Luigi Pirandello
Discorso di Catania
2 settembre 1920
Teatro Massimo Vincenzo Bellini di Catania
Chi lavora con
serietà, altezza e nobiltà d'intenti sa che conto si possa fare (e si debba dunque fare)
della critica contemporanea, perché considera che non è possibile ai troppo vicini
vedere dove e quanto uno scrittore nella sua opera sia riuscito a liberarsi della sua
temporalità, vale a dire di tanti elementi, spesso incoercibili, che sono del tempo e nel
tempo, e che concorrono naturalmente a condizionare l'opera.
Liberarsene vuol dire superarli,
assorbendoli in una forma che sia per se stessa compresente d'ogni tempo.
Ora appunto questo la critica contemporanea difficilmente riesce a discernere, mentre
ancora vivono e consistono quei temporanei elementi: se cioè un'opera si sorregga
soltanto su questi, da tutti sottintesi, ma non da essa veramente assorbiti e superati.
E ne è prova il cadere, anche a breve
distanza di tempo, di tante opere esaltate dalla critica al loro primo apparire, mancati
quei sottintesi, quegli addentellati con cui per il momento si sostenevano; e ne è prova
inversa il vedere, anche a non lunga distanza di tempo, altre opere risorgere e affermarsi
su basi incrollabili, che la critica contemporanea aveva tentato d'abbattere.
Le due prove sono patenti nell'opera di
Giovanni Verga, appunto.
L'opera giovanile, per tanta parte
confusa con la vita del tempo e con certe intime aspirazioni romanzesche dello stesso
autore, fu accolta con larghissimo favore (e si può dire anzi che sia tuttora, presso un
certo genere di lettori, la piú diffusa e ricercata); l'opera della maturità, quella
che, a prima vista, doveva pur sembrare piú d'ogni altra condizionata da elementi
temporanei, dal metodo d'una scuola allora nuova, per le passioni contrarie che in una
parte della critica d'allora questa scuola suscitò, fu in principio avversata, perché
appunto la critica, nell'un caso e nell'altro, non vide che gli elementi temporanei, senza
discernere che nel primo caso l'opera dello scrittore ancora giovane non aveva saputo o
potuto uscire (che è lo stesso) dalla vita del tempo e da quelle intime aspirazioni con
cui era confusa e che nel secondo caso, invece, l'opera della maturità non ebbe dal tempo
il suo contenuto, come qualche cosa presa materialmente da fuori, né fu condotta
premeditatamente secondo un metodo artistico suggerito da altri e importato da una scuola
straniera; ma che quel contenuto doveva essersi naturalmente generato nello scrittore, sua
materia nativa, la quale per venir fuori schietta e nuda, aveva soltanto bisogno d'esser
liberata da tutte le scorie romantiche della prima giovinezza; e che quel metodo non fu
per il Verga della scuola naturalista francese della seconda metà del secolo scorso, ma
per naturale diritto suo, perché sua intima tecnica, vale a dire libero e spontaneo
movimento di un'immagine di vita ch'era dentro di lui e che per quel movimento proprio e
spontaneo (che è la vera tecnica, da intendere appunto come immediato movimento della
forma) - doveva venir fuori.
Tanto è vero questo, che ormai, a tanta
distanza di tempo, l'opera vive intera e perfetta, in tutti i suoi elementi, che sono
tutti proprii e proprio suoi - unici - i quali tra sé si tengono a vicenda
meravigliosamente e a vicenda cooperano a formare un corpo vivo, senza che per nessuna
parte di essa si possa pensare che sia cosí, non perché cosí dovesse essere e non
potesse altrimenti, ma per ubbidire a quei canoni, che nessuno ormai sta piú a pensar
neanche quali fossero, della scuola verista, i quali cosí la volevano pur potendo essere
forse, senza questa scuola, in altro modo.
Dov'erano estrinseche necessità naturali
dell'opera stessa, leggi vitali, imprescindibili correlazioni organiche, la critica non
seppe vedere che le norme esteriori di quella scuola, i modi d'una tecnica appresa, e
s'appassionò a discuterli, traendo anche il Verga dal suo austero silenzio a parlar di
metodi e di distinzioni teoriche tra essi, e a difendere quello verista come se l'opera
della sua maturità fosse quella che era perché egli aveva seguito quel metodo e non
perché essa in sé e per se stessa cosí si fosse voluta, senz'altro fine che di seguire
la propria legge vitale.
Potrà forse interessare la testimonianza
diretta d'uno come me, che da giovine si trovò presente a quelle appassionate discussioni
e che anzi in un certo senso vi prese parte manifestando opinioni in contrasto, perché
già ai giovani succeduti a quelle prime generazioni di scrittori contemporanei certe
vedute estetiche si erano aperte, non chiare ai predecessori ancora impigliati in vedute
storiche, in concetti di evoluzione di forma e di forme letterarie. Interessare non tanto
per cose che io abbia da dire, che non siano già note a chi conosca la storia delle
ultime nostre vicende letterarie; ma perché mi trovai accanto, in quegli anni, anzi nella
intimità della piú cordiale amicizia con uno che quella scuola e quel metodo, e la
ragione, anzi - secondo lui - la necessità d'adottarli per tentare una narrazione, non
piú storica, ma contemporanea, e i frutti che essi diedero in Francia e poi in Italia, e
segnatamente l'opera di Giovanni Verga, suo amico fraterno e compagno di lavoro, difese
strenuamente e infaticabilmelite: Luigi Capuana.
Voglio ricordarlo, non per il suo valore
e per le sue benemerenze di critico come oggi si fa comunemente, non so con quanta
coerenza, se quei suoi lumi critici, mentre sono lodati per il bene che fecero
rischiarando il cammino dell'arte al suo grande compagno di lavoro, son poi denunziati
come prima radice del suo fallimento di scrittore; ma al contrario, per dire delle
deficienze della sua critica e del valore della sua arte, tutt'a un tratto dai critici
negato, oggi appunto che non si può esaltar l'opera e l'arte di Giovanni Verga, senza
abbassar quella di Luigi Capuana.
È una grande ingiustizia e una grande
amarezza.
Nella sua confessione a Neera «Com'io
divenni novelliere» il Capuana disse le ragioni per cui, volendo fare una narrazione
di vicende e di passioni non del passato ma del presente, credette imprescindibile, in
mancanza di modelli paesani, rivolgersi alla Francia, ove le due forme del romanzo e della
novella, dopo lunga elaborazione, avevano dato gli ultimi esemplari. Parlò spesso delle
tormentose ricerche di una «prosa viva, efficace, adatta a rendere tutte le quasi
impercettibili sfumature del pensiero moderno». Fino all'ultimo s'affannò a sostenere la
cosí detta impersonalità nella narrazione e l'oggettività nell'arte narrativa.
Il Verga che nel romanzo giovanile I
carbonari della montagna e nelle Storie del Castello di Trezza segue ancora
le vecchie forme narrative romantiche di casa nostra, che seguirà poi fino al romanzo Eros
le stesse forme, ma rammodernate, secondo il gusto e il tono d'una certa moda letteraria
francese, fa sue infine le idee e suoi i propositi teorici del Capuana.
Ora, parlare, come fa questi di
tradizioni in arte, come di qualche cosa da cui l'opera d'arte dipenda e senza la quale
sia, se non proprio impossibile, difficilissimo ch'essa nasca, è - come si fa di solito -
porre male una questione, che va posta e - per conseguenza - risolta altrimenti. Non è da
parlarne cosí, perché ogni vera opera d'arte è e dev'essere «unica» e dunque senza
modelli. Non esiste per se stessa, in astratto, una forma «romanzo» o una forma
«novella» che da sé, qua o là, e qua meno e là piú, si evolvano; bensí quei tali
romanzi, quelle tali novelle ciascuno e ciascuna con la sua forma propria, da non
potersi confondere con altre, se veramente son opere d'arte. Considerando per sé le forme
e indicando i modelli e prescrivendo le regole e il metodo con cui quelle narrazioni
dovevano esser condotte, si veniva a cader nello stesso errore intellettualistico della
retorica, che consisteva appunto in questo, come anche nella ricerca esteriore
dell'espressione, quasi che il linguaggio fosse qualcosa da prender da fuori per rendere
ciò che ci sta dentro e non qualcosa che si formi in noi col pensiero stesso e che è
anzi il pensiero stesso che si vede in noi chiaro in tutte le sue parti; e quasi che, del
resto, benché adoperata in una narrazione mista, noi non avessimo di già in casa nostra,
con tutto il tormento di una triplice elaborazione, l'esempio di una prosa viva, efficace,
adatta a rendere le piú lievi e riposte pieghe della passione e del pensiero nei Promessi
Sposi del Manzoni. La questione infine dell'impersonalità o dell'oggettivismo
nell'arte narrativa non ci voleva molto a vedere che si riduceva tutta a nient'altro che a
un diverso atteggiamento dello spirito nell'atto della rappresentazione, poiché l'arte,
come coscienza del soggetto, non può esser mai oggettiva se non a patto di porre ciò che
è creazione nostra, fuori di noi, come se non fosse appunto nostra, ma una realtà per
sé, che noi dovessimo solamente ritrarre con fedeltà, senz'affatto mostrare di
parteciparvi, da spettatori diligenti e spassionati.
In fondo, il Capuana cadde, come tutti i
teorici del naturalismo, per mancanza di discernimento estetico, nello stesso errore, per
cui il Manzoni doveva condannare il suo capolavoro; con la sola differenza che il Manzoni
aberrò esteticamente per uno scrupolo verso la Storia, il Capuana e i naturalisti per lo
scrupolo della Scienza qual'era intesa ai loro giorni; ma non per sostenere che si doveva
far cosí.
Mostrare o non mostrare coscienza della
propria creazione: è tutto qui: atteggiarsi liricamente, cioè attraverso gli elementi
soggettivi dello spirito, il sentimento e la volontà; o atteggiarsi storicamente, cioè
attraverso l'elemento oggettivo: l'intelletto. L'opera d'arte perfetta è rarissima,
perché assai di raro avviene che tutto lo spirito nei suoi varii elementi, accordati
all'unisono, lavori, senza il prevalere di questo su quello, come sempre avviene in un
tempo o nell'altro, per azioni e reazioni improvvise. E sempre, difatti, dietro o accanto
a ogni movimento letterario abbiamo un diverso orientarsi del pensiero filosofico; e come
per reazione all'intellettualismo, che ebbe la sua poetica nel classicismo, irrompono i
due elementi soggettivi conculcati, il sentimento e la volontà naturalmente disordinati e
quasi ciechi, perché ribelli a ogni lume d'intelletto, elementi che avranno la loro
poetica nel romanticismo; cosí piú tardi, per reazione all'idealismo romantico avremo il
materialismo e il positivismo sperimentale che troveranno la loro poetica nel naturalismo
letterario, che si propone di darci «documenti umani» e «pezzi di vita» e di annegare
l'arte nella scienza. Avremo reazione anche a questo; e per meno - in un certo senso -il
Fogazzaro, e per assai piú in altro senso il D'Annunzio vogliono essere, piú che in
realtà non siano, i campioni di questa reazione. E ora si ritorna, sazii e stanchi di
forme concluse e troppo sonore, ai frammenti puri, ai «pezzi di vita»; si ritorna
umiliati alla grande arte del Verga, il quale per sua ventura ebbe per queste cose scarso
intelletto e si valse di quello del Capuana solo per quel tanto che gli occorse a veder
chiara tutta quella solidità elementare, che il sentimento originario della sua terra gli
poneva, e facendo che ad essa la sua volontà ritemprata, potente e schietta, aderisse
perfettamente.
Nocque senza dubbio il troppo intelletto
al Capuana; troppo esso, e spesso, gli fece - per dir cosí - meccanizzare quegli elementi
del tempo che dovevano per necessità naturale condizionare cosí la sua coltura come la
sua opera; ma non di rado egli, anche dimenticando tutta la sua critica, e abbandonandosi
intero alla tanta vita ch'era in lui, creò cose che non passeranno: tante delle novelle
paesane, pagine di pura bellezza nel Marchese di Roccaverdina e in Profumo.
Non è possibile a tutti ritrarsi a tempo
dal lavoro, che ha stancato la mente e la mano; premono dure necessità e costringono alla
fretta senza piú quella libertà e quella serenità di cui l'arte non può fare a meno.
È ingiusto giudicar da questo lavoro soltanto, piú noto perché piú recente, uno
scrittore, dimenticando quel che egli nel suo miglior tempo ci diede.
Toccò invece a Giovanni Verga, e
meritamente, la stessa invidiabile sorte dell'altro nostro sommo scrittore, che poco fa ho
nominato, e a cui anche per questo può star vicino, oltre che per certe qualità
intrinseche dell'arte e per la simpatia per gli umili: la stessa invidiabile sorte
d'Alessandro Manzoni; cioè: superstite alla sua opera di scrittore, poter esser sicuro
della vita imperitura di essa, dopo averla saggiata al paragone d'un lungo silenzio.
Silenzio non soltanto suo, in quanto egli
seppe «col suo formidabile buon senso compire l'estrema rinunzia, quella dell'arte,
quando s'accorse di non potersi piú superare»; ma silenzio anche del tempo nella sua
opera, che come fuoco sicuro e inestinguibile ha potuto covare a lungo sotto la cenere di
tant'altre ambizioni che superbamente le s'eran fatte sopra, vampando.
Qualcuno ha voluto vedere la ragione della non larga risonanza di quest'opera negli animi
dei lettori, nell'assenza da essa d'un contenuto ideologico, o comunque spirituale,
affettivo dello scrittore, che desse facile e abbondante materia di discussione alla
critica e destasse e stuzzicasse curiosità e interessi extra artistici nei lettori, come
è avvenuto ad esempio per il Fogazzaro o per il Pascoli o per il D'Annunzio.
Ora questo può esser vero solo in parte.
Prima di tutto perché qualunque opera d'arte può sempre dal pensiero riflesso, cioè
dalla critica esser risolta in un rapporto logico, per trarne regole di vita e materia di
discussioni, che non han nulla da vedere con l'arte, perché riguardano appunto il
contenuto, la materia della costruzione fantastica e non questa costruzione che è la sola
che importi. Se in Verga non è mai ostentato, non appar mai di fuori, è riassorbito
tutto nella forma, non per questo la critica non poteva desumerlo da tutti gli
atteggiamenti di questa forma, sia rispetto ai personaggi per quanto elementari, sia
rispetto alle cose rappresentate per farlo oggetto (come fece del resto) di. discussioni -
riguardo all'arte - oziose: la concezione dei vinti; l'anima di essi; tutta la morale
sociale, che il Verga attinse, ideologicamente, al positivismo, come naturalista: la lotta
per l'esistenza, implacabile, dapprima intesa nel senso piú materiale, poi a mano a mano
complicata di bisogni superiori.
Piú che in tutti gli altri, anzi, nel
Verga c'erano segreti da scoprire in questo senso. Tutto patente, negli altri; tutto da
scoprire, nel Verga; attraverso la sua «impersonalità», non volendo o non sapendo il
critico, tanto per il Verga quanto per gli altri scrittori, restar nei limiti del suo vero
e difficile compito: risolvere cioè solamente il problema artistico: dati questi e questi
materiali costruttivi; ecco la costruzione; esaminarla. Mostrare di rappresentare da
spettatore spassionato un mondo di povero gusto e di povere cose, vuol dire proprio
appassionarsi di tutto e di tutti, anche dei minimi contrarii, e anzi tanto degli uni
quanto degli altri; e quel che appare semplice à il piú complesso che si possa
immaginare, perché colto nella sintesi di certi atti immediati, che per essere intesi
come il Verga li intende tutti «umanamente» e non come atti di bruti, presuppongono un
intenso e sagace lavorio interno d'analisi, taciuto e non ostentato, come il Verga stesso
ebbe a osservare parlando dei narratori della scuola psicologica.
La ragione è un'altra: la ragione è in
una grande, o piuttosto, prestigiosa avventura letteraria, che prese tutt'a un tratto e
tenne per tanto tempo gli animi in un abbaglio fascinoso: quella d'un uomo adatto e
magnifico, nato per l'avventura, cosí nell'arte come nella vita, e in una tal confusione
d'arte e di vita da non potersi dire quanta della sua vita sia nella sua arte, quanta
della sua arte nella sua vita; una tal confusione salvando nel solo modo con cui era
possibile salvarla, cioè in apparenza, da fuori, sotto il lussuoso paludamento d'una
continua letteratura. Ho detto Gabriele d'Annunzio.
Giovanni Verga è il piú
«antiletterario» degli scrittori; il D'Annunzio è tutto letteratura, anche là dove
l'esperta e istrutta, acutissima sensibilità riesce a farlo veramente vivo: noi sentiamo
sempre che è «troppo» anche là, e che questo troppo gli è dato dalla letteratura, la
quale ha arricchito col piú dovizioso ausilio verbale, raffinandolo fin quasi a renderlo
anormale, il nativo acume dei suoi sensi vivi.
Non era possibile che in un tempo pieno
(e in principio, anzi, tutto quanto grottescamente echeggiante) di questa avventura
letteraria, avesse se non una mediocre risonanza nell'animo dei lettori l'opera e l'arte
di Giovanni Verga, che è la piú antitetica che si possa dare. Là tutto il volubile
delle opportunità propizie; qua la statica monotonia d'uno scoraggiamento disperato e
rassegnato; là la pomposa opulenza non solo d'una prosa tutta tumida polpa con sapienza
truccata, ma anche opulenza materiale di cose rappresentate, perché e ville e ozii e
smanie e superbi orgogli di signori; qua asciutta magrezza d'ossatura e povertà nuda di
parole e di cose, la piazza sempre quella e le vecchie case d'un umile villaggio, il mare
(ma non il poetico, divino mare) il mare avaro e crudele dei pescatori, deserte campagne
infestate dalla malaria, gli stenti, i bisogni, le passioni chiuse, originarie e
sospettose di un'infima gente che vuol salire, o che è già salita e n'ha l'affanno che
le vieta non solo il riposo, ma ogni consolazione. Là, insomma, per aprire davanti a noi
in una piú vasta veduta letteraria due lineamenti ben distinti e quasi paralleli lungo
tutto il cammino della nostra storia artistica, là uno stile di parole, qua uno stile di
cose. Li abbiamo fin dagli inizii della nostra letteratura questi due stili opposti: Dante
e Petrarca, e possiamo seguirli a mano a mano fino a noi, Machiavelli e Guicciardini,
l'Ariosto e il Tasso, il Manzoni e il Monti, il Verga e il D'Annunzio. Negli uni la parola
che none la cosa e per parola non vuol valere se non in quanto esprime la cosa, per modo
che tra la cosa e il lettore che deve vederla, essa, come parola, sparisca, e stia lí,
non parola, ma la cosa stessa. Negli altri, la cosa che non tanto vale per sé quanto per
come è detta, e appar sempre il letterato che vi vuol far vedere com'è bravo a dirvela,
anche quando non si scopra. E lí, dunque, una costruzione da dentro, le cose che nascono
e vi si pongono innanzi sí che voi ci camminate in mezzo, vi respirate, le toccate:
terra, pietre, carne, quegli occhi, quelle foglie, quell'acqua; e qua una costruzione da
fuori, le parole dei repertorii linguistici e le frasi che vi sanno dir queste cose, e che
alla fine, poiché ci sentite la bravura, vi saziano e vi stancano.
Guardate bene a queste due discendenze, o
famiglie, o categorie di scrittori, per ciò che riguarda la famosa, eterna questione
della lingua, veduta come s'è vista sempre, esteriormente e non come creazione. Negli uni
è la lingua, come vive scritta: «letteraria». Negli altri tutti, un sapore idiotico,
dialettale, a cominciar da Dante, che nei dialetti appunto, e non in questo o in quello,
vedeva risiedere il volgare. E tutta la pompa piú doviziosa della lingua è in
D'Annunzio; e dialettale è il Verga.
Dialettale? Sí. Ma come è proprio,
volendo fare arte e non letteratura, che si sia dialettali in una nazione che vive
soltanto, propriamente, della varia vita, e dunque nel vario linguaggio delle sue molte
regioni. Questa «dialettalità» del Verga è una vera creazione di forma, da non
considerare perciò al modo usato, cioè come «questione di lingua», notandone lo stampo
sintattico, spesso prettamente siciliano, e tutti gli idiotismi.
Qui idiotico vuol dire «proprio». La
vita d'una regione nella realtà che il Verga le diede, cioè com'egli la sentí, come la
vide, come in lui si atteggiò e si mosse, vale a dire come su lui si volle, non poteva
esprimersi altrimenti: quella lingua è la sua stessa creazione. E non è colpa degli
scrittori italiani, né povertà, ma anzi ricchezza per la loro letteratura, se essi
«creano la regione». Nazione da noi vuol dire o volgarità meccanica e stereotipata di
stile burocratico e scolastico, o astratta verbosità di lingua letteraria e retorica:
quello che sempre, se pure in prima musicalmente piace, alla fine sazia e stanca.
E il ritorno al Verga, inevitabile, è
infatti ora dei giovani sazii e stanchi di quella troppa letteratura. E ne godo io -
radicalmente diverso - che mi trovai solo in mezzo a quell'avventura a rider degli avanzi
sfortunati di ciò che a volte parve 1'impazzimento d'uno sconcio carnevale; io freddo e
sordo e duro, non fatto per star nelle grazie né di me stesso né di nessuno. Doveva
avvenire. Perché la vita o si vive o si scrive. Dove non c'è la cosa, ma le parole che
la dicono; dove vogliamo esser noi per come le diciamo, c'è, non la creazione, ma la
letteratura, e anche letterariamente, non l'arte ma l'avventura, una bella avventura, che
si vuol vivere scrivendola o che si vive per scriverla.
E ne è esempio lo stesso Verga giovane
nella sua prima opera, che è appunto lo sfogo delle sue sentimentalità romantiche e
sensuali; mondo composto esteriormente e - ciò che può sembrare un paradosso - fuori
d'ogni sentimento diretto, non perché questo sentimento non fosse allora vero e suo, anzi
perché lo era troppo e non riusciva a investir da dentro una realtà, che voleva esser
veduta, cioè posta fuori in un personaggio, in quel personaggio appunto della sua
aspirazione romanzesca, suscitata e rinsaldata dalla lettura di certi romanzi francesi.
C'era insomma l'ambizione di viverli, questi romanzi, scrivendoli, e non poteva seguirne
che l'artificio: il torbido di quelle aspirazioni, facendo impeto al filtro dell'arte e
ingorgandosi, non riusciva a purificarsi. Ma fu un'esperienza necessaria per la sua natura
appassionata, che tentava d'incarnarsi nell'arte, che cercava il suo romanzo, e cominciava
col foggiarselo artificialmente, campato in aspirazioni di gusto francese. Tutte queste
scorie romantiche bisognava che bruciassero, perché l'oro poi riuscisse a colar puro;
bisognava che il Verga arrivasse a questa conclusione della sua opera giovanile, che si
legge nel romanzo Eros: «Tutta la scienza della vita sta nel semplificare le umane
passioni, e nel ridurle alle proporzioni naturali». Vale a dire nel poco da scavare in
profondo, perché la quercia tanto piú si radichi quanto piú alta e ferrigna si leverà
nel sole, anziché nel vasto da coltivar superficialmente perché vi spuntino appena
piante d'una sola stagione. Bisognava, insomma, che il fuoco dell'arte - bruciate queste
scorie - investisse in lui;, nel profondo, una materia viva.
Qual'è nel Verga questa materia viva?
È troppo vago dire, come è stato detto,
la passione, e riassumere l'uomo Verga, quale forse è, quale, a ogni modo, vien fuori
dalla sua opera, in queste note: «Siciliano triste, appassionato, austero, che nella
realtà vede il mondo quale esso è, e si spiega che non può esser diverso da quello che
è, e mentre soffre della realtà, tosto ne riconosce la razionalità, la sua malinconica
fatalità».
Siciliano triste - va bene. Tutti i
siciliani in fondo sono tristi, perché hanno quasi tutti un senso tragico della vita, e
anche quasi una istintiva paura di essa oltre quel breve ambito del covo, ove si senton
sicuri e si tengono appartati; per cui son tratti a contentarsi del poco, purché dia loro
sicurezza. Avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura
intorno, aperta, chiara di sole, e piú si chiudono in sé, perché di quest'aperto, che
da ogni parte è il mare che li isola, cioè che li taglia fuori e li fa soli, diffidano,
e ognuno è e si fa isola a sé, e da sé si gode, ma appena, se l'ha, la sua poca gioia,
da sé, taciturno e senza cercar conforti, si soffre il suo dolore spesso disperato. Ma ci
son di quelli che evadono; di quelli che passano non solo materialmente il mare, ma che,
bravando quell'istintiva paura, si tolgono (o credono di togliersi) da quel loro poco e
profondo che li fa isole a sé, e vanno ambiziosi di vita ove una loro certa fantastica
sensualità li porta, spassionandosi, o piuttosto soffocando e tradendo la loro vera,
riposta passione, con quella ambizione di vita effimera. Il Verga, giovine, fu uno di
questi; e dunque non veramente appassionato in principio e neanche austero. Austero, anzi,
propriamente, o meglio, in un certo senso moralistico, non sarà mai, né per quel che
pensa della vita né per quel che sente, come ognuno che veda e scusi le opposte passioni
e riconosca sempre le ragioni degli altri.
Non ha poi senso il dire «nella realtà
egli vede il mondo quale esso è, e si spiega che non può essere diverso da quello che
è». Il mondo non è per se stesso in nessuna realtà, se non gliela diamo noi; e dunque,
poiché gliel'abbiamo data noi, è naturale che ci spieghiamo che non possa esser diverso.
Bisognerebbe diffidar di noi stessi, della realtà del mondo posta da noi. Per sua fortuna
il Verga non ne diffida se si spiega che il mondo non può esser diverso da quello che è.
E dunque il Verga non è, né può essere, nel senso vero e proprio della parola, un
umorista.
Bisogna intendersi bene su tutto questo.
Non solo per l'artista, ma non esiste per
nessuno una rappresentazione, sia creata dall'arte o sia comunque quella che tutti ci
facciamo di noi stessi e degli altri e della vita, che si possa credere «una realtà».
Sono in fondo una medesima illusione quella dell'arte e quella che comunemente a noi tutti
viene dai nostri sensi.
Pur non di meno, noi chiamiamo «vera»
quella dei nostri sensi, e «finta» quella dell'arte.
Ma se ben guardiamo, tra l'una e l'altra
non è mai però questione di «realtà», bensí di «volontà» e solo in quanto la
finzione dell'arte è sempre «voluta» - voluta non nel senso che sia procacciata con la
volontà per un fine estraneo a se stessa; ma voluta per sé e per sé amata,
«disinteressatamente»; mentre quella dei sensi non sta a noi volerla o non volerla: si
ha, come e in quanto si hanno i sensi. E quella, dunque, è libera; e questa, no. E l'una
è dunque immagine o forma di sensazioni; mentre l'altra - quella dell'arte - è creazione
di forma.
Il fatto estetico, effettivamente,
comincia solo quando una rappresentazione acquisti in noi «per se stessa» una volontà,
cioè quando essa in sé e per se stessa «si voglia», provocando per questo solo fatto,
«che si vuole», il movimento atto a effettuarla fuori di noi. Se la rappresentazione non
ha in sé questa volontà, che è - come abbiamo detto - il movimento stesso
dell'immagine, essa è soltanto un fatto psichico comune: l'immagine non voluta per se
stessa; fatto spirituale-meccanico, in quanto non sta a noi, ripeto, volerla o non
volerla; ma che si ha in quanto risponde in noi a una sensazione.
Abbiamo tutti, chi piú chi meno, una
volontà che provoca in noi quei movimenti atti a creare la nostra propria vita. Questa
creazione che ciàscuno fa di sé a se stesso, ha anch'essa bisogno, in maggiore o minor
grado, di tutte le funzioni e attività dello spirito, cioè d'intelletto e di fantasia,
oltre che di volontà; echi piú neha piú ne mette in opera, e riesce a creare a se
stesso una piú alta e vasta e forte vita. La differenza tra questa creazione e quella
dell'arte è solo in questo (che fa appunto comunissima l'una e non comune l'altra); che
quella è «interessata» e questa «disinteressata», il che vuol dire che l'una ha un
fine di pratica utilità, l'altra non ha alcun fine che in se stessa; l'una è voluta per
qualche cosa, l'altra si vuole per se stessa. E una prova di questo si può avere nella
frase che ciascuno di noi suol ripetere ogni qual volta, per disgrazia, contro ogni nostra
aspettativa, il proprio fine pratico, i proprii interessi siano stati frustrati: «Ho
lavorato per amore dell'arte». E il tono con cui si ripete questa frase ci spiega la
ragione per cui la maggioranza degli uomini, che lavorano per fini di pratica utilità e
che non intendono la volontà disinteressata, suol chiamare matti i poeti veri, quelli
cioè in cui la rappresentazione si vuole per se stessa, senz'altro fine che in se
medesima, e tale essi la vogliono, quale essa si vuole.
In questo totale disinteresse, e non in
altro può consistere la impersonalità dello scrittore nella realtà da lui creata. In
tutto il resto è lui, sempre, per forza, e tanto piú, starei per dire, quanto meno si
scopre.
Perché realtà non esiste se non nei
sentimenti che ce la compongono. La vivremmo ciecamente, se a ciascuno il lume
dell'intelletto, o piú o meno, secondo i casi e i temperamenti, non ce la rischiarasse.
Composta dai nostri sentimenti - com'ha bisogno dell'intelletto per esser veduta - cosí
della volontà per muoversi in noi, per noi e con noi.
L'arte è arte, perché ciò che è
realtà, vale a dire appunto questa composizione dei nostri sentimenti, rischiarata dal
nostro intelletto e mossa dalla nostra volontà, cosa infinitamente varia e continuamente
mutevole, condizionata sempre nella sua molteplicità (e appunto perché molteplice) di
spazio e di tempo - è fissata per sempre dalla fantasia in un momento o in piú momenti
essenziali, fuori di questo molteplice (e dunque dello spazio e del tempo) - eterna e una
- ma non nell'assoluto di un'astrazione, bensí eterna perché di tutti i tempi, ed una
perché quella, che ha vita nel consenso di tutti e in tutti, naturalmente, in un
suo particolar modo: liberata da tutto ciò che è comune, ovvio, caduco, da tutti quegli
ostacoli che, nella creazione della nostra propria vita, spesso ci distraggono, ci
arrestano, ci deformano.
Non bisogna dunque dire che uno
scrittore, quale il Capuana lo voleva, quale per lui era il Verga, e poteva anche essere
ogni altro scrittore al pari di lui impersonale, il Flaubert, lo Zola, il Maupassant, il
Capuana stesso, «veda il mondo qual'esso è nella realtà e si spieghi che non
può esser diverso da quello che è» - ma bisogna invece vedere quali sentimenti pongano
a questo o a quello scrittore, al Verga nel caso nostro, la sua realtà, la realtà del
suo mondo, con quale intelletto egli se la rischiari, con quale volontà la muova.
Il Verga quale naturalmente si condiziona
nella storia del suo tempo, cioè per quel suo particolar modo di essere come poteva e
doveva generarsi in lui nel suo tempo e col suo tempo, non ha una fede attiva, una norma
direttiva nella vita, e non la cerca nemmeno, perché crede che non ci sia. Ce l'ha in
fondo, nascosta; ma è per il sentimento - e dunque oscura - non per il pensiero. La norma
affettiva: degli affetti immediati: la famiglia, la sua terra, i costumi della sua gente,
gli interessi, le passioni di essa. E qui soltanto, difatti, egli riesce a porre a se
stesso una realtà. Non crea, dunque, ideologicamente, un mondo, non riesce cioè a
ordinarlo secondo una sua idea, da fuori, in una realtà ch'egli possa o sappia dargli
superandolo, cioè a dire superandosi. Lo accetta in quella realtà oscura che a volta a
volta gli pone il suo sentimento, da dentro, e dice che essa è cosí, perché è cosí. E
per forza il sentimento in questo suo porsi a caso e senza lume, s'intristisce sempre piú
e si logora a mano a mano, come un meccanismo governato da un'angosciosa fatalità. Egli
rappresenta il consistere quasi fatale di questi sentimenti in realtà che non possono
esser che quelle, perché il sentimento è questo ed è cosí - cosí triste! cosí
implacabilmente triste!
Rileggete Vita dei campi e Novelle
rusticane, rileggete Per le vie e Vagabondaggio, I Malavoglia e Mastro
don Gesualdo. Eppure parve al Verga che le irrequietudini del pensiero vagabondo
potessero addormentarsi dolcemente in lui «nella pace serena di sentimenti miti,
semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione»,
considerando come cose seriissime e rispettabilissime il tenace attaccamento d'una povera
gente allo scoglio sul quale la fortuna li lasciò cadere, la rassegnazione coraggiosa a
una vita di stenti, la religione della famiglia, che si riverbera sul mestiere, sulla casa
e sui sassi che la circondano. Troppo egli, e invano, cercò di scorgere entro al turbine
della fatua vita cittadina, di là dal mare, e gli parve alfine di leggere una fatale
necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell'istinto che hanno i piccoli di
stringersi fra loro per resistere alle tempeste della vita, e cercò di decifrare il
dramma modesto e ignoto che sgomina gli attori plebei del suo capolavoro: I Malavoglia;
un dramma il cui nodo, come egli stesso dice, consiste in questo: «che, allorquando uno
di quei piccoli vuole staccarsi dal gruppo per vaghezza dell'ignoto, o per brama di
meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo da pesce vorace com'è, se lo
ingoja, e i suoi prossimi con lui». Questo è il pensiero che fa lume al suo sentimento.
Un ben triste lume. E il sentimento che è d'amore per quegli umili, per quei deboli, per
quelle povere cose, diventa per forza, a quel lume, passione, e la passione tormento.
Altro che dolce addormentarsi! altro che pace serena! altro che sentimenti miti e semplici
in calme vicende inalterate di generazione in generazione! E un mondo, un povero mondo di
bisogni primi, di primi affetti, intimi, originarii, nudi, e di nude cose, di semplicità
elementare, in preda a una necessità fatale. Egli per il primo ne soffre, ma subito quel
lume gli fa riconoscere che non può esser che cosí e non c'è via di scampo in altra
realtà che potrebbe esser diversa, a guardarla da un altro lato ó da sopra, o facendo
che il sentimento dei personaggi, a volte, si rimirasse anche di sfuggita nello specchio
d'una riflessione estranea, cioè dello stesso scrittore, come avviene spesso in Manzoni.
No; egli la guarda sempre, sempre da dentro, con gli occhi dei suoi stessi personaggi, in
una immedesimazione continua: e la realtà è quella sola, quale la pongono i sentimenti
di quei personaggi, implacabilmente, inesorabilmente quella. Non che qualche volta non sia
comica o non s'ironizzi per dir cosí da sé, nei commenti degli altri attori della scena
o nei contrasti, spesso crudeli, anche se goffi, della vita provinciale o di campagna. Ma
incombe sempre anche qui quella necessità fatale, che rende perciò malinconica l'ironia
e triste la goffaggine, come in Malaria, come nel Reverendo, come in Cos'è il Re,
o in Libertà o in Don Licciu Papa, e qua e là un po' da per tutto nelle
novelle e nei Malavoglia e in Mastro don Gesualdo. Bisogna farsi una ragione
di questa fatalità incombente, e guaj a chi non se la fa o non se la vuol fare: avrà il
danno e anche le beffe. E questa è la rassegnazione verghiana, che è cosí amara
anch'essa! Non razionalità, dunque, che dà l'idea d'una rigidezza meccanica, ma
rassegnazione alla necessità fatale, che vince tutti, e che non ammette che qualcuno le
si ribelli.
Piú facile e meno amara, perché
confortata, è questa rassegnazione se si raccoglie attorno al focolare domestico, che per
il Verga, come per tutti i siciliani, è sacro. Morte e dannazione a chi lo tradisce, a
chi se ne scorda. Tn quasi tutta l'opera verghiana c'è questo fulcro sacro, a cui
l'autore, sempre attraverso gli occhi dei suoi personaggi, guarda con venerazione, con
nostalgia, con tenerezza, pieno di pietà per chi non poté averne, per chi dalle miserie
della vita fu costretto ad allontanarsene o a perderlo. «A ogni uccello il suo nido è
bello!» Oh i proverbii di Padron 'Ntoni, per cui gli uomini son fatti come le dita della
mano! Oh la casa del Nespolo, indimenticabile! e tutte le pene per riscattarla, per poi
morirne lontano, in un albergo dei poveri in città, con gli occhi sempre alla porta per
vedere se qualcuno entrasse per portarselo via, là dove, non potendo piú vivere, voleva
almeno morire! E ciò che forma la tristezza piú grande di Mastro don Gesualdo è il suo
morire come un cane nel palazzo della figlia, lui che per far la roba non s'era mai
dato un momento di requie!
Ma don Gesualdo Motta non vale Padron
'Ntoni Malavoglia. Il suo romanzo si mostra un po' costruito d'elementi che visibilmente
si riportano attorno a lui, senza quella compatta e schietta naturalezza del primo
romanzo, tanto piú mirabile e quasi prodigiosa, in quanto non si sa come risulti cosí
fusa attorno a quella casa del Nespolo tutta la vita di quel borgo di mare e come venga
fuori senza intreccio e pieno di tanta passione il romanzo in cui le vicende sembrano a
caso.
E non è da dire che tutto questo non sia
voluto, perché era nell'aspirazione e dunque nell'intenzione dello scrittore, se,
dedicando a Salvatore Farina la novella L'amante di Gramigna nella Vita dei
campi, scriveva che il trionfo del romanzo si sarebbe raggiunto «allorché
l'affinità e la coesione di ogni sua parte sarà cosí completa che il processo della
creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane; e che l'armonia
delle sue forme sarà cosí perfetta, la sincerità della sua realtà cosí evidente, il
suo modo e la sua ragione di essere cosí necessarie, che la mano dell'artista rimarrà
assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l'impronta dell'avvenimento reale e l'opera
d'arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come
un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore... ch'essa stia
per ragion propria, pel solo fatto che è come dev'essere ed è necessario che sia,
palpitante di vita ed immutabile al pari di una statua di bronzo, di cui l'autore abbia
avuto il coraggio divino di eclissarsi e sparire nella sua opera immortale».
L'aspirazione divenne realtà nei Malavoglia.
Il segreto del prodigio è nella visione totale dell'autore, che dà a quanto appare
sparso e a caso nell'opera quell'intima vitale unità che non domina mai da fuori, ma si
trasfonde e vive nei singoli attori del dramma, i quali, sí, son tanti, ma si conoscono
tutti e ciascuno sa tutto dell'altro e del piccolo borgo intende ogni aspetto e ogni voce,
se suona una campana, da qual chiesa suoni, un grido, chi ha gridato e perché ha gridato,
legati tutti da ogni piccola vicenda che si fa subito comune.
Cosí, da un capo all'altro, per tanti
fili, che non sono di questo o di quel personaggio, ma che partono da quella necessità
fatale dominante, l'opera d'arte si tiene tutta, meravigliosamente, con quello scoglio,
con quel mare, con l'antica dirittura solenne di quel vecchio uomo di mare, in una
primitività quasi omerica, ma su cui incombe quasi un senso della fatalità dell'antica
tragedia, se la rovina di uno è la rovina di tutti, e con l'ammonimento che ne emana, tra
la pietà sbigottita per la sorte dei vinti. I vinti! Siamo un po' tutti noi, sempre,
nella concezione del Verga che, al lume di quel suo triste pensiero, si fa veramente
totale.
L'arte di Giovanni Verga dimostra a chi
è tutto in una superficiale e vivace sensibilità, che s'offende di nulla e nulla
sopporta e subito grida e sa farsi valere, che essa sia in fondo, e da che provenga,
quella che sembra istintività selvaggia e inconsulta impulsività. Quando si ha molto
sofferto e tutto sopportato, basta un nulla, la goccia proverbiale a far traboccare il
vaso. E allora chi è abituato a gridare per nulla e non sopporta nulla, ci accusa di
istintività e di impulsività, solo perché soffrendo e sopportando, fino a tanto che
n'eravamo capaci, abbiamo taciuto, e per quel che pare poi un punto, un'inezia, un futile
pretesto ma che era proprio il di piú, ci siamo ribellati: per forza con animo di vinti -
non dagli altri, vinti - ma dal nostro stesso sentimento che ha tutto sopportato e alla
fine non ne ha potuto piú.
Oggi piú che mai è nostra questa
concezione dei vinti che vive nell'opera immortale del nostro piú grande scrittore
contemporaneo.
Subiamo il triste destino degli uomini
che han vissuto l'atroce affanno e il tormento per una conquista, che non tanto gli altri
quanto i nostri animi stessi vogliono far vana; non per viltà, ma perché siamo abituati
a sopportare tutto e sappiamo soffrire con coraggiosa rassegnazione. Con cuore taciturno,
entro il poco che ci è dato, scaviamo in profondo. Ma bisogna che la misura, per quanto
capace, non si colmi.
Giovanni Verga, certo, non ha voluto
dimostrar questo con la sua grande arte, per un proposito estraneo all'arte stessa; ma
questo che emana dalla realtà viva e dolorosa di tutta la sua opera, questo che è il
sentimento suo, com'è di noi e di tutta la gente nostra, questo lo fa oggi piú che mai
nostro.
© 2000 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 22 marzo, 2001