Italo Svevo
La coscienza di Zeno
VI (parte I)
La moglie e l'amante
Nella mia vita ci furono
varii periodi in cui credetti di essere avviato alla salute e alla felicità. Mai però
tale fede fu tanto forte come nel tempo in cui durò il mio viaggio di nozze eppoi qualche
settimana dopo il nostro ritorno a casa. Cominciò con una scoperta che mi stupí: io
amavo Augusta com'essa amava me. Dapprima diffidente, godevo intanto di una giornata e
m'aspettavo che la seguente fosse tutt'altra cosa. Ma una seguiva e somigliava all'altra,
luminosa, tutta gentilezza di Augusta ed anche - ciò ch'era la sorpresa - mia. Ogni
mattina ritrovavo in lei lo stesso commosso affetto e in me la stessa riconoscenza che, se
non era amore, vi somigliava molto. Chi avrebbe potuto prevederlo quando avevo zoppicato
da Ada ad Alberta per arrivare ad Augusta? Scoprivo di essere stato non un bestione cieco
diretto da altri, ma un uomo abilissimo. E vedendomi stupito, Augusta mi diceva:
- Ma perché ti sorprendi? Non sapevi che
il matrimonio è fatto cosí? Lo sapevo pur io che sono tanto piú ignorante di te!
Non so piú se dopo o prima dell'affetto,
nel mio animo si formò una speranza, la grande speranza di poter finire col somigliare ad
Augusta ch'era la salute personificata. Durante il fidanzamento io non avevo neppur
intravvista quella salute, perché tutto immerso a studiare me in primo luogo eppoi Ada e
Guido. La lampada a petrolio in quel salotto non era mai arrivata ad illuminare gli scarsi
capelli di Augusta.
Altro che il suo rossore! Quando questo
sparve con la semplicità con cui i colori dell'aurora spariscono alla luce diretta del
sole, Augusta batté sicura la via per cui erano passate le sue sorelle su questa terra,
quelle sorelle che possono trovare tutto nella legge e nell'ordine o che altrimenti a
tutto rinunziano. Per quanto la sapessi mal fondata perché basata su di me, io amavo, io
adoravo quella sicurezza. Di fronte ad essa io dovevo comportarmi almeno con la modestia
che usavo quando si trattava di spiritismo. Questo poteva essere e poteva perciò esistere
anche la fede nella vita.
Però mi sbalordiva; da ogni sua parola,
da ogni suo atto risultava che in fondo essa credeva la vita eterna. Non che la dicessi
tale: si sorprese anzi che una volta io, cui gli errori ripugnavano prima che non avessi
amati i suoi, avessi sentito il bisogno di ricordargliene la brevità. Macché! Essa
sapeva che tutti dovevano morire, ma ciò non toglieva che oramai ch'eravamo sposati, si
sarebbe rimasti insieme, insieme, insieme. Essa dunque ignorava che quando a questo mondo
ci si univa, ciò avveniva per un periodo tanto breve, breve, breve, che non s'intendeva
come si fosse arrivati a darsi del tu dopo di non essersi conosciuti per un tempo infinito
e pronti a non rivedersi mai piú per un altro infinito tempo. Compresi finalmente che
cosa fosse la perfetta salute umana quando indovinai che il presente per lei era una
verità tangibile in cui si poteva segregarsi e starci caldi. Cercai di esservi ammesso e
tentai di soggiornarvi risoluto di non deridere me e lei, perché questo conato non poteva
essere altro che la mia malattia ed io dovevo almeno guardarmi dall'infettare chi a me
s'era confidato.
Anche perciò, nello sforzo di proteggere
lei, seppi per qualche tempo movermi come un uomo sano.
Essa sapeva tutte le cose che fanno
disperare, ma in mano sua queste cose cambiavano di natura. Se anche la terra girava non
occorreva mica avere il mal di mare! Tutt'altro! La terra girava, ma tutte le altre cose
restavano al loro posto. E queste cose immobili avevano un'importanza enorme: l'anello di
matrimonio, tutte le gemme e i vestiti, il verde, il nero, quello da passeggio che andava
in armadio quando si arrivava a casa e quello di sera che in nessun caso si avrebbe potuto
indossare di giorno, né quando io non m'adattavo di mettermi in marsina. E le ore dei
pasti erano tenute rigidamente e anche quelle del sonno. Esistevano, quelle ore, e si
trovavano sempre al loro posto.
Di domenica essa andava a Messa ed io ve
l'accompagnai talvolta per vedere come sopportasse l'immagine del dolore e della morte.
Per lei non c'era, e quella visita le infondeva serenità per tutta la settimana. Vi
andava anche in certi giorni festivi ch'essa sapeva a mente. Niente di piú, mentre se io
fossi stato religioso mi sarei garantita la beatitudine stando in chiesa tutto il giorno.
C'erano un mondo di autorità anche
quaggiú che la rassicuravano. Intanto quella austriaca o italiana che provvedeva alla
sicurezza sulle vie e nelle case ed io feci sempre del mio meglio per associarmi anche a
quel suo rispetto. Poi v'erano i medici, quelli che avevano fatto tutti gli studii
regolari per salvarci quando - Dio non voglia - ci avesse a toccare qualche malattia. Io
ne usavo ogni giorno di quell'autorità: lei, invece, mai. Ma perciò io sapevo il mio
atroce destino quando la malattia mortale m'avesse raggiunto, mentre lei credeva che anche
allora, appoggiata solidamente lassú e quaggiú, per lei vi sarebbe stata la salvezza.
Io sto analizzando la sua salute, ma non
ci riesco perché m'accorgo che, analizzandola, la converto in malattia. E, scrivendone,
comincio a dubitare se quella salute non avesse avuto bisogno di cura o d'istruzione per
guarire. Ma vivendole accanto per tanti anni, mai ebbi tale dubbio.
Quale importanza m'era attribuita in quel
suo piccolo mondo! Dovevo dire la mia volontà ad ogni proposito, per la scelta dei cibi e
delle vesti, delle compagnie e delle letture. Ero costretto ad una grande attività che
non mi seccava. Stavo collaborando alla costruzione di una famiglia patriarcale e
diventavo io stesso il patriarca che avevo odiato e che ora m'appariva quale il segnacolo
della salute. È tutt'altra cosa essere il patriarca o dover venerare un altro che
s'arroghi tale dignità. Io volevo la salute per me a costo d'appioppare ai non patriarchi
la malattia, e, specialmente durante il viaggio, assunsi talvolta volentieri
l'atteggiamento di statua equestre.
Ma già in viaggio non mi fu sempre facile
l'imitazione che m'ero proposta. Augusta voleva veder tutto come se si fosse trovata in un
viaggio d'istruzione. Non bastava mica essere stati a palazzo Pitti, ma bisognava passare
per tutte quelle innumerevoli sale, fermandosi almeno per qualche istante dinanzi ad ogni
opera d'arte.
Io rifiutai d'abbandonare la prima sala e
non vidi altro, addossandomi la sola fatica di trovare dei pretesti alla mia
infingardaggine. Passai una mezza giornata dinanzi ai ritratti dei fondatori di casa
Medici e scopersi che somigliavano a Carnegie e Vanderbilt. Meraviglioso! Eppure erano
della mia razza! Augusta non divideva la mia meraviglia. Sapeva che cosa fossero i Yankees,
ma non ancora bene chi fossi io.
Qui la sua salute non la vinse ed essa
dovette rinunziare ai musei. Le raccontai che una volta al Louvre, m'imbizzarrii talmente
in mezzo a tante opere d'arte, che fui in procinto di mandare in pezzi la Venere.
Rassegnata, Augusta disse:
- Meno male che i musei si incontrano in
viaggio di nozze eppoi mai piú!
Infatti nella vita manca la monotonia dei
musei. Passano i giorni capaci di cornice, ma sono ricchi di suoni che frastornano eppoi
oltre che di linee e di colori anche di vera luce, di quella che scotta e perciò non
annoia.
La salute spinge all'attività e ad
addossarsi un mondo di seccature. Chiusi i musei, cominciarono gli acquisti. Essa, che non
vi aveva mai abitato, conosceva la nostra villa meglio di me e sapeva che in una stanza
mancava uno specchio, in un'altra un tappeto e che in una terza v'era il posto per una
statuina. Comperò i mobili di un intero salotto e, da ogni città in cui soggiornammo, fu
organizzata almeno una spedizione. A me pareva che sarebbe stato piú opportuno e meno
fastidioso di fare tutti quegli acquisti a Trieste. Ecco che dovevamo pensare alla
spedizione, all'assicurazione e alle operazioni doganali.
- Ma tu non sai che tutte le merci devono
viaggiare? Non sei un negoziante, tu? - E rise.
Aveva quasi ragione. Obbiettai:
- Le merci si fanno viaggiare per vendere
e guadagnare! Mancando quello scopo si lasciano tranquille e si sta tranquilli!
Ma l'intraprendenza era una delle cose che
in lei piú amavo. Era deliziosa quell'intraprendenza cosí ingenua! Ingenua perché
bisogna ignorare la storia del mondo per poter credere di aver fatto un buon affare col
solo acquisto di un oggetto: è alla vendita che si giudica l'accortezza dell'acquisto.
Credevo di trovarmi in piena
convalescenza. Le mie lesioni s'erano fatte meno velenose. Fu da allora che
l'atteggiamento mio immutabile fu di lietezza. Era come un impegno che in quei giorni
indimenticabili avessi preso con Augusta e fu l'unica fede che non violai che per brevi
istanti, quando cioè la vita rise piú forte di me. La nostra fu e rimase una relazione
sorridente perché io sorrisi sempre di lei, che credevo non sapesse e lei di me, cui
attribuiva molta scienza e molti errori ch'essa - cosí si lusingava - avrebbe corretti.
Io rimasi apparentemente lieto anche quando la malattia mi riprese intero. Lieto come se
il mio dolore fosse stato sentito da me quale un solletico.
Nel lungo cammino traverso l'Italia, ad
onta della mia nuova salute, non andai immune da molte sofferenze. Eravamo partiti senza
lettere di raccomandazione e, spessissimo, a me parve che molti degl'ignoti fra cui ci
movevamo, mi fossero nemici. Era una paura ridicola, ma non sapevo vincerla.
Potevo essere assaltato, insultato e sopra
tutto calunniato, e chi avrebbe potuto proteggermi?
Ci fu anche una vera crisi di questa paura
della quale per fortuna nessuno, neppur Augusta, s'accorse. Usavo prendere quasi tutti i
giornali che m'erano offerti sulla via. Fermatomi un giorno davanti al banco di un
giornalaio, mi venne il dubbio, ch'egli, per odio, avrebbe potuto facilmente farmi
arrestare come un ladro avendo io preso da lui un solo giornale e tenendone molti, sotto
il braccio, comperati altrove e neppure aperti. Corsi via seguito da Augusta a cui non
dissi la ragione della mia fretta.
Mi legai d'amicizia con un vetturino e un
cicerone in compagnia dei quali ero almeno sicuro di non poter essere accusato di furti
ridicoli.
Fra me e il vetturino c'era qualche
evidente punto di contatto. Egli amava molto i vini dei Castelli e mi raccontò che ad
ogni tratto gli si gonfiavano i piedi. Andava allora all'ospedale e, guarito, ne veniva
congedato con molte raccomandazioni di rinunziare al vino. Egli allora faceva un proposito
che diceva ferreo perché, per materializzarlo, lo accompagnava con un nodo ch'egli
allacciava alla catena di metallo del suo orologio. Ma quando io lo conobbi la sua catena
gli pendeva sul panciotto, senza nodo. Lo invitai di venir a stare con me a Trieste. Gli
descrissi il sapore del nostro vino, tanto differente da quello del suo, per assicurarlo
dell'esito della drastica cura. Non ne volle sapere e rifiutò con una faccia in cui v'era
già stampata la nostalgia.
Col cicerone mi legai perché mi parve
fosse superiore ai suoi colleghi. Non è difficile sapere di storia molto piú di me, ma
anche Augusta con la sua esattezza e col suo Baedeker verificò l'esattezza di
molte sue indicazioni. Intanto era giovine e si andava di corsa traverso i viali seminati
di statue.
Quando perdetti quei due amici, abbandonai
Roma. Il vetturino avendo avuto da me tanto denaro, mi fece vedere come il vino gli
attaccasse qualche volta anche la testa e ci gettò contro una solidissima antica
costruzione Romana. Il cicerone poi si pensò un giorno di asserire che gli antichi Romani
conoscevano benissimo la forza elettrica e ne facessero largo uso. Declamò anche dei
versi latini che dovevano farne fede.
Ma mi colse allora un'altra piccola
malattia da cui non dovevo piú guarire. Una cosa da niente: la paura d'invecchiare e
sopra tutto la paura di morire. Io credo abbia avuto origine da una speciale forma di
gelosia. L'invecchiamento mi faceva paura solo perché m'avvicinava alla morte. Finché
ero vivo, certamente Augusta non m'avrebbe tradito, ma mi figuravo che non appena morto e
sepolto, dopo di aver provveduto acché la mia tomba fosse tenuta in pieno ordine e mi
fossero dette le Messe necessarie, subito essa si sarebbe guardata d'intorno per darmi il
successore ch'essa avrebbe circondato del medesimo mondo sano e regolato che ora beava me.
Non poteva mica morire la sua bella salute perché ero morto io. Avevo una tale fede in
quella salute che mi pareva non potesse perire che sfracellata sotto un intero treno in
corsa.
Mi ricordo che una sera, a Venezia, si
passava in gondola per uno di quei canali dal silenzio profondo ad ogni tratto interrotto
dalla luce e dal rumore di una via che su di esso improvvisamente s'apre.
Augusta, come sempre, guardava le cose e
accuratamente le registrava: un giardino verde e fresco che sorgeva da una base sucida
lasciata all'aria dall'acqua che s'era ritirata; un campanile che si rifletteva nell'acqua
torbida; una viuzza lunga e oscura con in fondo un fiume di luce e di gente. Io, invece,
nell'oscurità, sentivo, con pieno sconforto, me stesso. Le dissi del tempo che andava via
e che presto essa avrebbe rifatto quel viaggio di nozze con un altro. Io ne ero tanto
sicuro che mi pareva di dirle una storia già avvenuta. E mi parve fuori di posto ch'essa
si mettesse a piangere per negare la verità di quella storia. Forse m'aveva capito male e
credeva io le avessi attribuita l'intenzione di uccidermi. Tutt'altro! Per spiegarmi
meglio le descrissi un mio eventuale modo di morire: le mie gambe, nelle quali la
circolazione era certamente già povera, si sarebbero incancrenite e la cancrena dilatata,
dilatata, sarebbe giunta a toccare un organo qualunque, indispensabile per poter tener
aperti gli occhi. Allora li avrei chiusi, e addio patriarca! Sarebbe stato necessario
stamparne un altro.
Essa continuò a singhiozzare e a me quel
suo pianto, nella tristezza enorme di quel canale, parve molto importante. Era forse
provocato dalla disperazione per la visione esatta di quella sua salute atroce? Allora
tutta l'umanità avrebbe singhiozzato in quel pianto. Poi, invece, seppi ch'essa neppur
sapeva come fosse fatta la salute. La salute non analizza se stessa e neppur si guarda
nello specchio. Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi.
Fu allora ch'essa mi raccontò di avermi
amato prima di avermi conosciuto. M'aveva amato dacché aveva sentito il mio nome,
presentato da suo padre in questa forma: Zeno Cosini, un ingenuo, che faceva tanto d'occhi
quando sentiva parlare di qualunque accorgimento commerciale e s'affrettava a prenderne
nota in un libro di comandamenti, che però smarriva. E se io non m'ero accorto della sua
confusione al nostro primo incontro, ciò doveva far credere che fossi stato confuso
anch'io.
Mi ricordai che al vedere Augusta ero
stato distratto dalla sua bruttezza visto che m'ero atteso di trovare in quella casa le
quattro fanciulle dall'iniziale in a tutte bellissime. Apprendevo ora ch'essa m'amava da
molto tempo, ma che cosa provava ciò? Non le diedi la soddisfazione di ricredermi. Quando
fossi stato morto, essa ne avrebbe preso un altro. Mitigato il pianto, essa s'appoggiò
ancora meglio a me e, subito ridendo, mi domandò:
- Dove troverei il tuo successore? Non
vedi come sono brutta?
Infatti, probabilmente, mi sarebbe stato
concesso qualche tempo di putrefazione tranquilla.
Ma la paura d'invecchiare non mi lasciò
piú, sempre per la paura di consegnare ad altri mia moglie. Non s'attenuò la paura
quando la tradii e non s'accrebbe neppure per il pensiero di perdere nello stesso modo
l'amante. Era tutt'altra cosa, che non aveva niente a che fare con l'altra. Quando la
paura di morire m'assillava, mi rivolgevo ad Augusta per averne conforto come quei bambini
che porgono al bacio della mamma la manina ferita.
Essa trovava sempre delle nuove parole per
confortarmi. In viaggio di nozze m'attribuiva ancora trent'anni di gioventú ed oggidí
altrettanti. Io invece sapevo che già le settimane di gioia del viaggio di nozze
m'avevano sensibilmente accostato alle smorfie orribili dell'agonia. Augusta poteva dire
quello che voleva, il conto era presto fatto: ogni settimana io mi vi accostavo di una
settimana.
Quando m'accorsi di esser colto troppo
spesso dallo stesso dolore, evitai di stancarla col dirle sempre le stesse cose e, per
avvertirla del mio bisogno di conforto, bastò mormorassi: «Povero Cosini!». Ella sapeva
allora esattamente cosa mi turbava e accorreva a coprirmi del suo grande affetto. Cosí
riuscii ad avere il suo conforto anche quand'ebbi tutt'altri dolori. Un giorno, ammalato
dal dolore di averla tradita, mormorai per svista: «Povero Cosini!». Ne ebbi gran
vantaggio perché anche allora il suo conforto mi fu prezioso.
Ritornato dal viaggio di nozze, ebbi la
sorpresa di non aver mai abitata una casa tanto comoda e calda. Augusta v'introdusse tutte
le comodità che aveva avute nella propria, ma anche molte altre ch'essa stessa inventò.
La stanza da bagno, che a memoria d'uomo era stata sempre in fondo a un corridoio a mezzo
chilometro dalla mia stanza da letto, si accostò alla nostra e fu fornita di un numero
maggiore di getti d'acqua. Poi una stanzuccia accanto al tinello fu convertita in stanza
da caffè. Imbottita di tappeti e addobbata da grandi poltrone in pelle, vi soggiornavamo
ogni giorno per un'oretta dopo colazione. Contro mia voglia, vi era tutto il necessario
per fumare. Anche il mio piccolo studio, per quanto io lo difendessi, subí delle
modificazioni. Io temevo che i mutamenti me lo rendessero odioso e invece subito m'accorsi
che solo allora era possibile viverci. Essa dispose la sua illuminazione in modo che
potevo leggere seduto al tavolo, sdraiato sulla poltrona o coricato sul sofà. Persino per
il violino fu provveduto un leggio con la sua brava lampadina che illuminava la musica
senza ferire gli occhi. Anche colà, e contro mia voglia, fui accompagnato da tutti gli
ordigni necessarii per fumare tranquillamente.
Perciò in casa si costruiva molto e c'era
qualche disordine che diminuiva la nostra quiete. Per lei, che lavorava per l'eternità,
il breve incomodo poteva non importare, ma per me la cosa era ben diversa. Mi opposi
energicamente quando le venne il desiderio d'impiantare nel nostro giardino una piccola
lavanderia che implicava addirittura la costruzione di una casuccia. Augusta asseriva che
la lavanderia in casa era una garanzia della salute dei bébés. Ma intanto i bébés
non c'erano ed io non vedevo alcuna necessità di lasciarmi incomodare da loro prima
ancora che arrivassero. Ella invece portava nella mia vecchia casa un istinto che veniva
dall'aria aperta, e, in amore, somigliava alla rondinella che subito pensa al nido.
Ma anch'io facevo all'amore e portavo a
casa fiori e gemme. La mia vita fu del tutto mutata dal mio matrimonio. Rinunziai, dopo un
debole tentativo di resistenza, a disporre a mio piacere del mio tempo e m'acconciai al
piú rigido orario.
Sotto questo riguardo la mia educazione
ebbe un esito splendido. Un giorno, subito dopo il nostro viaggio di nozze, mi lasciai
innocentemente trattenere dall'andar a casa a colazione e, dopo di aver mangiato qualche
cosa in un bar, restai fuori fino alla sera. Rientrato a notte fatta, trovai che
Augusta non aveva fatto colazione ed era disfatta dalla fame. Non mi fece alcun
rimprovero, ma non si lasciò convincere d'aver fatto male. Dolcemente, ma risoluta,
dichiarò che se non fosse stata avvisata prima, m'avrebbe atteso per la colazione fino
all'ora del pranzo. Non c'era da scherzare! Un'altra volta mi lasciai indurre da un amico
a restar fuori di casa fino alle due di notte. Trovai Augusta che m'aspettava e che
batteva i denti dal freddo avendo trascurata la stufa. Ne seguí anche una sua lieve
indisposizione che rese indimenticabile la lezione inflittami.
Un giorno volli farle un altro grande
regalo: lavorare! Essa lo desiderava ed io stesso pensavo che il lavoro sarebbe stato
utile per la mia salute. Si capisce che è meno malato chi ha poco tempo per esserlo.
Andai al lavoro e, se non vi restai, non fu davvero colpa mia. Vi andai coi migliori
propositi e con vera umiltà. Non reclamai di partecipare alla direzione degli affari e
domandai invece di tenere intanto il libro mastro. Davanti al grosso libro in cui le
scritturazioni erano disposte con la regolarità di strade e case, mi sentii pieno di
rispetto e cominciai a scrivere con mano tremante.
Il figliuolo dell'Olivi, un giovinotto
sobriamente elegante, occhialuto, dotto di tutte le scienze commerciali, assunse la mia
istruzione e di lui davvero non ho da lagnarmi. Mi diede qualche seccatura con la sua
scienza economica e la teoria della domanda e dell'offerta che a me pareva piú evidente
di quanto egli non volesse ammettere. Ma si vedeva in lui un certo rispetto per il
padrone, ed io gliene ero tanto piú grato in quanto non era ammissibile che l'avesse
appreso da suo padre. Il rispetto della proprietà doveva far parte della sua scienza
economica. Non mi rimproverò giammai gli errori di registrazione che spesso facevo; solo
era incline ad attribuirli ad ignoranza e mi dava delle spiegazioni che veramente erano
superflue.
Il male si è che a forza di guardare gli
affari, mi venne la voglia di farne. Nel libro, con grande chiarezza, arrivai a
raffigurare la mia tasca e quando registravo un importo nel «dare» dei clienti mi pareva
di tener in mano invece della penna il bastoncino del croupier che raccoglie i
denari sparsi sul tavolo da giuoco.
Il giovine Olivi mi faceva anche vedere la
posta che arrivava ed io la leggevo con attenzione e - devo dirlo - in principio con la
speranza d'intenderla meglio degli altri. Un'offerta comunissima conquistò un giorno la
mia attenzione appassionata. Anche prima di leggerla sentii moversi nel mio petto qualche
cosa che subito riconobbi come l'oscuro presentimento che talvolta veniva a trovarmi al
tavolo da giuoco. È difficile descrivere tale presentimento. Esso consiste in una certa
dilatazione dei polmoni per cui si respira con voluttà l'aria per quanto sia affumicata.
Ma poi c'è di piú: sapete subito che
quando avrete raddoppiata la posta starete ancora meglio. Però ci vuole della pratica per
intendere tutto questo. Bisogna essersi allontanati dal tavolo da giuoco con le tasche
vuote e il dolore di averlo trascurato; allora non sfugge piú. E quando lo si ha
trascurato, non c'è piú salvezza per quel giorno perché le carte si vendicano. Però al
tavolo verde è assai piú perdonabile di non averlo sentito che dinanzi al tranquillo
libro mastro, ed infatti io lo percepii chiaramente, mentre gridava in me: «Compera
subito quella frutta secca!».
Ne parlai con tutta mitezza all'Olivi,
naturalmente senza accennare della mia ispirazione. L'Olivi rispose che quegli affari non
li faceva che per conto di terzi quando poteva realizzare un piccolo beneficio. Cosí egli
eliminava dai miei affari la possibilità dell'ispirazione e la riservava ai terzi.
La notte rafforzò la mia convinzione: il
presentimento era dunque in me. Respiravo tanto bene da non poter dormire. Augusta sentí
la mia inquietudine e dovetti dirgliene la ragione. Essa ebbe subito la mia stessa
ispirazione e nel sonno arrivò a mormorare:
- Non sei forse il padrone?
Vero è che alla mattina, prima che
uscissi, mi disse impensierita:
- A te non conviene d'indispettire
l'Olivi. Vuoi che ne parli al babbo?
Non lo volli perché sapevo che anche
Giovanni dava assai poco peso alle ispirazioni.
Arrivai all'ufficio ben deciso di battermi
per la mia idea anche per vendicarmi dell'insonnia sofferta. La battaglia durò fino a
mezzodí quando spirava il termine utile per accettare l'offerta. L'Olivi restò
irremovibile e mi saldò con la solita osservazione:
- Lei vuole forse diminuire le facoltà
attribuitemi dal defunto suo padre?
Risentito, ritornai per il momento al mio
mastro, ben deciso di non ingerirmi piú di affari. Ma il sapore dell'uva sultanina mi
restò in bocca ed ogni giorno al Tergesteo m'informavo del suo prezzo. Di altro non
m'importava. Salí lento, lento come se avesse avuto bisogno di raccogliersi per prendere
lo slancio. Poi in un giorno solo fu un balzo formidabile in alto. Il raccolto era stato
miserabile e lo si sapeva appena ora. Strana cosa l'ispirazione! Essa non aveva previsto
il raccolto scarso ma solo l'aumento di prezzo.
Le carte si vendicarono. Intanto io non
sapevo restare al mio mastro e perdetti ogni rispetto per i miei insegnanti, tanto piú
che ora l'Olivi non pareva tanto sicuro di aver fatto bene. Io risi e derisi; fu la mia
occupazione principale.
Arrivò una seconda offerta dal prezzo
quasi raddoppiato. L'Olivi, per rabbonirmi, mi domandò consiglio ed io, trionfante, dissi
che non avrei mangiata l'uva a quel prezzo. L'Olivi, offeso, mormorò:
- Io m'attengo al sistema che seguii per
tutta la mia vita.
E andò in cerca del compratore. Ne trovò
uno per un quantitativo molto ridotto e, sempre con le migliori intenzioni, ritornò da me
e mi domandò esitante:
- La copro, questa piccola vendita?
Risposi, sempre cattivo:
- Io l'avrei coperta prima di farla.
Finí che l'Olivi perdette la forza della
propria convinzione e lasciò la vendita scoperta.
Le uve continuarono a salire e noi si
perdette tutto quello che sul piccolo quantitativo si poteva perdere.
Ma l'Olivi si arrabbiò con me e dichiarò
che aveva giuocato solo per compiacermi. Il furbo dimenticava che io l'avevo consigliato
di puntare sul rosso e ch'egli, per farmela, aveva puntato sul nero. La nostra lite fu
insanabile. L'Olivi s'appellò a mio suocero dicendogli che fra lui e me la ditta sarebbe
stata sempre danneggiata, e che se la mia famiglia lo desiderava, egli e suo figlio si
sarebbero ritirati per lasciarmi il campo libero. Mio suocero decise subito in favore
dell'Olivi. Mi disse:
- L'affare della frutta secca è troppo
istruttivo. Siete due uomini che non potete stare insieme. Ora chi ha da ritirarsi? Chi
senza l'altro avrebbe fatto un solo buon affare, o chi da mezzo secolo dirige da solo la
casa?
Anche Augusta fu indotta dal padre a
convincermi di non ingerirmi piú nei miei propri affari.
- Pare che la tua bontà e la tua
ingenuità - mi disse - ti rendano disadatto agli affari. Resta a casa con me.
Io, irato, mi ritirai nella mia tenda,
ossia nel mio studiolo. Per qualche tempo leggiucchiai e suonai, poi sentii il desiderio
di una attività piú seria e poco mancò non ritornassi alla chimica eppoi alla
giurisprudenza. Infine, e non so veramente perché, per qualche tempo mi dedicai agli
studi di religione. Mi parve di riprendere lo studio che avevo iniziato alla morte di mio
padre. Forse questa volta fu per un tentativo energico di avvicinarmi ad Augusta e alla
sua salute. Non bastava andare a messa con lei; io dovevo andarci altrimenti, leggendo
cioè Renan e Strauss, il primo con diletto, il secondo sopportandolo come una punizione.
Ne dico qui solo per rilevare quale grande desiderio m'attaccasse ad Augusta. E lei questo
desiderio non indovinò quando mi vide nelle mani i Vangeli in edizione critica. Preferiva
l'indifferenza alla scienza e cosí non seppe apprezzare il massimo segno d'affetto che le
avevo dato. Quando, come soleva, interrompendo la sua toilette o le sue occupazioni
in casa, s'affacciava alla porta della mia stanza per dirmi una parola di saluto,
vedendomi chino su quei testi, torceva la bocca:
- Sei ancora con quella roba?
La religione di cui Augusta abbisognava
non esigeva del tempo per acquisirsi o per praticarsi. Un inchino e l'immediato ritorno
alla vita! Nulla di piú. Da me la religione acquistava tutt'altro aspetto. Se avessi
avuto la fede vera, io a questo mondo non avrei avuto che quella.
Poi nella mia stanzetta magnificamente
organizzata venne talvolta la noia. Era piuttosto un'ansia perché proprio allora mi
pareva di sentirmi la forza di lavorare, ma stavo aspettando che la vita m'avesse imposto
qualche compito. Nell'attesa uscivo frequentemente e passavo molte ore al Tergesteo o in
qualche caffè.
Vivevo in una simulazione di attività.
Un'attività noiosissima.
La visita di un amico d'Università, che
aveva dovuto rimpatriare in tutta furia da un piccolo paese della Stiria per curarsi di
una grave malattia, fu la mia Nemesi, benché non ne avesse avuto l'aspetto. Arrivò a me
dopo di aver fatto a Trieste un mese di letto ch'era valso a convertire la sua malattia,
una nefrite, da acuta in cronica e probabilmente inguaribile.
Ma egli credeva di star meglio e
s'apprestava lietamente a trasferirsi subito, durante la primavera, in qualche luogo dal
clima piú dolce del nostro, dove s'aspettava di essere restituito alla piena salute. Gli
fu fatale forse di essersi indugiato troppo nel rude luogo natio.
Io considero la visita di quell'uomo tanto
malato, ma lieto e sorridente, come molto nefasta per me; ma forse ho torto: essa non
segna che una data nella mia vita, per la quale bisognava pur passare.
Il mio amico, Enrico Copler, si stupí
ch'io nulla avessi saputo né di lui né della sua malattia di cui Giovanni doveva essere
informato. Ma Giovanni, dacché era malato anche lui, non aveva tempo per nessuno e non me
ne aveva detto niente ad onta che ogni giorno di sole venisse nella mia villa per dormire
qualche ora all'aria aperta.
Fra' due malati si passò un pomeriggio
lietissimo. Si parlò delle loro malattie, ciò che costituisce il massimo svago per un
malato ed è una cosa non troppo triste per i sani che stanno a sentire. Ci fu solo un
dissenso perché Giovanni aveva bisogno dell'aria aperta che all'altro era proibita. Il
dissenso si dileguò quando si levò un po' di vento che indusse anche Giovanni di restare
con noi, nella piccola stanza calda.
Il Copler ci raccontò della sua malattia
che non dava dolore ma toglieva la forza. Soltanto ora che stava meglio sapeva quanto
fosse stato malato. Parlò delle medicine che gli erano state propinate e allora il mio
interesse fu piú vivo. Il suo dottore gli aveva consigliato fra altro un efficace sistema
per procurargli un lungo sonno senza perciò avvelenarlo con veri sonniferi. Ma questa era
la cosa di cui io avevo sopra tutto bisogno!
Il mio povero amico, sentendo il mio
bisogno di medicine, si lusingò per un istante ch'io potessi essere affetto della stessa
sua malattia e mi consigliò di farmi vedere, ascoltare e analizzare.
Augusta si mise a ridere di cuore e
dichiarò ch'io non ero altro che un malato immaginario. Allora sul volto emaciato del
Copler passò qualche cosa che somigliava ad un risentimento. Subito, virilmente, si
liberò dallo stato d'inferiorità a cui pareva fosse condannato, aggredendomi con grande
energia:
- Malato immaginario? Ebbene, io
preferisco di essere un malato reale. Prima di tutto un malato immaginario è una
mostruosità ridicola eppoi per lui non esistono dei farmachi mentre la farmacia, come si
vede in me, ha sempre qualche cosa di efficace per noi malati veri!
La sua parola sembrava quella di un sano
ed io - voglio essere sincero - ne soffersi.
Mio suocero s'associò a lui con grande
energia, ma le sue parole non arrivavano a gettare un disprezzo sul malato immaginario,
perché tradivano troppo chiaramente l'invidia per il sano. Disse che se egli fosse stato
sano come me, invece di seccare il prossimo con le lamentele, sarebbe corso ai suoi cari e
buoni affari, specie ora che gli era riuscito di diminuire la sua pancia. Egli non sapeva
neppure che il suo dimagrimento non veniva considerato come un sintomo favorevole.
Causa l'assalto del Copler, io avevo
veramente l'aspetto di un malato e di un malato maltrattato.
Augusta sentí il bisogno d'intervenire in
mio soccorso. Carezzando la mano che avevo abbandonata sul tavolo, essa disse che la mia
malattia non disturbava nessuno e ch'ella non era neppur convinta ch'io credessi d'esser
ammalato, perché altrimenti non avrei avuto tanta gioia di vivere. Cosí il Copler
ritornò allo stato d'inferiorità cui era condannato. Egli era del tutto solo a questo
mondo e se poteva lottare con me in fatto di salute, non poteva contrappormi alcun affetto
simile a quello che Augusta m'offriva. Sentendo vivo il bisogno di un'infermiera, si
rassegnò di confessarmi piú tardi quanto egli m'aveva invidiato per questo.
La discussione continuò nei giorni
seguenti con un tono piú calmo mentre Giovanni dormiva in giardino. E il Copler, dopo
averci pensato sú, asseriva ora che il malato immaginario era un malato reale, ma piú
intimamente di questi ed anche piú radicalmente. Infatti i suoi nervi erano ridotti cosí
da accusare una malattia quando non c'era, mentre la loro funzione normale sarebbe
consistita nell'allarmare col dolore e indurre a correre al riparo.
- Sí! - dicevo io. - Come ai denti, dove
il dolore si manifesta solo quando il nervo è scoperto e per la guarigione occorre la sua
distruzione.
Si terminò col trovarsi d'accordo sul
fatto che un malato e l'altro si valevano. Proprio nella sua nefrite era mancato e mancava
tuttavia un avviso dei nervi, mentre che i miei nervi, invece, erano forse tanto sensibili
da avvisarmi della malattia di cui sarei morto qualche ventennio piú tardi. Erano dunque
dei nervi perfetti e avevano l'unico svantaggio di concedermi pochi giorni lieti a questo
mondo. Essendogli riuscito a mettermi fra gli ammalati, il Copler fu soddisfattissimo.
Non so perché il povero malato avesse la
mania di parlare di donne e, quando non c'era mia moglie, non si parlava d'altro. Egli
pretendeva che dal malato reale, almeno nelle malattie che noi sapevamo, il sesso
s'affievolisse, ciò ch'era una buona difesa dell'organismo, mentre dal malato immaginario
che non soffriva che pel disordine di nervi troppo laboriosi (questa era la nostra
diagnosi) esso fosse patologicamente vivo. Io corroborai la sua teoria con la mia
esperienza e ci compiangemmo reciprocamente. Ignoro perché non volli dirgli che io mi
trovavo lontano da ogni sregolatezza e ciò da lungo tempo. Avrei almeno potuto confessare
che mi ritenevo convalescente se non sano, per non offenderlo troppo e perché dirsi sano
quando si conoscono tutte le complicazioni del nostro organismo è una cosa difficile.
- Tu desideri tutte le donne belle che
vedi? - inquisí ancora il Copler.
- Non tutte! - mormorai io per dirgli che
non ero tanto malato. Intanto io non desideravo Ada che vedevo ogni sera. Quella, per me,
era proprio la donna proibita. Il fruscio delle sue gonne non mi diceva niente e, se mi
fosse stato permesso di muoverle con le mie stesse mani, sarebbe stata la stessa cosa. Per
fortuna non l'avevo sposata. Questa indifferenza era, o mi sembrava, una manifestazione di
salute genuina. Forse il mio desiderio per lei era stato tanto violento da esaurirsi da
sé.
Però la mia indifferenza si estendeva
anche ad Alberta ch'era pur tanto carina nel suo vestitino accurato e serio da scuola. Che
il possesso di Augusta fosse stato sufficiente a calmare il mio desiderio per tutta la
famiglia Malfenti? Ciò sarebbe stato davvero molto morale!
Forse non parlai della mia virtú perché
nel pensiero io tradivo sempre Augusta, e anche ora, parlando col Copler, con un fremito
di desiderio, pensai a tutte le donne che per lei trascuravo. Pensai alle donne che
correvano le vie, tutte coperte, e dalle quali perciò gli organi sessuali secondarii
divenivano tanto importanti mentre dalla donna che si possedeva scomparivano come se il
possesso li avesse atrofizzati. Avevo sempre vivo il desiderio dell'avventura;
quell'avventura che cominciava dall'ammirazione di uno stivaletto, di un guanto, di una
gonna, di tutto quello che copre e altera la forma. Ma questo desiderio non era ancora una
colpa. Il Copler però non faceva bene ad analizzarmi. Spiegare a qualcuno come è fatto,
è un modo per autorizzarlo ad agire come desidera. Ma il Copler fece anche di peggio,
solo che tanto quando parlò, come quando agí, egli non poteva prevedere dove mi avrebbe
condotto.
Resta cosí importante nel mio ricordo la
parola del Copler che, quando la ricordo, essa rievoca tutte le sensazioni che vi si
associarono, e le cose e le persone. Avevo accompagnato in giardino il mio amico che
doveva rincasare prima del tramonto. Dalla mia villa, che giace su una collina, si aveva
la vista del porto e del mare, vista che ora è intercettata da nuovi fabbricati. Ci
fermammo a guardare lungamente il mare mosso da una brezza leggera che rimandava in
miriadi di luci rosse la luce tranquilla del cielo. La penisola istriana dava riposo
all'occhio con la sua mitezza verde che s'inoltrava in arco enorme nel mare come una
penombra solida. I moli e le dighe erano piccoli e insignificanti nelle loro forme
rigidamente lineari, e l'acqua nei bacini era oscurata dalla sua immobilità o era forse
torbida? Nel vasto panorama la pace era piccola in confronto a tutto quel rosso animato
sull'acqua e noi, abbacinati, dopo poco volgemmo la schiena al mare. Sulla piccola
spianata dinanzi alla casa, incombeva in confronto già la notte.
Dinanzi al portico, su una grande
poltrona, il capo coperto da un berretto e anche protetto dal bavero rialzato della
pelliccia, le gambe avvolte in una coperta, mio suocero dormiva. Ci fermammo a guardarlo.
Aveva la bocca spalancata, la mascella inferiore pendente come una cosa morta e la
respirazione rumorosa e troppo frequente. Ad ogni tratto la sua testa ricadeva sul petto
ed egli, senza destarsi, la rialzava. C'era allora un movimento delle sue palpebre come se
avesse voluto aprire gli occhi per ritrovare piú facilmente l'equilibrio e la sua
respirazione cambiava di ritmo. Una vera interruzione del sonno.
Era la prima volta che la grave malattia
di mio suocero mi si presentasse con tanta evidenza e ne fui profondamente addolorato.
Il Copler a bassa voce mi disse:
- Bisognerebbe curarlo. Probabilmente è
ammalato anche di nefrite. Il suo non è un sonno: io so che cosa sia quello stato.
Povero diavolo!
Terminò consigliando di chiamare il suo
medico.
Giovanni ci sentí e aperse gli occhi.
Parve subito meno malato e scherzò con Copler:
- Lei s'attenta di stare all'aria aperta?
Non le farà male?
Gli sembrava di aver dormito saporitamente
e non pensava di aver avuto mancanza d'aria in faccia al vasto mare che gliene mandava
tanta! Ma la sua voce era fioca e la sua parola interrotta dall'ansare; aveva la faccia
terrea e, levatosi dalla poltrona, si sentiva ghiacciare. Dovette rifugiarsi in casa. Lo
vedo ancora muoversi traverso la spianata, la coperta sotto il braccio, ansante ma
ridendo, mentre ci mandava il suo saluto.
- Vedi com'è fatto l'ammalato reale? -
disse il Copler che non sapeva liberarsi dalla sua idea dominante. - È moribondo e non sa
d'essere ammalato.
Parve anche a me che l'ammalato reale
soffrisse poco. Mio suocero e anche il Copler riposano da molti anni a Sant'Anna, ma ci fu
un giorno in cui passai accanto alle loro tombe e mi parve che per il fatto di trovarsi da
tanti anni sotto alle loro pietre, la tesi propugnata da uno di loro non fosse infirmata.
Prima di lasciare il suo antico domicilio,
il Copler aveva liquidati i suoi affari e perciò come me non ne aveva affatto. Però, non
appena lasciato il letto, non seppe restar tranquillo e, mancando di affari propri,
cominciò ad occuparsi di quelli degli altri che gli parevano molto piú interessanti. Ne
risi allora, ma piú tardi anch'io dovevo apprendere quale sapore gradevole avessero gli
affari altrui. Egli si dedicava alla beneficenza ed essendosi proposto di vivere dei soli
interessi del suo capitale, non poteva concedersi il lusso di farla tutta a spese proprie.
Perciò organizzava delle collette e tassava amici e conoscenti. Registrava tutto da quel
bravo uomo d'affari che era, ed io pensai che quel libro fosse il suo viatico e che io,
nel caso suo, condannato a breve vita e privo di famiglia com'egli era, l'avrei arricchito
intaccando il mio capitale. Ma egli era il sano immaginario e non toccava che gl'interessi
che gli spettavano, non sapendo rassegnarsi di ammettere breve il futuro.
Un giorno mi assalí con la richiesta di
alcune centinaia di corone per procurare un pianino ad una povera fanciulla la quale
veniva già sovvenzionata da me insieme ad altri, per suo mezzo, con un piccolo mensile.
Bisognava far presto per approfittare di una buona occasione. Non seppi esimermi, ma, un
po' di malagrazia, osservai che avrei fatto un buon affare se quel giorno non fossi uscito
di casa. Io sono di tempo in tempo soggetto ad accessi di avarizia.
Il Copler prese il denaro e se ne andò
con una breve parola di ringraziamento, ma l'effetto delle mie parole si vide pochi giorni
appresso e fu, purtroppo, importante. Egli venne ad informarmi che il pianino era a posto
e che la signorina Carla Gerco e sua madre mi pregavano di andar a trovarle per
ringraziarmi. Il Copler aveva paura di perdere il cliente e voleva legarmi facendomi
assaporare la riconoscenza delle beneficate. Dapprima volli esimermi da quella noia
assicurandolo che ero convinto ch'egli sapesse fare la beneficenza piú accorta, ma
insistette tanto che finii con l'accondiscendere:
- È bella? - domandai ridendo.
- Bellissima - egli rispose - ma non è
pane per i nostri denti.
Curiosa cosa che egli mettesse i miei
denti assieme ai suoi, col pericolo di comunicarmi la sua carie. Mi raccontò dell'onestà
di quella famiglia disgraziata che aveva perduto da qualche anno il suo capo di casa e che
nella piú squallida miseria era vissuta nella piú rigida onestà.
Era una giornata sgradevole. Soffiava un
vento diaccio ed io invidiavo il Copler che s'era messa la pelliccia. Dovevo trattenere
con la mano il cappello che altrimenti sarebbe volato via. Ma ero di buon umore, perché
andavo a raccogliere la gratitudine dovuta alla mia filantropia. Percorremmo a piedi la
Corsia Stadion, traversammo il Giardino Pubblico. Era una parte della città ch'io non
vedevo mai. Entrammo in una di quelle case cosidette di speculazione, che i nostri
antenati s'erano messi a fabbricare quarant'anni prima, in posti lontani dalla città che
subito li invase; aveva un aspetto modesto ma tuttavia piú cospicuo delle case che si
fanno oggidí con le stesse intenzioni. La scala occupava una piccola area e perciò era
molto alta.
Ci fermammo al primo piano dove arrivai
molto prima del mio compagno, assai piú lento. Fui stupito che delle tre porte che davano
su quel pianerottolo, due, quelle ai lati, fossero contrassegnate dal biglietto di visita
di Carla Gerco, attaccatovi con chiodini, mentre la terza aveva anch'essa un biglietto ma
con altro nome. Il Copler mi spiegò che le Gerco avevano a destra la cucina e la camera
da letto mentre a sinistra non c'era che una stanza sola, lo studio della signorina Carla.
Avevano potuto subaffittare una parte del quartiere al centro e cosí l'affitto costava
loro pochissimo, ma avevano l'incomodo di dover passare il pianerottolo per recarsi da una
stanza all'altra.
Bussammo a sinistra, alla stanza da studio
ove madre e figlia, avvisate della nostra visita, ci attendevano. Il Copler fece le
presentazioni. La signora, una persona timidissima vestita di un povero vestito nero, con
la testa rilevata da un biancore di neve, mi tenne un piccolo discorso che doveva aver
preparato: erano onorate dalla mia visita e mi ringraziavano del cospicuo dono che avevo
fatto loro. Poi essa non aperse piú bocca.
Il Copler assisteva come un maestro che ad
un esame ufficiale stia ad ascoltare la lezione ch'egli con grande fatica ha insegnata.
Corresse la signora dicendole che non soltanto io avevo elargito il denaro per il pianino,
ma che contribuivo anche al soccorso mensile ch'egli aveva loro raggranellato. Amava
l'esattezza, lui.
La signorina Carla si alzò dalla sedia
ove era seduta accanto al pianino, mi porse la mano e mi disse la semplice parola:
- Grazie!
Ciò almeno era meno lungo. La mia carica
di filantropo cominciava a pesarmi. Anch'io mi occupavo degli affari altrui come un
qualunque ammalato reale! Che cosa doveva vedere in me quella graziosa giovinetta? Una
persona di grande riguardo ma non un uomo! Ed era veramente graziosa! Credo che essa
volesse sembrare piú giovine di quanto non fosse, con la sua gonna troppo corta per la
moda di quell'epoca a meno che non usasse per casa una gonna del tempo in cui non aveva
ancora finito di crescere.
La sua testa era però di donna e, per la
pettinatura alquanto ricercata, di donna che vuol piacere. Le ricche treccie brune erano
disposte in modo da coprire le orecchie e anche in parte il collo. Ero tanto compreso
della mia dignità e temevo tanto l'occhio inquisitore del Copler che dapprima non guardai
neppur bene la fanciulla; ma ora la so tutta. La sua voce aveva qualche cosa di musicale
quando parlava e, con un'affettazione oramai divenuta natura, essa si compiaceva di
stendere le sillabe come se avesse voluto carezzare il suono che le riusciva di metterci.
Perciò e anche per certe sue vocali eccessivamente larghe persino per Trieste, il suo
linguaggio aveva qualche cosa di straniero. Appresi poi che certi maestri, per insegnare
l'emissione della voce, alterano il valore delle vocali. Era proprio tutt'altra pronuncia
di quella di Ada. Ogni suo suono mi pareva d'amore.
Durante quella visita la signorina Carla
sorrise sempre, forse immaginando di avere cosí stereotipata sulla faccia l'espressione
della gratitudine. Era un sorriso un po' forzato; il vero aspetto della gratitudine. Poi,
quando poche ore dopo cominciai a sognare Carla, immaginai che su quella faccia ci fosse
stata una lotta fra la letizia e il dolore. Nulla di tutto questo trovai poi in lei ed una
volta di piú appresi che la bellezza femminile simula dei sentimenti coi quali nulla ha a
vedere. Cosí la tela su cui è dipinta una battaglia non ha alcun sentimento eroico.
Il Copler pareva soddisfatto della
presentazione come se le due donne fossero state opera sua. Me le descriveva: erano sempre
liete del loro destino e lavoravano. Egli diceva delle parole che parevano tolte da un
libro scolastico e, annuendo macchinalmente, pareva che io volessi confermare di aver
fatti i miei studii e sapessi perciò come dovessero essere fatte le povere donne virtuose
prive di denaro.
Poi egli domandò a Carla di cantarci
qualche cosa. Essa non volle dichiarando di essere raffreddata. Proponeva di farlo un
altro giorno. Io sentivo con simpatia ch'essa temeva il nostro giudizio, ma avevo il
desiderio di prolungare la seduta e m'associai nelle preghiere del Copler. Dissi anche che
non sapevo se m'avrebbe rivisto mai piú, perché ero molto occupato. Il Copler, che pur
sapeva ch'io a questo mondo non avevo alcun impegno, confermò con grande serietà quanto
dicevo. Mi fu poi facile d'intendere ch'egli desiderava che io non rivedessi piú Carla.
Questa tentò ancora di esimersi, ma il
Copler insistette con una parola che somigliava ad un comando ed essa obbedí: com'era
facile costringerla!
Cantò «La mia bandiera». Dal mio
soffice sofà io seguivo il suo canto. Avevo un ardente desiderio di poterla ammirare.
Come sarebbe stato bello di vederla rivestita di genialità! Ma invece ebbi la sorpresa di
sentire che la sua voce, quando cantava, perdeva ogni musicalità. Lo sforzo l'alterava.
Carla non sapeva neppure suonare e il suo accompagnamento monco rendeva anche piú povera
quella povera musica. Ricordai di trovarmi dinanzi ad una scolara e analizzai se il volume
di voce fosse bastevole. Abbondante anzi! Nel piccolo ambiente ne avevo l'orecchio ferito.
Pensai, per poter continuare ad
incoraggiarla, che solo la sua scuola fosse cattiva.
Quando cessò, m'associai all'applauso
abbondante e parolaio del Copler. Egli diceva:
- Figurati quale effetto farebbe questa
voce quando fosse accompagnata da una buona orchestra.
Questo era certamente vero. Un'intera
potente orchestra ci voleva su quella voce. Io dissi con grande sincerità che mi
riservavo di riudire la signorina di là a qualche mese e che allora mi sarei pronunciato
sul valore della sua scuola. Meno sinceramente aggiunsi che certamente quella voce
meritava una scuola di primo ordine. Poi, per attenuare quanto di sgradevole ci poteva
essere stato nelle mie prime parole, filosofai sulla necessità per una voce eccelsa, di
trovare una scuola eccelsa. Questo superlativo coperse tutto. Ma poi, restato solo, fui
meravigliato di aver sentito la necessità di essere sincero con Carla. Che già l'avessi
amata? Ma se non l'avevo ancora ben vista!
Sulle scale dall'odore dubbio, il Copler
disse ancora:
- La voce sua è troppo forte. È una voce
da teatro.
Egli non sapeva che a quell'ora io sapevo
qualcosa di piú: quella voce apparteneva ad un ambiente piccolissimo dove si poteva
gustare l'impressione d'ingenuità di quell'arte e sognare di portarci dentro l'arte,
cioè vita e dolore.
Nel lasciarmi, il Copler mi disse che
m'avrebbe avvertito quando il maestro di Carla avrebbe organizzato un concerto pubblico.
Si trattava di un maestro poco noto ancora in città, ma sarebbe certo divenuto una futura
grande celebrità. Il Copler ne era sicuro ad onta che il maestro fosse abbastanza
vecchio. Pareva che la celebrità gli sarebbe venuta ora, dopo che il Copler lo conosceva.
Due debolezze da morituri, quella del maestro e quella del Copler.
Il curioso si è che sentii il bisogno di
raccontare tale visita ad Augusta. Si potrebbe forse credere che sia stato per prudenza,
visto che il Copler ne sapeva e che io non mi sentivo di pregarlo di tacere. Ma però ne
parlai troppo volentieri. Fu un grande sfogo. Fino ad allora non avevo da rimproverarmi
altro che di aver taciuto con Augusta. Ecco che ora ero innocente del tutto.
Ella mi domandò qualche notizia della
fanciulla e se fosse bella. Mi fu difficile di rispondere: dissi che la povera fanciulla
mi era parsa molto anemica. Poi ebbi una buona idea:
- E se tu ti occupassi un poco di lei?
Augusta aveva tanto da fare nella sua
nuova casa e nella sua vecchia famiglia ove la chiamavano per farsi aiutare
nell'assistenza al padre malato, che non vi pensò piú. Ma la mia idea era stata perciò
veramente buona.
Il Copler però riseppe da Augusta che io
l'avevo avvertita della nostra visita e anche lui dimenticò perciò le qualità ch'egli
aveva attribuite al malato immaginario. Mi disse in presenza di Augusta che di lí a poco
tempo avremmo fatta un'altra visita a Carla. Mi concedeva la sua piena fiducia.
Nella mia inerzia subito fui preso dal
desiderio di rivedere Carla. Non osai correre da lei temendo che il Copler avesse a
risaperne. I pretesti però non mi sarebbero mica mancati. Potevo andare da lei per
offrirle un aiuto maggiore ad insaputa del Copler, ma avrei dovuto prima essere sicuro
che, a proprio vantaggio, ella avrebbe accettato di tacere.
E se quell'ammalato reale fosse già
l'amante della fanciulla? Io, degli ammalati reali, non sapevo proprio niente e poteva
essere benissimo che avessero il costume di farsi pagare dagli altri le loro amanti. In
quel caso sarebbe bastata una sola visita a Carla per compromettermi. Non potevo mettere a
pericolo la pace della mia famigliuola; ossia, non la misi a pericolo finché il mio
desiderio di Carla non ingrandí.
Ma esso ingrandí costantemente. Già
conoscevo quella fanciulla molto meglio che non quando le aveva stretta la mano per
congedarmi da lei. Ricordavo specialmente quella treccia nera che copriva il suo collo
niveo e che sarebbe stato necessario di allontanare col naso per arrivare a baciare la
pelle ch'essa celava. Per stimolare il mio desiderio bastava io ricordassi che su un dato
pianerottolo, nella stessa mia piccola città, era esposta una bella fanciulla e che con
una breve passeggiata si poteva andare a prenderla! La lotta col peccato diventa in tali
circostanze difficilissima perché bisogna rinnovarla ad ogni ora ed ogni giorno, finché
cioè la fanciulla rimanga su quel pianerottolo. Le lunghe vocali di Carla mi chiamavano,
e forse proprio il loro suono m'aveva messo nell'anima la convinzione che quando la mia
resistenza fosse sparita, altre resistenze non ci sarebbero state piú. Però m'era chiaro
che potevo ingannarmi e che forse il Copler vedeva le cose con maggior esattezza; anche
questo dubbio valeva a diminuire la mia resistenza visto che la povera Augusta poteva
essere salvata da un mio tradimento da Carla stessa che, come donna, aveva la missione
della resistenza.
Perché il mio desiderio avrebbe dovuto
darmi un rimorso quando pareva fosse proprio venuto a tempo per salvarmi dal tedio che in
quell'epoca mi minacciava? Non danneggiava affatto i miei rapporti con Augusta, anzi
tutt'altro. Io le dicevo oramai non piú soltanto le parole di affetto che avevo sempre
avute per lei, ma anche quelle che nel mio animo andavano formandosi per l'altra. Non
c'era mai stata una simile abbondanza di dolcezza in casa mia e Augusta ne pareva
incantata. Ero sempre esatto in quello che io chiamavo l'orario della famiglia. La mia
coscienza è tanto delicata che, con le mie maniere, già allora mi preparavo ad attenuare
il mio futuro rimorso.
Che la mia resistenza non sia mancata del
tutto è provato dal fatto che io arrivai a Carla non con uno slancio solo, ma a tappe.
Dapprima per varii giorni giunsi solo fino al Giardino Pubblico e con la sincera
intenzione di gioire di quel verde che apparisce tanto puro in mezzo al grigio delle
strade e delle case che lo circondano. Poi, non avendo avuta la fortuna di imbattermi,
come speravo, casualmente in lei, uscii dal Giardino per movermi proprio sotto le sue
finestre. Lo feci con una grande emozione che ricordava proprio quella deliziosissima del
giovinetto che per la prima volta accosta l'amore. Da tanto tempo ero privo non d'amore,
ma delle corse che vi conducono.
Ero appena uscito dal Giardino Pubblico
che m'imbattei proprio faccia a faccia in mia suocera. Dapprima ebbi un dubbio curioso: di
mattina, cosí di buon'ora, da quelle parti tanto lontane dalle nostre? Forse anche lei
tradiva il marito ammalato.
Seppi poi subito che le facevo un torto
perché essa era stata a trovare il medico per averne conforto dopo una cattiva notte
passata accanto a Giovanni. Il medico le aveva detto delle buone parole, ma essa era tanto
agitata che presto mi lasciò dimenticando persino di sorprendersi di avermi trovato in
quel luogo visitato di solito da vecchi, bambini e balie.
Ma mi bastò di averla vista per sentirmi
riafferrato dalla mia famiglia. Camminai verso casa mia con un passo deciso, a cui battevo
il tempo mormorando: «Mai piú! Mai piú!». In quell'istante la madre di Augusta con
quel suo dolore mi aveva dato il sentimento di tutti i miei doveri. Fu una buona lezione e
bastò per tutto quel giorno.
Augusta non era in casa perché era corsa
dal padre col quale rimase tutta la mattina. A tavola mi disse che avevano discusso se,
dato lo stato di Giovanni, non avrebbero dovuto rimandare il matrimonio di Ada ch'era
stabilito per la settimana dopo. Giovanni stava già meglio. Pare che a cena si fosse
lasciato indurre a mangiar troppo e l'indigestione avesse assunto l'aspetto di un
aggravamento del male.
Io le raccontai di aver già avute quelle
notizie dalla madre in cui m'ero imbattuto la mattina al Giardino Pubblico. Neppure
Augusta si meravigliò della mia passeggiata, ma io sentii il bisogno di darle delle
spiegazioni. Le raccontai che preferivo da qualche tempo il Giardino Pubblico quale meta
delle mie passeggiate. Mi sedevo su una banchina e vi leggevo il mio giornale. Poi
aggiunsi:
- Quell'Olivi! Me l'ha fatta grossa
condannandomi a tanta inerzia.
Augusta, che a quel proposito si sentiva
un poco colpevole, ebbe un aspetto di dolore e di rimpianto. Io, allora, mi sentii
benissimo. Ma ero realmente purissimo perché passai il pomeriggio intero nel mio studio e
potevo veramente credere di essere definitivamente guarito di ogni desiderio perverso.
Leggevo oramai l'Apocalisse.
E ad onta che fosse oramai assodato ch'io
avevo l'autorizzazione di andare ogni mattina al Giardino Pubblico, tanto grande s'era
fatta la mia resistenza alla tentazione che quando il giorno appresso uscii, mi diressi
proprio dalla parte opposta. Andavo a cercare certa musica volendo provare un nuovo metodo
del violino che m'era stato consigliato. Prima di uscire seppi che mio suocero aveva
passata una notte ottima e che sarebbe venuto da noi in vettura nel pomeriggio. Ne avevo
piacere tanto per mio suocero quanto per Guido, che finalmente avrebbe potuto sposarsi.
Tutto andava bene: io ero salvo ed era salvo anche mio suocero.
Ma fu proprio la musica che mi ricondusse
a Carla! Fra i metodi che il venditore m'offerse ve ne fu per errore uno che non era del
violino ma del canto. Ne lessi accuratamente il titolo: «Trattato completo dell'Arte del
Canto (Scuola di Garcia) di E. Garcia (figlio) contenente una Relazione sulla Memoria
riguardante la Voce Umana presentata all'Accademia delle Scienze di Parigi».
Lasciai che il venditore s'occupasse di
altri clienti e mi misi a leggere l'operetta. Devo dire che leggevo con un'agitazione che
forse somigliava a quella con cui il giovinetto depravato accosta le opere di pornografia.
Ecco: quella era la via per arrivare a
Carla; essa abbisognava di quell'opera e sarebbe stato un delitto da parte mia di non
fargliela conoscere. La comperai e ritornai a casa.
L'opera del Garcia constava di due parti
di cui una teorica e l'altra pratica. Continuai la lettura con l'intenzione di intenderla
tanto bene da poter poi dare i miei consigli a Carla quando fossi andato da lei col
Copler. Intanto avrei guadagnato del tempo e avrei potuto tuttavia continuare a dormire i
miei sonni tranquilli, pur sollazzandomi sempre col pensiero all'avventura che
m'aspettava.
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe Bonghi -
bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 febbraio 1998