
c'era dell'altro ancora. Io non avevo ancora abbandonata la speranza di poter divenire un
buon negoziante e mi pareva piú facile di progredire insegnando a Guido, che facendomi
insegnare dall'Olivi. Tanti a questo mondo apprendono soltanto ascoltando se stessi o
almeno non sanno apprendere ascoltando gli altri.
Per desiderare quell'associazione avevo
anche altre ragioni. Io volevo essere utile a Guido! Prima di tutto gli volevo bene e
benché egli volesse sembrare forte e sicuro, a me pareva un inerme abbisognante di una
protezione che io volentieri volevo accordargli. Poi anche nella mia coscienza e non solo
agli occhi di Augusta, mi pareva che piú m'attaccavo a Guido e piú chiara risultasse la
mia assoluta indifferenza per Ada.
Insomma io non aspettavo che una parola di
Guido per mettermi a sua disposizione, e questa parola non venne prima, solo perché egli
non mi credeva tanto inclinato al commercio visto che non avevo voluto saperne di quello
che mi veniva offerto in casa mia.
Un giorno mi disse:
- Io ho fatta tutta la Scuola Superiore di
Commercio, ma pur mi dà un po' di pensiero di dover regolare sanamente tutti quei
particolari che garantiscono il sano funzionamento di una casa commerciale. Sta bene che
il commerciante non ha bisogno di saper di nulla, perché se ha bisogno di una bilancia
chiama il bilanciaio, se ha bisogno di legge invoca l'avvocato e per la propria
contabilità si rivolge ad un contabile. Ma è ben duro dover consegnare da bel principio
la propria contabilità ad un estraneo!
Fu la sua prima allusione chiara al suo
proposito di tenermi con lui. Veramente io non avevo fatta altra pratica di contabilità
che in quei pochi mesi in cui avevo tenuto il libro mastro per l'Olivi, ma ero certo
d'essere il solo contabile che non fosse stato un estraneo per Guido.
Si parlò chiaramente per la prina volta
dell'eventualità di una nostra associazione quand'egli andò a scegliere i mobili per il
suo ufficio. Ordinò senz'altro due scrivanie per la stanza della direzione. Gli domandai
arrossendo:
- Perché due?
Rispose:
- L'altra è per te.
Sentii per lui una tale riconoscenza che
quasi l'avrei abbracciato.
Quando fummo usciti dalla bottega, Guido,
un po' imbarazzato, mi spiegò che ancora non era al caso di offrirmi una posizione in
casa sua. Lasciava a mia disposizione quel posto nella sua stanza, solo per indurmi a
venir a tenergli compagnia ogni qualvolta mi fosse piaciuto. Non voleva obbligarmi a nulla
ed anche lui restava libero. Se il suo commercio fosse andato bene m'avrebbe concesso un
posto nella direzione della sua casa.
Parlando del suo commercio, la bella
faccia bruna di Guido si faceva molto seria. Pareva ch'egli avesse già pensate tutte le
operazioni a cui voleva dedicarsi. Guardava lontano, al disopra della mia testa, ed io mi
fidai tanto della serietà delle sue meditazioni, che mi volsi anch'io a guardare quello
ch'egli vedeva, cioè quelle operazioni che dovevano portargli la fortuna. Egli non voleva
camminare né la via percorsa con tanto successo da nostro suocero né quella della
modestia e della sicurezza battuta dall'Olivi. Tutti costoro, per lui, erano dei
commercianti all'antica. Bisognava seguire tutt'altra via, ed egli volentieri si associava
a me perché mi riteneva non ancora rovinato dai vecchi.
Tutto ciò mi parve vero. Mi veniva
regalato il mio primo successo commerciale ed arrossii dal piacere una seconda volta. Fu
cosí e per la gratitudine della stima ch'egli m'aveva dimostrato, ch'io lavorai con lui e
per lui, ora piú ora meno intensamente, per ben due anni, senz'altro compenso che la
gloria di quel posto nella stanza direttoriale. Fino ad allora fu quello certamente il
piú lungo periodo ch'io avessi dedicato ad una stessa occupazione. Non posso vantarmene
solo perché tale mia attività non diede alcun frutto né a me né a Guido ed in
commercio - tutti lo sanno - non si può giudicare che dal risultato.
Io conservai la fiducia d'esser avviato ad
un grande commercio per circa tre mesi, il tempo occorrente a fondare quella ditta. Seppi
che a me sarebbe toccato non solo di regolare dei particolari come la corrispondenza e la
contabilità, ma anche di sorvegliare gli affari. Guido conservò tuttavia un grande
ascendente su di me, tanto che avrebbe potuto anche rovinarmi e solo la mia buona fortuna
glielo impedí. Bastava un suo cenno perché accorressi a lui. Ciò desta la mia
stupefazione ancora adesso che ne scrivo, dopo che ho avuto il tempo di pensarci per tanta
parte della mia vita.
E scrivo ancora di questi due anni perché
il mio attaccamento a lui mi sembra una chiara manifestazione della mia malattia. Che
ragione c'era di attaccarsi a lui per apprendere il grande commercio e subito dopo restare
attaccato a lui per insegnargli quello piccolo? Che ragione c'era di sentirsi bene in
quella posizione solo perché mi sembrava significasse una grande indifferenza per Ada la
mia grande amicizia per Guido? Chi esigeva da me tutto questo? Non bastava a provare la
nostra indifferenza reciproca l'esistenza di tutti quei marmocchi cui davamo assiduamente
la vita? Io non volevo male a Guido, ma non sarebbe stato certamente l'amico che avrei
liberamente prescelto. Ne vidi sempre tanto chiaramente i difetti che il suo pensiero
spesso mi irritava, quando non mi commoveva qualche suo atto di debolezza. Per tanto tempo
gli portai il sacrificio della mia libertà e mi lasciai trascinare da lui nelle posizioni
piú odiose solo per assisterlo! Una vera e propria manifestazione di malattia o di grande
bontà, due qualità che stanno in rapporto molto intimo fra di loro.
Ciò rimane vero se anche col tempo fra
noi si sviluppò un grande affetto come succede sempre fra gente dabbene che si vede ogni
giorno. E fu un grande affetto il mio! Allorché egli scomparve, per lungo tempo sentii
com'egli mi mancava ed anzi l'intera mia vita mi sembrò vuota poiché tanta parte ne era
stata invasa da lui e dai suoi affari.
Mi viene da ridere al ricordare che
subito, nel nostro primo affare, l'acquisto dei mobili, sbagliammo in certo qual modo un
termine. Ci eravamo accollati i mobili e non ci decidevamo ancora a stabilire l'ufficio.
Per la scelta dell'ufficio, fra me a Guido
c'era una divergenza di opinione che la ritardò. Da mio suocero e dall'Olivi io avevo
sempre visto che per rendere possibile la sorveglianza del magazzino, l'ufficio vi era
contiguo. Guido protestava con una smorfia di disgusto:
- Quegli uffici triestini che puzzano di
baccalà o di pellami! - Egli assicurava che avrebbe saputo organizzare la sorveglianza
anche da lontano, ma intanto esitava. Un bel giorno il venditore dei mobili gl'intimò di
ritirarli perché altrimenti li avrebbe gettati sulla strada e allora lui corse a
stabilire un ufficio, l'ultimo che gli era stato offerto, privo di un magazzino nelle
vicinanze, ma proprio al centro della città. È perciò che il magazzino non lo ebbimo
mai piú.
L'ufficio si componeva di due vaste stanze
bene illuminate e di uno stanzino privo di finestre. Sulla porta di questo stanzino
inabitabile fu appiccicato un bollettino con l'iscrizione in lettere lapidarie: Contabilità;
poi, delle altre due porte l'una ebbe il bollettino: Cassa e l'altra fu addobbata
dalla designazione tanto inglese di Privato. Anche Guido aveva studiato il
commercio in Inghilterra e ne aveva riportate delle nozioni utili. La Cassa fu,
come di dovere, fornita di una magnifica cassa di ferro e del cancello tradizionale. La
nostra stanza Privata divenne una camera di lusso splendidamente tappezzata in un
colore bruno vellutato e fornita delle due scrivanie, di un sofà e di varie comodissime
poltrone.
Poi venne l'acquisto dei libri e dei varii
utensili. Qui la mia parte di direttore fu indiscussa. Io ordinavo e le cose arrivavano.
Invero avrei preferito di non essere seguito tanto prontamente, ma era mio dovere di dire
tutte le cose che occorrevano in un ufficio. Allora credetti di scoprire la grande
differenza che c'era fra me e Guido. Quanto sapevo io, mi serviva per parlare e a lui per
agire. Quand'egli arrivava a sapere quello che sapevo io e non piú, lui comperava. È
vero che talvolta in commercio fu ben deciso a non far nulla, cioè a non comperare né
vendere, ma anche questa mi parve una risoluzione di persona che crede di saper molto. Io
sarei stato piú dubbioso anche nell'inerzia.
In quegli acquisti fui molto prudente.
Corsi dall'Olivi a prendere le misure per i copialettere e per i libri di contabilità.
Poi il giovine Olivi m'aiutò ad aprire i libri e mi spiegò anche una volta la
contabilità a partita doppia, tutta roba non difficile, ma che si dimentica tanto
facilmente. Quando si sarebbe arrivati al bilancio, egli m'avrebbe spiegato anche quello.
Non sapevamo ancora quello che avremmo
fatto in quell'ufficio (adesso so che neppure Guido allora lo sapeva) e si discuteva di
tutta la nostra organizzazione. Ricordo che per giorni si parlò dove avremmo messi gli
altri impiegati se di essi avessimo avuto bisogno. Guido suggeriva di metterne quanti
potessero capirvi nella Cassa. Ma il piccolo Luciano, l'unico nostro impiegato per
il momento, dichiarava che là dove c'era la cassa, non potessero esserci altre persone
fuori di quelle addette alla cassa stessa. Era ben dura di dover accettare delle lezioni
dal nostro galoppino! Io ebbi un'ispirazione:
- A me sembra di ricordare che in
Inghilterra si paghi tutto con assegni.
Era una cosa che m'era stata detta a
Trieste.
- Bravo! - disse Guido. - Anch'io lo
ricordo ora. Curioso che l'avevo dimenticato!
Si mise a spiegare a Luciano in lungo e in
largo come non si usasse piú di maneggiare tanto denaro. Gli assegni giravano dall'uno
all'altro in tutti gl'importi che si voleva. Fu una bella vittoria la nostra, e Luciano
tacque.
Costui ebbe un grande vantaggio da quanto
apprese da Guido. Il nostro galoppino è oggidí un commerciante di Trieste assai
rispettato. Egli mi saluta ancora con una certa umiltà attenuata da un sorriso. Guido
spendeva sempre una parte della giornata ad insegnare dapprima a Luciano, poi a me e
quindi all'impiegata. Ricordo ch'egli aveva accarezzato per lungo tempo l'idea di fare il
commercio in commissione per non arrischiare il proprio denaro. Spiegò l'essenza di tale
commercio a me e, visto che evidentemente io capivo troppo presto, si mise a spiegarlo a
Luciano che per molto tempo stette a sentirlo coi segni della piú viva attenzione, i
grandi occhi lucenti nella faccia ancora imberbe. Non si può dire che Guido abbia perduto
il suo tempo, perché Luciano è il solo fra di noi che sia riuscito in quel genere di
commercio. Eppoi si dice che la scienza è quella che vince!
Intanto da Buenos Aires arrivarono i pesos.
Fu un affare serio! A me era parsa dapprima una cosa facile, ma invece il mercato di
Trieste non era preparato a quella moneta esotica. Ebbimo di nuovo bisogno del giovine
Olivi che c'insegnò il modo di realizzare quegli assegni. Poi, perché a un dato punto
fummo lasciati soli, sembrando all'Olivi di averci condotti a buon porto, Guido si trovò
per varii giorni con le tasche gonfie di corone, finché non trovammo la via ad una Banca
che ci sbrigò dell'incomodo fardello consegnandoci un libretto assegni di cui presto
apprendemmo a far uso.
Guido sentí il bisogno di dire all'Olivi
che gli facilitava il cosidetto impianto:
- Le assicuro che non farò mai la
concorrenza alla ditta del mio amico!
Ma il giovinotto che del commercio aveva
un altro concetto, rispose:
- Magari ci fosse un maggior numero di
contraenti nei nostri articoli. Si starebbe meglio!
Guido restò a bocca aperta, comprese
troppo bene come gli succedeva sempre e si attaccò a quella teoria che propinò a chi la
volle.
Ad onta della sua Scuola Superiore, Guido
aveva un concetto poco preciso del dare e dell'avere. Stette a guardare con sorpresa come
io costituii il Conto Capitale ed anche come registrai le spese. Poi fu tanto dotto di
contabilità che quando gli si proponeva un affare, lo analizzava prima di tutto dal punto
di vista contabile. Gli pareva addirittura che la conoscenza della contabilità conferisse
al mondo un nuovo aspetto. Egli vedeva nascere debitori e creditori dappertutto anche
quando due si picchiavano o si baciavano.
Si può dire ch'egli entrò in commercio
armato della massima prudenza. Rifiutò una quantità di affari ed anzi per sei mesi li
rifiutò tutti con l'aria tranquilla di chi sa meglio:
- No! - diceva, e il monosillabo pareva il
risultato di un calcolo preciso anche quando si trattava di un articolo ch'egli non aveva
mai visto.
Ma tutta quella riflessione era stata
sprecata a vedere come l'affare eppoi il suo eventuale beneficio o la sua perdita avrebbe
dovuto passare traverso ad una contabilità. Era l'ultima cosa ch'egli avesse appreso e
s'era sovrapposta a tutte le sue nozioni.
Mi duole di dover dire tanto male del mio
povero amico, ma devo essere veritiero anche per intendere meglio me stesso. Ricordo
quanta intelligenza egli impiegò per ingombrare il nostro piccolo ufficio di
fantasticherie che c'impedivano ogni sana operosità. A un dato punto, per iniziare il
lavoro in commissione, lanciammo per posta un migliaio di circolari. Guido fece questa
riflessione:
- Quanti francobolli risparmiati se prima
di spedire queste circolari sapessimo quali di esse raggiungeranno le persone che le
considereranno!
La frase sola non avrebbe impedito nulla,
ma egli se ne compiacque troppo e cominciò a gettare per aria le circolari chiuse per
spedire solo quelle che cadevano dalla parte dell'indirizzo. L'esperimento ricordava
qualche cosa di simile ch'io avevo fatto in passato, ma tuttavia a me sembra di non essere
mai arrivato a tale punto. Naturalmente io non raccolsi né spedii le circolari da lui
eliminate, perché non potevo essere certo che non ci fosse stata realmente una seria
ispirazione che lo avesse diretto in quell'eliminazione e dovessi perciò non sprecare i
francobolli che toccava di pagare a lui.
La mia buona sorte m'impedí di venir
rovinato da Guido, ma la stessa buona sorte m'impedí pure di prendere una parte troppo
attiva nei suoi affari. Lo dico ad alta voce perché altri a Trieste pensa che non sia
stato cosí: durante il tempo che passai con lui, non intervenni mai con un'ispirazione
qualunque, del genere di quelle della frutta secca. Mai lo spinsi ad un affare e mai
gliene impedii alcuno. Ero l'ammonitore! Lo spingevo all'attività, all'oculatezza. Ma non
avrei osato di gettare sul tavolo da giuoco i suoi denari.
Accanto a lui io mi feci molto inerte.
Cercai di metterlo sulla retta via e forse non ci riuscii per troppa inerzia. Del resto,
quando due si trovano insieme, non spetta loro di decidere chi dei due deve essere Don
Quijote e chi Sancio Panza. Egli faceva l'affare ed io da buon Sancio lo seguivo lento
lento nei miei libri dopo di averlo esaminato e criticato come dovevo.
Il commercio in commissione fiascheggiò
completamente, ma senz'arrecarci alcun danno. Il solo che c'inviò delle merci fu un
cartolaio di Vienna, e una parte di quegli oggetti di cancelleria furono venduti da
Luciano che pian pianino arrivò a sapere quanta commissione ci spettasse e se la fece
concedere quasi tutta da Guido. Guido finí con l'accondiscendere perché erano
piccolezze, eppoi perché il primo affare liquidato cosí doveva portare fortuna. Questo
primo affare ci lasciò lo strascico nel camerino dei ripostigli di una quantità di
oggetti di cancelleria che dovemmo pagare e tenere. Ne avevamo per il consumo di molti
anni di una casa commerciale ben piú attiva della nostra.
Per un paio di mesi quel piccolo ufficio
luminoso, nel centro della città, fu per noi un ritrovo gradevole. Vi si lavorava ben
poco (io credo vi si abbiano conchiusi in tutto due affari in imballaggi usati vuoti per i
quali nello stesso giorno s'incontrarono da noi la domanda e l'offerta e da cui ricavammo
un piccolo utile) e vi si chiacchierava molto, da buoni ragazzi, anche con quell'innocente
di Luciano, il quale, quando si parlava d'affari, s'agitava come altri della sua età
quando sente dire di donne.
Allora m'era facile di divertirmi da
innocente con gl'innocenti perché non avevo ancora perduta Carla. E di quell'epoca
ricordo con piacere la giornata intera. La sera, a casa, avevo molte cose da raccontare ad
Augusta e potevo dirle tutte quelle che si riferivano all'ufficio, senz'alcun'eccezione e
senza dover aggiungervi qualche cosa per falsarle.
Non mi preoccupava affatto quando Augusta
impensierita esclamava:
- Ma quando comincerete a guadagnare dei
denari?
Denari? A quelli non ci avevamo ancora
neppur pensato. Noi sapevamo che prima bisognava fermarsi a guardare, studiare le merci,
il paese e anche il nostro Hinterland. Non s'improvvisava mica cosí una casa di
commercio! E anche Augusta s'acquietava alle mie spiegazioni.
Poi nel nostro ufficio fu ammesso un
ospite molto rumoroso. Un cane da caccia di pochi mesi, agitato e invadente. Guido lo
amava molto e aveva organizzato per lui un approvvigionamento regolare di latte e di
carne. Quando non avevo da fare né da pensare, lo vedevo anch'io con piacere saltellare
per l'ufficio in quei quattro o cinque atteggiamenti che noi sappiamo interpretare dal
cane e che ce lo rendono tanto caro. Ma non mi pareva fosse al suo posto con noi, cosí
rumoroso e sudicio! Per me la presenza di quel cane nel nostro ufficio, fu la prima prova
che Guido forní di non essere degno di dirigere una casa commerciale. Ciò provava
un'assenza assoluta di serietà. Tentai di spiegargli che il cane non poteva promovere i
nostri affari, ma non ebbi il coraggio di insistere ed egli con una risposta qualunque mi
fece tacere.
Perciò mi parve di dover dedicarmi io
all'educazione di quel mio collega e gli assestai con grande voluttà qualche calcio
quando Guido non c'era. Il cane guaiva e dapprima ritornava a me credendo io l'avessi
urtato per errore. Ma un secondo calcio gli spiegava meglio il primo ed allora egli si
rincantucciava e finché Guido non arrivava nell'ufficio non v'era pace. Mi pentii poi di
aver imperversato su di un innocente, ma troppo tardi. Colmai il cane di gentilezze, ma
esso non si fidò piú di me ed in presenza di Guido diede chiaro segno della sua
antipatia.
- Strano! - disse Guido. - Fortuna che so
chi tu sia, perché altrimenti diffiderei di te. I cani di solito non sbagliano con le
loro antipatie.
Per far dileguare i sospetti di Guido,
quasi quasi gli avrei raccontato in quale modo io avevo saputo conquistarmi l'antipatia
del cane.
Ebbi presto una scaramuccia con Guido su
una questione che veramente non avrebbe dovuto importarmi tanto. Occupatosi con tanta
passione di contabilità, egli si mise in capo di mettere le sue spese di famiglia nel
conto delle spese generali. Dopo di essermi consultato con l'Olivi, io mi vi opposi e
difesi gl'interessi del vecchio Cada. Non era infatti possibile di mettere in quel
conto tutto ciò che spendeva Guido, Ada eppoi anche quello che costarono i due gemelli
quando nacquero. Erano delle spese che incombevano personalmente a Guido e non alla ditta.
Poi, in compenso, suggerii di scrivere a Buenos Aires per accordarsi per un salario per
Guido. Il padre si rifiutò di concederlo osservando che Guido percepiva già il
settantacinque per cento dei benefici mentre a lui non toccava che il residuo. A me parve
una risposta giusta mentre Guido si mise a scrivere delle lunghe lettere al padre per
discutere la questione da un punto di vista superiore, come egli diceva. Buenos Aires era
molto lontana e cosí la corrispondenza durò finché durò la nostra casa. Ma io vinsi il
mio punto! Il conto spese generali rimase puro e non fu inquinato dalle spese particolari
di Guido e il capitale fu compromesso intero dal crollo della casa, ma proprio intero
senza deduzioni.
La quinta persona ammessa nel nostro
ufficio (calcolando anche Argo) fu Carmen. Io assistetti alla sua assunzione all'impiego.
Ero venuto all'ufficio dopo di essere stato da Carla e mi sentivo molto sereno, di quella
serenità delle otto di mattina del principe di Taillerand. Nell'oscuro corridoio vidi una
signorina, e Luciano mi disse ch'essa voleva parlare con Guido in persona. Io avevo
qualche cosa da fare e la pregai di attendere là fuori. Guido entrò poco dopo nella
nostra stanza evidentemente senz'aver vista la signorina e Luciano venne a porgergli il
biglietto di presentazione di cui la signorina era fornita. Guido lo lesse eppoi:
- No! - disse seccamente levandosi la
giubba perché faceva caldo. Ma subito dopo ebbe un'esitazione:
- Bisognerà che le parli per riguardo a
chi la raccomanda.
La fece entrare ed io la guardai soltanto
quando vidi che Guido s'era gettato con un balzo sulla propria giubba per indossarla e
s'era rivolto alla fanciulla con la bella faccia bruna arrossata e gli occhi scintillanti.
Ora io sono sicuro di aver viste delle
fanciulle altrettanto belle di Carmen, ma non di una bellezza tanto aggressiva cioè tanto
evidente alla prima occhiata. Di solito le donne prima si creano per il proprio desiderio
mentre questa non aveva il bisogno di tale prima fase. Guardandola sorrisi e anche risi.
Mi pareva simile ad un industriale che corresse per il mondo gridando l'eccellenza dei
suoi prodotti. Si presentava per avere un impiego, ma io avrei avuto voglia d'intervenire
nelle trattative per domandarle: - Quale impiego? Per un'alcova?
Io vidi che la sua faccia non era tinta,
ma i colori ne erano tanto precisi, tanto azzurro il candore e tanto simile a quello delle
frutta mature il rossore, che l'artificio vi era simulato alla perfezione. I suoi grandi
occhi bruni rifrangevano una tale quantità di luce che ogni loro movimento aveva una
grande importanza.
Guido l'aveva fatta sedere ed essa
modestamente guardava la punta del proprio ombrellino o piú probabilmente il proprio
stivaletto verniciato. Quand'egli le parlò, essa levò rapidamente gli occhi e glieli
rivolse sulla faccia cosí luminosi, che il mio povero principale ne fu proprio abbattuto.
Era vestita modestamente, ma ciò non le giovava perché ogni modestia sul suo corpo
s'annullava. Solo gli stivaletti erano di lusso e ricordavano un po' la carta bianchissima
che Velasquez metteva sotto ai piedi dei suoi modelli. Anche Velasquez, per staccare
Carmen dall'ambiente, l'avrebbe poggiata sul nero di lacca.
Nella mia serenità io stetti a sentire
curiosamente, Guido le domandò se conoscesse la stenografia. Essa confessò di non
conoscerla affatto, ma aggiunse che aveva una grande pratica di scrivere sotto dettatura.
Curioso! Quella figura alta, slanciata e tanto armonica, produceva una voce roca. Non
seppi celare la mia sorpresa:
- È raffreddata? - le domandai.
- No! - mi rispose - Perché me lo
domanda? - e fu tanto sorpresa che l'occhiata in cui m'avvolse fu anche piú intensa. Non
sapeva di avere una voce tanto stonata ed io dovetti supporre che anche il suo piccolo
orecchio non fosse tanto perfetto come appariva.
Guido le domandò se conoscesse l'inglese,
il francese o il tedesco. Egli le lasciava la scelta visto che noi ancora non sapevamo di
quale lingua avremmo avuto bisogno. Carmen rispose che sapeva un po' di tedesco, ma
pochissimo.
Guido non prendeva mai alcuna decisione
senza ragionare:
- Noi non abbiamo bisogno del tedesco
perché lo so molto bene io.
La signorina aspettava la parola decisiva
che a me pareva fosse già stata detta e, per affrettarla, raccontò ch'essa nel nuovo
impiego cercava anche la possibilità d'impratichirsi e che perciò si sarebbe contentata
di un salario ben modesto.
Uno dei primi effetti della bellezza
femminile su di un uomo è quello di levargli l'avarizia. Guido si strinse nelle spalle
per significare che di cose tanto insignificanti non si occupava, le stabilí il salario
ch'essa riconoscente accettò e le raccomandò con grande serietà di studiare la
stenografia. Questa raccomandazione egli la fece solo per riguardo a me col quale s'era
compromesso dichiarando che il primo impiegato ch'egli avrebbe assunto sarebbe stato uno
stenografo perfetto.
Quella sera stessa raccontai del mio nuovo
collega a mia moglie. Essa ne fu oltremodo spiacente. Senza ch'io gliel'avessi detto, essa
pensò subito che Guido avesse assunta al suo servizio quella fanciulla per farsene
un'amante. Io discussi con lei e, pur ammettendo che Guido si comportava un poco da
innamorato, asserii ch'egli avrebbe potuto riaversi da quel colpo di fulmine senza che vi
fossero delle conseguenze. La fanciulla, in complesso, pareva dabbene.
Pochi giorni dopo - non so se per caso -
ebbimo in ufficio la visita di Ada. Guido non c'era ancora ed essa si fermò con me per un
istante per domandarmi a che ora sarebbe venuto. Poi, con passo esitante, si recò nella
stanza vicina ove in quel momento non c'erano che Carmen e Luciano. Carmen stava
esercitandosi alla macchina da scrivere, tutt'assorta a rintracciarvi le singole lettere.
Alzò i begli occhi per guardare Ada che la fissava. Come erano differenti le due donne!
Si somigliavano un poco, ma Carmen pareva un'Ada caricata. Io pensai che veramente l'una
che pur era vestita piú riccamente, fosse fatta per divenire una moglie o una madre
mentre all'altra, ad onta che in quell'istante portasse un modesto grembiule per non
insudiciare il suo vestito alla macchina, toccava la parte di amante. Non so se a questo
mondo vi sieno dei dotti che saprebbero dire perché il bellissimo occhio di Ada adunasse
meno luce di quello di Carmen e fosse perciò un vero organo per guardare le cose e le
persone e non per sbalordirle. Cosí Carmen ne sopportò benissimo l'occhiata sdegnosa, ma
anche curiosa; v'era dentro fors'anche un poco d'invidia, o ve la misi io?
Questa fu l'ultima volta in cui io vidi
Ada ancora bella, proprio quale s'era rifiutata a me. Poi venne la sua disastrosa
gravidanza e i due gemelli ebbero bisogno dell'intervento del chirurgo per venire
all'aria. Subito dopo fu colpita da quella malattia che le tolse ogni bellezza. Perciò io
ricordo tanto bene quella visita. Ma la ricordo anche perché in quel momento tutta la mia
simpatia andò a lei dalla bellezza mite e modesta abbattuta da quella tanto differente
dell'altra. Io non amavo certo Carmen e non ne sapevo altro che i magnifici occhi, gli
splendidi colori, poi la voce roca e infine il modo - di cui essa era innocente - come era
stata ammessa lí dentro. Volli invece proprio bene ad Ada in quel momento, ed è una cosa
ben strana di voler bene ad una donna che si desiderò ardentemente, che non si ebbe e di
cui ora non importa niente. In complesso si arriva cosí alle stesse condizioni in cui ci
si troverebbe qualora essa avesse aderito ai nostri desiderii, ed è sorprendente di poter
constatare ancora una volta come certe cose per cui viviamo hanno una ben piccola
importanza.
Volli abbreviarle il dolore e la
precedetti all'altra stanza. Guido, che subito dopo entrò, si fece molto rosso alla vista
della moglie. Ada gli disse una ragione plausibilissima per cui era venuta, ma subito dopo
e in atto di lasciarci, gli domandò:
- Avete assunto in ufficio una nuova
impiegata?
- Si! - disse Guido e, per celare la sua
confusione, non trovò di meglio che d'interrompersi per domandare se qualcuno fosse
venuto a cercarlo. Poi, avuta la mia risposta negativa, ebbe ancora una smorfia di
dispiacere come se avesse sperata una visita importante, mentre io sapevo che non
aspettavamo proprio nessuno e appena allora disse ad Ada con un aspetto d'indifferenza che
finalmente gli riuscí di assumere:
- Avevamo bisogno di uno stenografo!
Io mi divertii moltissimo all'udire
ch'egli sbagliava anche il sesso della persona di cui aveva bisogno.
La venuta di Carmen apportò una grande
vita nel nostro ufficio. Non parlo della vivacità che veniva dai suoi occhi, dalla
gentile sua figura e dai colori della sua faccia; parlo proprio di affari. Guido ebbe una
spinta al lavoro dalla presenza di quella fanciulla. Prima di tutto volle dimostrare a me
e a tutti gli altri che la nuova impiegata era necessaria, ed ogni giorno inventava dei
nuovi lavori cui partecipava anche lui. Poi, per lungo tempo, la sua attività fu un mezzo
per corteggiare piú efficacemente la fanciulla. Raggiunse un'efficacia inaudita. Doveva
insegnarle la forma della lettera ch'egli dettava e correggerle l'ortografia di molte
moltissime parole. Lo fece sempre dolcemente. Qualunque compenso da parte della fanciulla
non sarebbe stato eccessivo.
Pochi degli affari inventati da lui in
amore gli diedero un frutto. Una volta lavorò lungamente intorno ad un affare in un
articolo che risultò essere proibito. Ci trovammo ad un certo punto di fronte ad un uomo
dalla faccia contratta dal dolore sui cui calli noi, senza saperlo, eravamo montati.
Voleva sapere quest'uomo che cosa c'entrassimo noi in quell'articolo e supponeva fossimo
stati mandatarii di potenti concorrenti esteri. La prima volta era sconvolto e temeva il
peggio. Quando indovinò la nostra ingenuità, ci rise in faccia e ci assicurò che non
saremmo riusciti a nulla. Finí ch'ebbe ragione, ma prima che ci acconciassimo alla
condanna durò non poco tempo e da Carmen furono scritte non poche lettere. Trovammo che
l'articolo era irraggiungibile perché circondato da trincee. Io non dissi nulla di tale
affare ad Augusta, ma essa ne parlò a me perché Guido ne aveva parlato ad Ada per
dimostrarle quanto da fare avesse il nostro stenografo. Ma l'affare che non fu fatto,
rimase molto importante per Guido. Ne parlò ogni giorno. Era convinto che in nessun'altra
città del mondo sarebbe avvenuta una cosa simile. Il nostro ambiente commerciale era
miserabile ed ogni commerciante intraprendente vi veniva strangolato. Cosí toccava anche
a lui
Nella folle, disordinata sequela di affari
che in quell'epoca passò per le nostre mani, ve ne fu uno che addirittura ce le bruciò.
Non lo cercammo noi; fu l'affare che ci assaltò. Vi fummo cacciati dentro da un dalmata,
certo Tacich, il cui padre aveva lavorato all'Argentina col padre di Guido. Venne dapprima
a trovarci solo per avere da noi delle informazioni commerciali che noi seppimo
procurargli.
Il Tacich era un bellissimo giovine, anzi
troppo bello. Alto, forte, aveva una faccia olivastra in cui si fondevano in
un'intonazione deliziosa l'azzurro fosco degli occhi, le lunghe sopracciglia e i brevi
folti mustacchi bruni dai riflessi aurei. Insomma v'era in lui un tale intonato studio di
colore che a me parve l'uomo nato per accompagnarsi a Carmen. Anche a lui parve cosí e
venne a trovarci ogni giorno. La conversazione nel nostro ufficio durava ogni giorno per
delle ore, ma non fu mai noiosa. I due uomini lottavano per conquistare la donna e, come
tutti gli animali in amore, sfoggiavano le loro migliori qualità. Guido era un po'
trattenuto dal fatto che il dalmata veniva a trovarlo anche a casa sua e conosceva perciò
Ada, ma niente poteva piú danneggiarlo agli occhi di Carmen; io, che conoscevo tanto bene
quegli occhi, lo seppi subito, mentre il Tacich lo apprese molto piú tardi e, per avere
piú frequente il pretesto di vederla, comperò da noi anziché dal fabbricante, varii
vagoni di sapone che pagò per qualche percento piú cari. Poi, sempre per amore, ci
ficcò in quell'affare disastroso.
Suo padre aveva osservato che,
costantemente, in certe stagioni, il solfato di rame saliva e in altre calava di prezzo.
Decise perciò di comperarne per speculazione nel momento piú favorevole, in Inghilterra,
una sessantina di tonnellate. Noi parlammo a lungo di quell'affare ed anzi lo preparammo
mettendoci in relazione con una casa inglese. Poi il padre telegrafò al figlio che il
buon momento gli sembrava giunto e disse anche il prezzo al quale sarebbe stato disposto
di concludere l'affare. Il Tacich, innamorato com'era, corse da noi e ci consegnò
l'affare avendone in premio una bella, grande, carezzevole occhiata da Carmen. Il povero
dalmata incassò riconoscente l'occhiata non sapendo ch'era una manifestazione d'amore per
Guido.
Mi ricordo la tranquillità e la sicurezza
con cui Guido s'accinse all'affare che infatti si presentava facilissimo perché in
Inghilterra si poteva fissare la merce per consegna al nostro porto donde veniva ceduta,
senz'esserne rimossa, al nostro compratore. Egli fissò esattamente l'importo che voleva
guadagnare e col mio aiuto stabilí quale limite dovesse stabilire al nostro amico inglese
per l'acquisto. Con l'aiuto del vocabolario combinammo insieme il dispaccio in inglese.
Una volta speditolo, Guido si fregò le mani e si mise a calcolare quante corone gli
sarebbero piovute in cassa in premio di quella lieve e breve fatica. Per tenersi
favorevoli gli dei, trovò giusto di promettere una piccola provvigione a me e quindi, con
qualche malizia, anche a Carmen che all'affare aveva collaborato con i suoi occhi. Ambedue
volemmo rifiutare, ma egli ci supplicò di fingere almeno di accettare. Temeva altrimenti
il nostro malocchio ed io lo compiacqui subito per rassicurarlo. Sapevo con certezza
matematica che da me non potevano venirgli che i migliori auguri, ma capivo ch'egli
potesse dubitarne. Quaggiú quando non ci vogliamo male ci amiamo tutti, ma però i nostri
vivi desideri accompagnano solo gli affari cui partecipiamo.
L'affare fu vagliato in tutti i sensi ed
anzi ricordo che Guido calcolò persino per quanti mesi, col beneficio che ne avrebbe
tratto, avrebbe potuto mantenere la sua famiglia e l'ufficio, cioè le sue due famiglie,
come egli diceva talvolta o i suoi due uffici come diceva tale altra quando si seccava
molto in casa. Fu vagliato troppo, quell'affare, e non riuscí forse per questo. Da Londra
capitò un breve dispaccio: Notato eppoi l'indicazione del prezzo di quel giorno
del solfato, piú elevato di molto di quello concessoci dal nostro compratore. Addio
affare. Il Tacich ne fu informato e poco dopo abbandonò Trieste.
In quell'epoca io cessai per circa un mese
di frequentare l'ufficio e perciò, per le mie mani, non passò una lettera che giunse
alla ditta, dall'aspetto inoffensivo, ma che doveva avere gravi conseguenze per Guido. Con
essa, quella ditta inglese ci confermava il suo dispaccio e finiva con l'informarci che
notava il nostro ordine valido sino a revoca. Guido non ci pensò affatto di dare tale
revoca ed io, quando ritornai in ufficio, non ricordai piú quell'affare. Cosí varii mesi
appresso, una sera, Guido venne a cercarmi a casa con un dispaccio ch'egli non intendeva e
che credeva fosse stato indirizzato a noi per errore ad onta che portasse chiaro il nostro
indirizzo telegrafico che io avevo fatto regolarmente notare non appena fummo installati
nel nostro ufficio. Il dispaccio conteneva solo tre parole: 60 tons settled, ed io
lo intesi subito, ciò che non era difficile perché quello del solfato di rame era il
solo affare grosso che avessimo trattato. Glielo dissi: si capiva da quel dispaccio che il
prezzo, che noi avevamo fissato per l'esecuzione del nostro ordine, era stato raggiunto e
che perciò eravamo felici proprietari di sessanta tonnellate di solfato di rame.
Guido protestò:
- Come si può pensare ch'io accetti tanto
in ritardo l'esecuzione del mio ordine?
Pensai subito io che nel nostro ufficio
dovesse esserci la lettera di conferma del primo dispaccio, mentre Guido non ricordava di
averla ricevuta. Lui, inquieto, propose di correre subito all'ufficio per vedere se ci
fosse, ciò che mi fu molto gradito perché mi seccava quella discussione dinanzi ad
Augusta la quale ignorava che io per un mese non m'ero fatto vedere in ufficio.
Corremmo all'ufficio. Guido era tanto
dispiacente di vedersi costretto a quel primo grande affare che, per esimersene, sarebbe
corso fino a Londra. Aprimmo l'ufficio; poi, a tastoni nell'oscurità, trovammo la via
alla nostra stanza e raggiungemmo il gas, per accenderlo. Allora la lettera fu subito
trovata ed era fatta come io l'avevo supposta; c'informava cioè che il nostro ordine
valido sino a revoca era stato eseguito.
Guido guardò la lettera con la fronte
contratta non so se dal dispiacere o dallo sforzo di voler annientare col suo sguardo
quanto si annunciava esistente con tanta semplicità di parola.
- E pensare - osservò - che sarebbe
bastato di scrivere due parole per risparmiarsi un danno simile.
Non era certo un rimprovero diretto a me
perché io ero stato assente dall'ufficio e, per quanto avessi saputo trovare subito la
lettera sapendo ove doveva trovarsi, prima di allora non l'avevo mai vista. Ma per
nettarmi piú radicalmente da ogni rimprovero, lo rivolsi deciso a lui:
- Durante la mia assenza avresti pur
dovuto leggere accuratamente tutte le lettere!
La fronte di Guido si spianò. Alzò le
spalle e mormorò:
- Può ancora finire coll'essere una
fortuna quest'affare.
Poco dopo mi lasciò ed io ritornai a casa
mia. Ma il Tacich ebbe ragione: in certe stagioni il solfato di rame andava giú, giú,
ogni giorno piú giú e noi avevamo nell'esecuzione del nostro ordine e nella immediata
impossibilità di cedere la merce a quel prezzo ad altri, l'opportunità di studiare tutto
il fenomeno. La nostra perdita aumentò. Il primo giorno Guido mi domandò consiglio.
Avrebbe potuto vendere con una perdita piccola in confronto di quella che dovette
sopportare poi. Io non volli dare dei consigli, ma non trascurai di ricordargli la
convinzione del Tacich secondo la quale il ribasso avrebbe dovuto continuare per oltre
cinque mesi. Guido rise:
- Adesso non mi mancherebbe altro che
farmi dirigere nei miei affari da un provinciale!
Ricordo che tentai pure di correggerlo,
dicendogli che quel provinciale da molti anni passava il suo tempo nella piccola cittadina
dalmata a guardare il solfato di rame. Io non posso avere alcun rimorso per la perdita che
Guido subí in quell'affare. Se mi avesse ascoltato gli sarebbe stata risparmiata.
Piú tardi discutemmo l'affare del solfato
di rame con un agente, un uomo piccolo, grassoccio, vivo e accorto, che ci biasimò di
aver fatto quell'acquisto, ma che non sembrava di dividere l'opinione del Tacich. Secondo
lui il solfato di rame, per quanto facesse un mercato a sé, pur risentiva la fluttuazione
del prezzo del metallo. Guido da quell'intervista acquistò una certa sicurezza. Pregò
l'agente di tenerlo informato di ogni movimento nel prezzo; avrebbe aspettato volendo
vendere non soltanto senza perdita, ma con un piccolo utile. L'agente rise discretamente
eppoi nel corso del discorso disse una parola ch'io notai perché mi parve molto vera:
- Curioso come a questo mondo vi sia poca
gente che si rassegni a perdite piccole; sono le grandi che inducono immediatamente alla
grande rassegnazione.
Guido non ne fece caso. Io ammirai però
anche lui, perché all'agente non raccontò per quale via noi fossimo arrivati a
quell'acquisto. Glielo dissi ed egli ne menò vanto. Avrebbe temuto, mi disse, di
screditare noi e anche la nostra merce raccontando la storia di quell'acquisto.
Poi, per parecchio tempo, non parlammo
piú del solfato, finché cioè non venne da Londra una lettera con la quale ci si
invitava al pagamento e a dare istruzioni per la spedizione. Ricevere, immagazzinare
sessanta tonnellate! A Guido cominciò a girare la testa. Facemmo i calcoli di quanto
avremmo speso per conservare tale merce per varii mesi. Una somma enorme! Io non dissi
niente, ma il sensale che volontieri avrebbe vista la merce arrivare a Trieste perché
allora prima o poi avrebbe avuto lui l'incarico di venderla, fece osservare a Guido che
quella somma che a lui pareva enorme, non era gran cosa se espressa in «percenti» sul
valore della merce.
Guido si mise a ridere perché
l'osservazione gli pareva strana:
- Io non ho mica soli cento chili di
solfato; ne ho sessanta tonnellate, purtroppo!
Egli avrebbe finito col lasciarsi
convincere dal calcolo dell'agente, evidentemente giusto, visto che con un piccolo
movimento in sú del prezzo, le spese sarebbero state coperte ad usura, se in quel momento
non fosse stato arrestato da una sua cosidetta ispirazione. Quando gli avveniva di avere
un'idea commerciale proprio sua, egli ne era addirittura allucinato e non c'era posto
nella sua mente per altre considerazioni. Ecco la sua idea: la merce gli era stata venduta
franco Trieste da gente che doveva pagarne il trasporto dall'Inghilterra. Se egli ora
avesse ceduta la merce ai suoi stessi venditori che avrebbero perciò risparmiate le spese
per tale trasporto, egli avrebbe potuto fruire di un prezzo ben piú vantaggioso di quello
che gli veniva offerto a Trieste. La cosa non era tanto vera, ma, per fargli piacere,
nessuno la discusse. Una volta liquidata la faccenda, egli ebbe un sorriso un po'
amarognolo sulla sua faccia che allora parve proprio di pensatore pessimista e disse:
- Non ne parliamo piú. La lezione fu
alquanto cara; bisogna ora saperne approfittare.
Invece se ne parlò ancora. Egli non ebbe
mai piú quella sua bella sicurezza nel rifiutare degli affari e, quando alla fine d'anno
gli feci vedere quanti denari avevamo perduti, egli mormorò:
- Quel maledetto solfato di rame fu la mia
disgrazia! Sentivo sempre il bisogno di rimettermi di quella perdita!
La mia assenza dall'ufficio era stato
provocato dall'abbandono di Carla. Non avevo piú potuto assistere agli amori di Carmen e
Guido. Essi si guardavano, si sorridevano, in mia presenza. Me ne andai sdegnosamente con
una risoluzione che presi di sera al momento di chiudere l'ufficio e senza dirne nulla a
nessuno. M'aspettavo che Guido m'avrebbe chiesta la ragione di tale abbandono e mi
preparavo allora di dargli il fatto suo. Io potevo essere molto severo con lui visto
ch'egli non sapeva assolutamente nulla delle mie gite al Giardino Pubblico.
Era una specie di gelosia la mia, perché
Carmen m'appariva quale la Carla di Guido, una Carla piú mite e sottomessa. Anche con la
seconda donna egli era stato piú fortunato di me, come con la prima. Ma forse - e ciò mi
forniva la ragione ad un nuovo rimprovero per lui - egli doveva anche tale fortuna a
quelle sue qualità ch'io gl'invidiavo e che continuavo a considerare quali inferiori:
parallelamente alla sua sicurezza sul violino, correva anche la sua disinvoltura nella
vita. Io oramai sapevo con certezza di aver sacrificata Carla ad Augusta. Quando riandavo
col pensiero a quei due anni di felicità che Carla m'aveva concessi, m'era difficile
d'intendere come essa - essendo fatta nel modo che ora sapevo - avesse potuto sopportarmi
per tanto tempo. Non l'avevo io offesa ogni giorno per amore ad Augusta? Di Guido invece
sapevo con certezza ch'egli avrebbe saputo godersi Carmen senza neppur ricordarsi di Ada.
Nel suo animo disinvolto due donne non erano di troppo. Confrontandomi con lui, a me
pareva di essere addirittura innocente. Io avevo sposata Augusta senz'amore e tuttavia non
sapevo tradirla senza soffrirne. Forse anche lui aveva sposata Ada senz'amarla, ma - per
quanto ora di Ada non m'importasse affatto - ricordavo l'amore ch'essa mi aveva ispirato e
mi pareva che poiché io l'avevo amata tanto, al suo posto sarei stato anche piú delicato
di quanto non lo fossi ora al mio.
Non fu Guido che venne a cercarmi. Fui io
che da solo ritornai a quell'ufficio a cercare il sollievo ad una grande noia. Egli si
comportò in conformità ai patti del nostro contratto secondo i quali io non avevo alcun
obbligo ad un'attività regolare nei suoi affari e quando s'imbatteva in me a casa o
altrove, mi dimostrava la solita grande amicizia di cui gli ero sempre grato e non
sembrava ricordare ch'io avessi lasciato vuoto il posto a quel tavolo ch'egli aveva
comperato per me. Fra noi due non c'era che un solo imbarazzo: il mio. Quando ritornai al
mio posto m'accolse come se dall'ufficio io fossi stato assente per un giorno solo,
m'espresse con calore il suo piacere di aver riconquistata la mia compagnia e, sentito il
mio proposito di riprendere il mio lavoro, esclamò:
- Ho fatto dunque bene a non permettere a
nessuno di toccare i tuoi libri!
Infatti trovai il mastro ed anche il
giornale al punto ove li avevo lasciati.
Luciano mi disse:
- Speriamo che ora che lei è qui, ci
moveremo di nuovo. Penso che il signor Guido sia scoraggiato per un paio di affari che
tentò e che non gli riuscirono. Non gli dica nulla che io le parlo cosí, ma guardi se
può incoraggiarlo.
M'accorsi infatti che in quell'ufficio si
lavorava ben poco e finché la perdita subita col solfato di rame non ci vivificò, vi si
menò una vita veramente idillica. Io ne conclusi subito che Guido non sentisse piú tanto
urgente il bisogno di lavorare per far muovere Carmen sotto la sua direzione e,
altrettanto presto, che il periodo della corte da loro fosse passato e che oramai essa
fosse divenuta la sua amante.
L'accoglienza di Carmen mi portò una
sorpresa perché essa subito sentí il bisogno di ricordarmi una cosa che io avevo
completamente dimenticata. Pare che prima di abbandonare quell'ufficio, in quei giorni in
cui ero corso dietro a tante donne perché non m'era stato piú possibile di raggiungere
la mia, io avessi aggredita anche Carmen. Essa mi parlò con grande serietà e con qualche
imbarazzo: aveva piacere di rivedermi perché pensava io volessi bene a Guido e che i miei
consigli potrebbero essergli utili, e voleva intrattenere con me - se io vi consentivo -
una bella, una fraterna amicizia. Mi disse proprio qualche cosa di simile porgendomi con
gesto largo la sua destra. Sulla sua faccia tanto bella che sempre pareva dolce, vi fu un
atteggiamento molto severo per rilevare la pura fraternità della relazione che mi veniva
offerta.
Allora ricordai e arrossii. Forse se
avessi ricordato prima, non sarei ritornato a quell'ufficio mai piú. Era stata una cosa
tanto breve e ficcata in mezzo a tante altre azioni dello stesso valore, che se ora non
fosse stata ricordata, si avrebbe potuto credere non fosse esistita mai. Pochi giorni dopo
l'abbandono di Carla, io m'ero messo a esaminare i libri facendomi aiutare da Carmen e
pian pianino, per veder meglio nella stessa pagina, avevo passato il mio braccio intorno
alla sua vita che poi avevo stretta sempre piú. Con un balzo Carmen s'era sottratta a me
ed io allora avevo abbandonato l'ufficio.
Io avrei potuto difendermi con un sorriso
inducendola a sorridere con me perché le donne sono tanto propense a sorridere di delitti
siffatti! Avrei potuto dirle:
- Ho tentato una cosa che non m'è
riuscita e me ne duole, ma non vi tengo rancore e voglio esservi amico finché non vi
piacerà altrimenti.
O avrei potuto rispondere anche da persona
seria, scusandomi con lei e anche con Guido:
- Scusatemi e non giudicatemi prima di
sapere in quali condizioni io mi sia trovato allora.
Invece mi mancò la parola. La mia gola -
credo - era chiusa dal rancore solidificatovisi e non potevo parlare. Tutte queste donne
che mi respingevano risolutamente davano addirittura una tinta tragica alla mia vita. Non
avevo mai avuto un periodo tanto disgraziato. Invece di una risposta non mi sarei trovato
pronto che a digrignare i denti, cosa poca comoda dovendo celarla. Forse mi mancò la
parola anche pel dolore di veder cosí recisamente esclusa una speranza che tuttavia
accarezzavo. Non posso fare a meno di confessarlo: meglio che con Carmen non avrei potuto
rimpiazzare l'amante ch'io avevo perduta, quella fanciulla tanto poco compromettente che
non m'aveva chiesto altro che il permesso di vivermi accanto finché non domandò quello
di non vedermi piú. Un'amante in due è l'amante meno compromettente. Certamente allora
non avevo chiarite tanto bene le mie idee, ma le sentivo e adesso le so. Divenendo
l'amante di Carmen, io avrei fatto il bene di Ada e non avrei danneggiato di troppo
Augusta. Ambedue sarebbero state tradite molto meno che se Guido ed io avessimo avuta una
donna intera per ciascuno.
La risposta a Carmen io la diedi varii
giorni appresso, ma ancor oggidí ne arrossisco. L'orgasmo in cui m'aveva gettato
l'abbandono di Carla doveva sussistere tuttavia per farmi arrivare ad un punto simile. Ne
ho rimorso come di nessun'altra azione della mia vita. Le parole bestiali che ci lasciamo
scappare rimordono piú fortemente delle azioni piú nefande cui la nostra passione
c'induca.
Naturalmente designo come parole solo
quelle che non sono azioni, perché so benissimo che le parole di Jago, per esempio, sono
delle vere e proprie azioni. Ma le azioni, comprese le parole di Jago, si commettono per
averne un piacere o un beneficio e allora tutto l'organismo, anche quella parte che poi
dovrebbe erigersi a giudice, vi partecipa e diventa dunque un giudice molto benevolo. Ma
la stupida lingua agisce a propria e a soddisfazione di qualche piccola parte
dell'organismo che senza di essa si sente vinta e procede alla simulazione di una lotta
quando la lotta è finita e perduta. Vuole ferire o vuole accarezzare. Si muove sempre in
mezzo a dei traslati mastodontici. E quando son roventi, le parole scottano chi le ha
dette.
Io avevo osservato ch'essa non aveva piú
i colori che l'avevano fatta ammettere tanto prontamente nel nostro ufficio. Mi figurai
fossero andati perduti per una sofferenza che non ammisi avesse potuto essere fisica e
l'attribuii all'amore per Guido. Del resto noi uomini siamo molto inclinati a compiangere
le donne che si abbandonarono agli altri. Non vediamo mai quale vantaggio se ne possano
aspettare. Possiamo magari amare l'uomo di cui si tratta - come avveniva nel caso mio - ma
non sappiamo neppur allora dimenticare come di solito vadano a finire quaggiú le
avventure d'amore. Sentii una sincera compassione per Carmen come non l'avevo sentita mai
per Augusta o per Carla. Le dissi: - E giacché avete avuta la gentilezza d'invitarmi ad
esservi amico, mi permettereste di farvi degli ammonimenti?
Essa non me lo permise, perché, come
tutte le donne in quei frangenti, anch'essa credette che ogni ammonimento sia
un'aggressione. Arrossí e balbettò: - Non capisco! Perché dice cosí? - E subito dopo,
per farmi tacere: - Se avessi bisogno di consigli ricorrerei certamente a lei, signor
Cosini.
Perciò non mi fu concesso di predicarle
la morale e fu un danno per me. Predicandole la morale certamente sarei arrivato ad un
grado superiore di sincerità, magari tentando di prenderla di nuovo fra le mie braccia.
Non m'arrovellerei piú di aver voluto assumere quell'aspetto bugiardo di Mentore.
Per varii giorni di ogni settimana, Guido
non si faceva neppur vedere in ufficio perché s'era appassionato alla caccia e alla
pesca. Io, invece, dopo il mio ritorno, per qualche tempo vi fui assiduo, occupatissimo
nel mettere a giorno i libri. Ero spesso solo con Carmen e Luciano che mi consideravano
quale il loro capo ufficio. Non mi pareva che Carmen soffrisse per l'assenza di Guido e mi
figurai ch'essa l'amasse tanto da gioire al sapere che si divertiva. Doveva anche essere
avvisata dei giorni in cui egli sarebbe stato assente, perché non tradiva alcuna attesa
ansiosa. Sapeva da Augusta che Ada invece non era fatta cosí, perché si lagnava
amaramente delle frequenti assenze del marito. Del resto non era questa la sua unica
lagnanza. Come tutte le donne non amate, essa si lagnava con lo stesso calore delle offese
grandi e di quelle piccole. Non soltanto Guido la tradiva, ma quando era in casa suonava
sempre il violino. Quel violino, che m'aveva fatto tanto soffrire, era una specie di
lancia di Achille per la varietà delle sue prestazioni. Appresi ch'era passato anche per
il nostro ufficio ove aveva promossa la corte a Carmen con delle bellissime variazioni sul
«Barbiere». Poi era ripartito perché in ufficio non occorreva piú ed era ritornato a
casa ove risparmiava a Guido la noia di dover conversare con la moglie.
Fra me e Carmen non ci fu mai piú nulla.
Ben presto io ebbi per lei un sentimento d'indifferenza assoluta come se essa avesse
cambiato di sesso, qualche cosa di simile a quello che provavo per Ada. Una viva
compassione per ambedue e nient'altro. Proprio cosí!
Guido mi colmava di gentilezze. Io credo
che in quel mese in cui l'avevo lasciato solo, avesse imparato ad apprezzare la mia
conpagnia. Una donnina come Carmen può essere gradevole di tempo in tempo, ma non si può
mica sopportarla per giornate intere. Egli m'invitò a caccia e a pesca. Aborro la caccia
e decisamente mi rifiutai di accompagnarvelo. Invece, una sera, spintovi dalla noia, finii
con l'andare con lui a pesca. Al pesce manca ogni mezzo di comunicazione con noi e non
può destare la nostra compassione. Se boccheggia anche quand'è sano e salvo in acqua!
Persino la morte non ne altera l'aspetto. Il suo dolore, se esiste, è celato
perfettamente sotto le sue squame.
Quando un giorno m'invitò ad una pesca
notturna, mi riservai di vedere se Augusta m'avrebbe permesso di uscire quella sera e di
restar fuori tanto tardi. Gli dissi che avrei ricordato che la sua barchetta si sarebbe
staccata dal molo Sartorio alle nove di sera e che, potendo, mi vi sarei trovato. Pensai
perciò che anche lui dovette sapere subito che per quella sera non m'avrebbe riveduto e
che come avevo fatto tante altre volte, non mi sarei recato all'appuntamento.
Invece quella sera fui cacciato di casa
dalle strida della mia piccola Antonia. Piú la madre l'accarezzava e piú la piccina
strillava. Allora tentai un mio sistema che consisteva nel gridar delle insolenze nel
piccolo orecchio di quella scimmietta urlante. N'ebbi il solo risultato di far cambiare il
ritmo alle sue strida, perché si mise a gridare dallo spavento. Poi avrei voluto tentare
un altro sistema un poco piú energico, ma Augusta ricordò in tempo l'invito di Guido e
m'accompagnò alla porta promettendomi di coricarsi sola se io non fossi rincasato che
tardi. Anzi, pur di mandarmi via, si sarebbe anche adattata di prendere senza di me il
caffè la mattina appresso, se fossi rimasto fuori fino allora. C'è un piccolo dissidio
tra me e Augusta - l'unico - sul modo di trattare i bambini fastidiosi: a me pare che il
dolore del bambino sia meno importante del nostro e che valga la pena d'infliggerglielo
pur di risparmiare un grande disturbo all'adulto; a lei invece sembra che noi, che abbiamo
fatti i bambini, dobbiamo anche subirli.
Avevo tutto il tempo per arrivare
all'appuntamento e attraversai lentamente la città guardando le donne e nello stesso
tempo inventando un ordigno speciale che avrebbe impedito ogni dissidio fra me ed Augusta.
Ma per il mio ordigno l'umanità non era abbastanza evoluta! Esso era destinato al futuro
lontano e non poteva piú giovare a me se non dimostrandomi per quale piccola ragione si
rendevano possibili le mie dispute con Augusta: la mancanza di un piccolo ordigno! Esso
sarebbe stato semplice, un tramvai casalingo, una sediola fornita di ruote e rotaie sulla
quale la mia bimba avrebbe passata la sua giornata: poi un bottone elettrico toccando il
quale la sediola con la bimba urlante si sarebbe messa a correre via fino a raggiungere il
punto piú lontano della casa donde la sua voce affievolita dalla lontananza ci sarebbe
sembrata perfino gradevole. Ed io ed Augusta saremmo rimasti insieme tranquilli ed
affettuosi.
Era una notte ricca di stelle e priva di
luna, una di quelle notti in cui si vede molto lontano e perciò addolcisce e quieta.
Guardai le stelle che avrebbero potuto ancora portare il segno dell'occhiata d'addio di
mio padre moribondo. Sarebbe passato il periodo orrendo in cui i miei bimbi sporcavano e
urlavano. Poi sarebbero stati simili a me; io li avrei amati secondo il mio dovere e senza
sforzo. Nella bella, vasta notte mi rasserenai del tutto e senz'aver bisogno di fare dei
propositi.
Alla punta del molo Sartorio le luci
provenienti dalla città erano tagliate dall'antica casetta da cui sporge la punta stessa
quale una breve fondamenta. L'oscurità era perfetta e l'acqua alta e fosca e quieta mi
pareva pigramente gonfia.
Non guardai piú né il cielo né il mare.
A pochi passi da me c'era una donna che destò la mia curiosità per uno stivaletto
verniciato che per un istante brillò nell'oscurità. Nel breve spazio e nel buio, a me
parve che quella donna alta e forse elegante, si trovasse chiusa in una stanza con me. Le
avventure piú gradevoli possono capitare quando meno ci si pensa, e vedendo che quella
donna tutt'ad un tratto deliberatamente s'avvicinava, ebbi per un istante un sentimento
piacevolissimo, che sparve subito quando sentii la voce roca di Carmen. Voleva fingere di
aver piacere d'apprendere ch'ero anch'io della partita. Ma nell'oscurità e con quella
specie di voce non si poteva fingere.
Le dissi rudemente:
- Guido m'ha invitato. Ma se volete, io
trovo altro da fare e vi lascio soli!
Ella protestò dichiarando che anzi era
felice di vedermi per la terza volta in quel giorno. Mi raccontò che in quella piccola
barchetta si sarebbe trovato riunito l'ufficio intero perché c'era anche Luciano. Guai
per i nostri affari se fosse andata a picco! M'aveva detto che c'era anche Luciano, certo
per darmi la prova dell'innocenza del ritrovo. Poi chiacchierò ancora volubilmente,
dapprima dicendomi ch'era la prima volta che andava con Guido a pesca eppoi confessando
ch'era la seconda. S'era lasciato sfuggire che non le dispiaceva di star seduta «a
pagliolo» in una barchetta e a me era sembrato strano ch'essa conoscesse quel termine.
Cosí dovette confessarmi di averlo appreso la prima volta ch'era stata a pesca con Guido.
- Quel giorno - aggiunse per rivelare la
completa innocenza di quella prima gita - andammo alla pesca degli sgombri e non delle
orate. Di mattina.
Peccato che non abbia avuto il tempo di
farla chiacchierare di piú, perché avrei potuto sapere tutto quello che m'importava, ma
dall'oscurità della Sacchetta uscí e s'approssimò a noi rapidamente la barchetta di
Guido. Io ero sempre in dubbio: dal momento che c'era Carmen, non avrei dovuto
allontanarmi? Forse Guido non aveva neppur avuto l'intenzione d'invitarci ambedue perché
io ricordavo di aver quasi rifiutato il suo invito. Intanto la barchetta approdò e,
giovanilmente sicura anche nell'oscurità, Carmen vi scese trascurando di appoggiarsi alla
mano che Luciano le aveva offerta. Poiché esitavo, Guido urlò:
- Non farci perder tempo!
Con un balzo fui anch'io nella barchetta.
Il balzo mio era quasi involontario: un
prodotto dell'urlo di Guido. Guardavo con grande desiderio la terra, ma bastò un istante
di esitazione per rendermi impossibile lo sbarco. Finii col sedermi a prua della non
grande barchetta. Quando m'abituai all'oscurità, vidi che a poppa, di faccia a me, sedeva
Guido e ai suoi piedi, a pagliolo, Carmen. Luciano, che vogava, ci divideva. Io non mi
sentivo né molto sicuro né molto comodo nella piccola barca, ma presto mi vi abituai e
guardai le stelle che di nuovo mi mitigarono. Era vero che in presenza di Luciano - un
servo devoto delle famiglie delle nostre mogli - Guido non si sarebbe rischiato di tradire
Ada e non c'era perciò niente di male che io fossi con loro. Desideravo vivamente di
poter godere di quel cielo, quel mare e la vastissima quiete. Se avessi dovuto sentirne
rimorso e perciò soffrire, avrei fatto meglio di restare a casa mia a farmi torturare
dalla piccola Antonia. L'aria fresca notturna mi gonfiò i polmoni e compresi ch'io potevo
divertirmi in compagnia di Guido e Carmen, cui in fondo volevo bene.
Passammo dinanzi al faro e arrivammo al
mare aperto. Qualche miglio piú in là brillavano le luci d'innumerevoli velieri: là si
tendevano ben altre insidie al pesce. Dal Bagno Militare, - una mole poderosa nereggiante
sui suoi pali, - cominciammo a moverci su e giú lungo la riviera di Sant'Andrea. Era il
posto prediletto dei pescatori. Accanto a noi, silenziosamente, molte altre barche
facevano la stessa nostra manovra. Guido preparò le tre lenze e inescò gli ami
configgendovi dei gamberelli per la coda. Consegnò una lenza ad ognuno di noi dicendo che
la mia, a prua, - la sola munita di piombino - sarebbe stata preferita dal pesce. Scorsi
nell'oscurità il mio gamberello dalla coda trafitta e mi parve che movesse lentamente la
parte superiore del corpo, quella parte che non era diventata una guaina. Per questo
movimento mi parve piuttosto meditabondo che spasimante dal dolore. Forse ciò che produce
il dolore nei grandi organismi, nei piccolissimi può ridursi fino a divenire
un'esperienza nuova, un solletico al pensiero. Lo ficcai nell'acqua calandovelo, come mi
fu detto da Guido, per dieci braccia. Dopo di me Carmen e Guido calarono le loro lenze.
Guido aveva ora a poppa anche un remo col quale spingeva la barca con l'arte che occorreva
perché le lenze non s'aggrovigliassero. Pare che Luciano non fosse ancora al caso di
dirigere in tale modo la barchetta. Del resto Luciano aveva ora l'incarico della piccola
rete con la quale avrebbe levato dall'acqua il pesce portato dall'amo fino alla
superficie. Per lungo tempo egli non ebbe nulla da fare. Guido ciarlava molto. Chissà che
non sia stato attaccato a Carmen dalla sua passione per l'insegnamento piuttosto che
dall'amore. Io avrei voluto non starlo a sentire per continuare a pensare al piccolo
animaletto che tenevo esposto alla voracità dei pesci, sospeso nell'acqua e che coi cenni
della testolina - se li continuava anche in acqua - avrebbe adescato meglio il pesce. Ma
Guido mi chiamò ripetute volte e dovetti star a sentire la sua teoria sulla pesca. Il
pesce avrebbe toccato varie volte l'esca e noi l'avremmo sentito, ma dovevamo guardarci
dal tirare la lenza finché non si fosse tesa. Allora dovevamo essere pronti per dare lo
strappo che avrebbe infilzato sicuramente l'amo nella bocca del pesce. Guido, come al
solito, fu lungo nelle sue spiegazioni. Voleva spiegarci chiaramente quello che avremmo
sentito nella mano quando il pesce avrebbe annusato l'amo. E continuava le sue spiegazioni
quando io e Carmen conoscevamo già per esperienza la quasi sonora ripercussione sulla
mano di ogni contatto che l'amo subiva. Piú volte dovemmo raccogliere la lenza per
rinnovare l'esca. Il piccolo animaluccio pensieroso finiva invendicato nelle fauci di
qualche pesce accorto che sapeva evitare l'amo.
A bordo c'era della birra e dei panini.
Guido condiva tutto ciò con la sua chiacchiera inesauribile. Parlava ora delle enormi
ricchezze che giacevano nel mare. Non si trattava, come Luciano credeva, né del pesce né
delle ricchezze immersevi dall'uomo. Nell'acqua del mare c'era disciolto dell'oro.
Improvvisamente ricordò ch'io avevo studiato chimica e mi disse:
- Anche tu devi sapere qualche cosa di
quest'oro.
Io non ne ricordavo molto, ma annuii
arrischiando un'osservazione della cui verità non potevo essere sicuro. Dichiarai:
- L'oro del mare è il piú costoso di
tutti. Per avere uno di quei napoleoni che giacciono qui disciolti, bisognerebbe spenderne
cinque.
Luciano che ansiosamente s'era rivolto a
me per sentirmi confermare le ricchezze su cui nuotavamo, mi volse disilluso la schiena. A
lui di quell'oro non importava piú. Guido invece mi diede ragione credendo di ricordare
che il prezzo di quell'oro era esattamente di cinque volte tanto, proprio come avevo detto
io. Mi glorificava addirittura confermando la mia asserzione, che io sapevo del tutto
cervellotica. Si vedeva che mi sentiva poco pericoloso e che in lui non c'era ombra di
gelosia per quella donna coricata ai suoi piedi. Pensai per un istante di metterlo in
imbarazzo dichiarando che ricordavo ora meglio e che per trarre dal mare uno di quei
napoleoni ne sarebbero bastati tre o che ne sarebbero abbisognati addirittura dieci.
Ma in quell'istante fui chiamato dalla mia
lenza che improvvisamente s'era tesa per uno strappo poderoso. Strappai anch'io e gridai.
Con un balzo Guido mi fu vicino e mi prese di mano la lenza. Gliel'abbandonai volentieri.
Egli si mise a tirarla su, prima a piccoli tratti, poi, essendo diminuita la resistenza, a
grandissimi. E nell'acqua fosca si vide brillare l'argenteo corpo del grosso animale.
Correva oramai rapidamente e senza resistenza dietro al suo dolore. Perciò compresi anche
il dolore dell'animale muto, perché era gridato da quella fretta di correre alla morte.
Presto l'ebbi boccheggiante ai miei piedi. Luciano l'aveva tratto dall'acqua con la rete
e, strappandonelo senza riguardo, gli aveva levato di bocca l'amo.
Palpò il grosso pesce:
- Un'orata di tre chilogrammi!
Ammirando, disse il prezzo che se ne
sarebbe domandato in pescheria. Poi Guido osservò che l'acqua era ferma a quell'ora e che
sarebbe stato difficile di pigliare dell'altro pesce.
Raccontò che i pescatori ritenevano che
quando l'acqua non cresceva né calava, i pesci non mangiavano e perciò non potevano
essere presi. Fece della filosofia sul pericolo che risultava ad un animale dal suo
appetito. Poi, mettendosi a ridere, senz'accorgersi che si comprometteva, disse:
- Tu sei l'unico che sappia pescare questa
sera.
La mia preda si dibatteva tuttavia nella
barca, quando Carmen diede uno strido. Guido domandò senza muoversi e con una gran voglia
di ridere nella voce:
- Un'altra orata?
Carmen confusa rispose:
- Mi pareva! Ma ha già abbandonato l'amo!
Io sono sicuro che, trascinato dal suo
desiderio, egli le aveva dato un pizzicotto.
Io oramai mi sentivo a disagio in quella
barca. Non accompagnavo piú col desiderio l'opera del mio amo, anzi agitavo la lenza in
modo che i poveri animali non potessero abboccare. Dichiarai che avevo sonno e pregai
Guido di sbarcarmi a Sant'Andrea. Poi mi preoccupai di togliergli il sospetto ch'io me ne
andassi perché infastidito da quanto doveva avermi rivelato lo strido di Carmen, e gli
raccontai della scena che aveva fatta la mia piccina quella sera e il mio desiderio di
accertarmi presto che non stesse male.
Compiacente come sempre, Guido accostò la
barca alla riva. M'offerse l'orata ch'io avevo pescata, ma io rifiutai. Proposi di ridarle
la libertà gettandola in mare, ciò che fece dare un urlo di protesta a Luciano, mentre
Guido bonariamente disse:
- Se sapessi di poter ridarle la vita e la
salute lo farei. Ma a quest'ora la povera bestia non può servire che in piatto!
Li seguii con gli occhi e potei accertarmi
che non approfittarono dello spazio lasciato libero da me. Stavano bene serrati insieme e
la barchetta andò via un po' sollevata a prua dal troppo peso a poppa.
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe Bonghi -
bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 febbraio 1998