Luigi Pirandello
Discorso alla Reale Accademia d'Italia
(1931)
È per me doppio
titolo d'onore l'essere stato due volte designato a celebrare Giovanni Verga e la sua
opera di scrittore: la prima volta, dalla città di Catania, quando in nome di tutta la
Sicilia volle solennemente festeggiarne l'ottantesimo compleanno; ora dalla Reale
Accademia d'Italia, la quale, partecipandomi la designazione unanime dei miei colleghi
della classe di lettere, ha tenuto a farmi sapere che per la mia parola anche il Governo
Nazionale intende tributare degne onoranze al grande scrittore siciliano.
È bene, è giusto, per il senso e il
valore che io annetto alla cosa, che il nuovo Governo d'Italia riconosca la gloria e onori
la virtú nuda e forte dell'arte di uno scrittore come Giovanni Verga.
Due tipi umani, che forse ogni popolo
esprime dal suo ceppo: i costruttori e i riadattatori, gli spiriti necessarii e gli esseri
di lusso, gli uni dotati d'uno «stile di cose», gli altri d'uno «stile di parole»; due
grandi famiglie o categorie di uomini che vivono contemporanei in seno a ogni nazione,
sono in Italia, forse piú che altrove, ben distinte e facilmente individuabili. Ma solo
per uno che conosca bene le cose nostre e sappia vederci addentro. Perché invece gli
osservatori disattenti, italiani o stranieri che siano, restano facilmente ingannati dal
rumore, dalla pompa, dalla ricchezza delle manifestazioni di quelli che ho chiamati
«dallo stile di parole», e credono che in Italia esistano soltanto questi. È molto
facile ingannarsi e pensare cosí, perché, prima di tutto, questi tali sono di gran lunga
piú numerosi e piú comunicativi e piú accessibili; e poi perché veramente l'Italia
pare fatta apposta per loro, per dar risalto, colore, significato a quelle loro
manifestazioni doviziose, i bei gesti, le belle parole, e le passioni decorative, e le
rievocazioni solenni. Tanto che ripensando all'Italia, alle sue bellezze naturali, alle
sue tradizioni, è quasi impossibile, specie per uno straniero, non raffigurarsi
gl'Italiani tutti perduti a vivere nei sensi, ebbri di sole, di luce, di colori, ebbri di
canzoni e tutti sonatori di facili strumenti, un po' avventurieri, un po' attori, fatti
per l'amore e per il lusso anche se miserabili; e i loro uomini rappresentativi,
immaginosi letterati dal linguaggio sonoro, e magnifici decoratori, e rievocatori delle
glorie passate; un popolo che viva della felicità d'una natura deliziosa e della dignità
del suo grande passato: ne viva e ci riprenda anche le spese, come in un giuoco o in una
fantasmagoria, in cui le cose siano di sogno e le necessità non esistano e tutto sia
facile e fatto, e niente difficile e da fare.
Naturalmente, non è cosí. Ci sono in
Italia anche gli altri quelli che appajono di meno e giovano di piú: quelli che ho
chiamati «dallo stile di cose».
Nei primi le cose non tanto valgono per
sé quanto per come sono dette, e appare sempre il letterato o il seduttore o l'attore che
vuol far vedere com'è bravo a dirvele, anche quando non si scopra. In questi altri, la
parola che pone la cosa, e per parola non vuol valere se non in quanto serve a esprimere
la cosa, per modo che tra la cosa e chi deve vederla, essa, come parola, sparisca, e stia
lí, non parola, ma la cosa stessa. E là dunque un'architettura appariscente di sapienti
parole musicali, che vogliono avere un valore per sé, oltre quello della cosa
significata, ma che alla fine, poiché ci sentite la bravura, vi saziano e vi stancano.
Mentre qua una costruzione da dentro, le cose che nascono e vi si pongono davanti sí che
voi ci camminate in mezzo, vi respirate dentro, le toccate: pietre, carne, quelle foglie,
quegli occhi, quell'acqua.
Lungo tutto il cammino della nostra
letteratura corrono ben distinte e quasi parallele queste due categorie di scrittori e
possiamo seguirle, accanto e opposte, dalle origini ai nostri giorni: Dante e Petrarca;
Machiavelli e Guicciardini; l'Ariosto e il Tasso; il Manzoni e il Monti; Verga e
D'Annunzio.
Se pensiamo che Dante muore in esilio e
il Petrarca è incoronato in Campidoglio, che Machiavelli finisce com'egli stesso si
descrive in una lettera famosa; che l'Ariosto è fatto di poeta «cavallaro», mentre solo
la follía toglie i beneficii della fortuna al Tasso, che tuttavia alla fine è proposto
anche lui al sommo onore dell'incoronazione in Campidoglio; se pensiamo che da una
delusione è accolto il primo apparire dei Promessi Sposi e che il Leopardi passa di vita
quasi ignorato, quando si sa a quali venturosi onori pervenne il Monti, dobbiamo convenire
che in questa nostra Italia d'immaginazioni storiche, di prodigiosa ricchezza in
dolcissime e forti e piene sonorità verbali e di bellezze formali purissime e di
magnificenze naturali, in questa nostra Italia miracolo di sensi e di valori ha piú
diritto di cittadinanza chi sa dire piú parole che cose; dobbiamo convenire che può
riuscire perfino crudele, troppo difficile, insopportabile, lo sforzo lucido che deve
durare chi voglia esprimere nudamente delineando le dure sagome delle cose da dire: cose e
non parole, cose prepotenti che esigano da noi un assoluto rispetto per la loro nuda
verginità.
Ma a chi sa durar questo sforzo - passano
gli anni, passano anche i secoli - si ritorna. A Dante, sempre, si ritorna. Si ritorna a
Machiavelli. Si ritorna all'Ariosto. Si ritorna al Leopardi e al Manzoni. E si ritorna a
Giovanni Verga.
Il Governo d'Italia perciò fa bene ad
onorare oggi con questa celebrazione l'arte di Giovanni Verga, a cui i giovani (ed era
inevitabile) ritornano, sazii e stanchi di quella troppa letteratura che era tornata a
dilagare in Italia per colpa di chi non aveva saputo vedere nel Leopardi e nel Manzoni i
due grandi filtri che avevano purgato la poesia e la prosa italiane dalla secolare
retorica.
Dove non c'è la cosa, ma le parole che
la dicono, dove vogliamo esser noi per come la diciamo, c'è, non la creazione, ma la
letteratura, e anche, letterariamente, non l'arte ma l'avventura, una bella avventura, che
si vuol vivere scrivendola, o che si vuol vivere per scriverla.
Non ne è esente lo stesso Verga giovane,
nella sua prima opera che è appunto lo sfogo delle sue sentimentalità romantiche e
sensuali; mondo composto esteriormente e - ciò che può sembrare un paradosso - fuori
d'ogni sentimento diretto, non perché questo sentimento non fosse allora vero e suo, anzi
perché lo era troppo e non riusciva a investire da dentro una realtà che voleva esser
veduta, cioè posta fuori, in un personaggio, in quel personaggio appunto della sua
aspirazione romanzesca. C'era insomma l'ambizione di viverli, questi romanzi, scrivendoli,
e non poteva seguirne che l'artificio: il torbido di quelle aspirazioni, facendo impeto al
filtro dell'arte e ingorgandosi, non riusciva a purificarsi.
Ma fu un'esperienza necessaria per la sua
natura appassionata, che tentava d'incarnarsi nell'arte, che cercava il suo romanzo, e
cominciava col foggiarselo artificialmente, campato in aspirazioni di gusto francese.
Tutte queste scorie romantiche bisognava che bruciassero, perché l'oro poi riuscisse a
colar puro; bisognava che il Verga arrivasse a quella conclusione della sua opera
giovanile che si legge nel romanzo Eros: «Tutta la scienza della vita sta nel
semplificare le umane passioni e nel ridurle alle proporzioni naturali». Vale a dire, nel
poco da scavare in profondo, perché la quercia tanto piú si radichi quanto piú alta e
ferrigna si leverà nel sole, anziché nel vasto da coltivar superficialmente perché vi
spuntino appena piante d'una sola stagione che il minimo soffio abbatterà. Bisognava,
insomma, che il fuoco dell'arte - bruciate quelle scorie - investisse lui nel profondo
della materia viva.
Ma quando questo avvenne, quando il Verga
finí di vivere la sua avventura e cominciò il suo vero travaglio creativo, l'opera che
ne nacque cessò d'avere ogni risonanza e rimase come sorda in un tempo che già
cominciava a risuonar tutto di una ben altra prestigiosa avventura letteraria, la quale
prese e tenne per tanti anni gli animi in un abbaglio fascinoso: quella d'un uomo adatto e
magnifico, nato appunto per l'avventura, cosí nell'arte come nella vita, e in tal
confusione d'arte e di vita da non potersi dire quanta della sua arte sia nella sua vita,
e quanta della sua vita nella sua arte: una tal confusione salvando nel solo modo con cui
era possibile, cioè sotto il lussuoso paludamento d'una continua letteratura. Ho detto
Gabriele d'Annunzio.
Giovanni Verga è il piú «antiletterario» degli scrittori.
Non era possibile che in un tempo tutto
echeggiante di quella nuova e grande avventura letteraria avesse se non una mediocre
risonanza l'opera e l'arte di Giovanni Verga, che è la piú antitetica che si possa
immaginare. Là tutto il volubile delle opportunità propizie, qua la statica monotonia
d'uno scoraggiamento disperato e rassegnato; là la pomposa opulenza non solo d'una prosa
tutta tumida polpa con sapienza colorita, ma anche opulenza materiale di cose
rappresentate, ville e ozii e smanie e superbi orgogli di signori; qua asciutta magrezza e
povertà nuda di parole e di cose, la piazza sempre quella e le vecchie case d'un umile
villaggio, il mare (ma non il poetico divino mare) il mare avaro e crudele dei pescatori,
e deserte campagne infestate dalla malaria, e gli stenti, i bisogni, le passioni chiuse,
originali e sospettose di un'infima gente che vuol salire, o che è già salita e ne ha
l'affanno che le vieta non solo il riposo, ma ogni consolazione.
Guardiamo ancora quelle due discendenze o
categorie di scrittori, accanto e opposte, anche per ciò che si riferisce alla famosa
eterna questione della lingua, veduta come si è vista sempre esteriormente e non come
creazione. Negli uni è la lingua come si compone, scritta: «letteraria»; negli altri
tutti, un sapore idiotico, dialettale, a cominciare da Dante, che nei dialetti appunto, e
non in questo o in quello, vedeva risiedere il volgare. Tutta la piú doviziosa lingua
letteraria è in D'Annunzio; e dialettale è il Verga. Dialettale, sí, ma come è proprio
che si sia dialettali in una nazione che vive della varia vita e dunque nel vario
linguaggio delle sue molte regioni. Questa < dialettalità» del Verga è una vera
creazione di forma, da non considerare perciò al modo usato, come a questione di
lingua», notandone lo stampo sintattico spesso prettamente siciliano, e tutti gli
idiotismi.
Qua «idiotico» vuol dire «proprio». La vita d'una regione nella realtà che il Verga
le diede, come la vide, come in lui s'atteggiò e si mosse, vale a dire come in lui si
volle, non poteva esprimersi altrimenti: quella lingua è la sua stessa creazione. E non
è difetto degli scrittori italiani, né povertà, ma anzi pregio e ricchezza per la loro
letteratura, se essi creano nella lingua la regione.
Potrà forse interessare la testimonianza
diretta d'uno come me che da giovane si trovò presente alle appassionate discussioni che
durante la maturità artistica di Giovanni Verga si fecero su certe vedute estetiche,
scuole e metodi d'arte, concetti d'evoluzione di forma e forme letterarie; interessare,
non tanto per cose che io abbia da dire che non siano già note a chi conosca la storia
delle ultime nostre vicende letterarie: ma perché mi trovai accanto in quegli anni, anzi
nell'intimità della piú cordiale amicizia, con Luigi Capuana, che della scuola a cui il
Verga appartenne e del metodo che il Verga segui, e della ragione, anzi necessità
d'adottarli per tentare una narrazione, non piú storica, ma contemporanea, e dei frutti
ch'essi diedero in Francia e poi in Italia, e segnatamente dell'opera del suo amico
fraterno e compagno di lavoro, fu strenuo e infaticabile difensore.
Non so con quanta coerenza fu lodato il
Capuana per il suo valore e le sue benemerenze di critico, e specialmente per il bene che
tece rischiarando il cammino dell'arte a Giovanni Verga, mentre poi quei suoi lumi critici
appunto furono denunziati come prima radice del suo fallimento di scrittore. È una grande
ingiustizia, e, per chi amò Luigi Capuana, una grande amarezza. Io lo ricordo qui, al
contrario, per dire delle deficienze della sua critica e del valore della sua arte, di cui
fanno testimonianza imperitura tante mirabili novelle paesane e tante pagine di pura
bellezza nel Marchese di Roccaverdina e in Profumo.
Il Capuana espose le ragioni per cui,
volendo fare una narrazione di vicende e di passioni non del passato ma del presente,
credette imprescindibile, in mancanza di modelli nostrani, rivolgersi alla Francia, dove
le due forme del romanzo e della novella, dopo una lunga elaborazione, avevano dato gli
ultimi esemplari. E parlò spesso delle tormentose ricerche d'una «prosa viva» che
potesse esprimere le «quasi impercettibili sfumature del pensiero moderno». E fino
all'ultimo s'affannò a sostenere la cosí detta «impersonalità» nella narrazione e
l'oggettività nell'arte narrativa.
Il Verga, che fino al romanzo Eros
aveva seguito le vecchie forme narrative romantiche, un po' rammodernate, secondo il gusto
e il tono d'una certa moda letteraria francese, fece sue alla fine le idee e suoi i
propositi artistici del Capuana.
Ma parlare di tradizione in arte, come di
qualche cosa da cui l'opera d'arte dipenda e senza la quale sia, se non proprio
impossibile, assai difficile che nasca, è - come si fa di solito -porre male una
questione, che va posta e - per conseguenza - risolta altrimenti. Ogni vera opera d'arte
è e dev'essere «unica», e dunque senza modelli. Non esiste per se stessa in astratto
una forma «romanzo» o una forma «novella» che da sé, qua e là, e qua meno e là
piú, si evolvano; bensí quei tali romanzi, quelle tali novelle, ciascuno e ciascuna con
la sua forma propria, da non potersi confondere con altre, se veramente opere d'arte.
Considerando per sé le forme e indicando i modelli e prescrivendo le regole e il metodo
con cui quelle narrazioni dovevano esser condotte, si veniva a cadere nello stesso errore
intellettualistico della retorica, che consisteva appunto in questo, come anche nella
ricerca esteriore dell'espressione, quasi che il linguaggio fosse qualcosa da cercar fuori
per rendere ciò che ci sta dentro e non qualcosa che si formi in noi col pensiero stesso
e che è anzi il pensiero stesso che si vede in noi chiaro in tutte le sue parti; e quasi
che, del resto, noi non avessimo già in casa nostra l'esempio d'una prosa viva, efficace,
benché adoperata in una narrazione del passato, atta a rendere le piú lievi e riposte
pieghe della passione e del pensiero, nei Promessi Sposi del Manzoni: prosa uscita
dal tormento d'una triplice elaborazione. La questione infine della famosa
«impersonalità» o dell'oggettivismo nell'arte narrativa non ci voleva molto a vedere
che si riduceva a nient'altro che a un diverso atteggiamento dello spirito nell'atto della
rappresentazione, poiché l'arte, come coscienza del soggetto, non può esser mai
oggettiva se non a patto di porre ciò che è creazione nostra, fuori di noi, come se non
fosse appunto nostra, ma una realtà per sé che noi dovessimo solamente ritrarre con
fedeltà, senz'affatto mostrare di parteciparvi, insomma da spettatori diligenti e
spassionati.
Come tutti i critici del verismo, il
Capuana cadde in fondo per mancanza di discernimento estetico nello stesso errore, per cui
il Manzoni aveva prima condannato il suo capolavoro: con la sola differenza che il Manzoni
aberrò esteticamente per uno scrupolo verso la storia, mentre il Capuana e i naturalisti
per uno scrupolo verso la scienza, qual'era intesa ai loro giorni.
Mostrare o non mostrare coscienza della
propria creazione: è tutto qui; atteggiarsi liricamente, cioè attraverso gli elementi
soggettivi dello spirito: il sentimento e la volontà; o atteggiarsi storicamente, cioè
attraverso l'elemento oggettivo: l'intelletto. L'opera d'arte perfetta è rarissima
perché assai di raro avviene che tutto lo spirito nei suoi varii elementi accordati
all'unisono, lavori senza il prevalere di questo su quello, come sempre avviene in un
tempo o nell'altro, per azioni e reazioni improvvise. E sempre, difatti, dietro o accanto
a ogni movimento letterario abbiamo un diverso orientarsi del pensiero filosofico; e come
per reazione all'intellettualismo che ebbe la sua poetica nel classicismo, irrompono i due
elementi soggettivi conculcati, il sentimento e la volontà, naturalmente disordinati e
ciechi perché ribelli a ogni lume d'intelletto, elementi che avranno la loro poetica nel
romanticismo; cosí piú tardi, per reazione all'idealismo romantico avremo il
materialismo e il positivismo sperimentale che troveranno la loro poetica nel naturalismo
letterario, che si propone di darci «documenti umani» e «pezzi di vita» e di annegare
l'arte nella scienza. Avremo reazione anche a questo; e per meno - in un certo senso - il
Fogazzaro, e per assai piú in altro senso il D'Annunzio, vogliono essere, piú che in
realtà non siano, i campioni di questa reazione. E ora si ritorna, sazii e stanchi di
forme concluse e troppo sonore, ai frammenti puri, ai «pezzi di vita»; si ritorna
umiliati alla grande arte del Verga, il quale per sua ventura ebbe per queste cose scarso
intelletto e si valse di quello del Capuana solo per quel tanto che gli occorse a veder
chiara tutta quella solidità elementare che il sentimento originario della sua terra gli
poneva, la sua materia viva, e facendo che ad essa la sua volontà ritemprata, potente e
schietta aderisse perfettamente. Sbaglia chi crede che l'opera della maturità di Giovanni
Verga fu condotta premeditatamente secondo un metodo artistico suggerito da altri e
importato da una scuola straniera, senza che si fosse naturalmente generata in lui, sua
materia viva. Quel metodo non fu per il Verga della scuola naturalista francese, ma per
naturale diritto suo, perché sua intima legge, vale a dire libero e spontaneo movimento
di un'immagine di vita ch'era dentro di lui e che per questo movimento proprio e spontaneo
(che è la vera tecnica, da intendere appunto come immediato movimento della forma) doveva
venir fuori. Tanto è vero questo, che ormai, a tanta distanza di tempo, l'opera vive
intera e perfetta, in tutti i suoi elementi proprii, unici, che tra sé si tengono a
vicenda meravigliosamente e a vicenda cooperano a formare un corpo vivo, senza che per
nessuno si possa pensare che sia cosí per ubbidire a canoni che non ricordiamo neanche
piú quali fossero, della scuola naturalista francese.
I siciliani, quasi tutti, hanno
un'istintiva paura della vita, per cui si chiudono in sé, appartati, contenti del poco,
purché dia loro sicurezza. Avvertono con diffidenza il contrasto tra il loro animo chiuso
e la natura intorno aperta, chiara di sole, e piú si chiudono in sé, perché di
quest'aperto, che da ogni parte è il mare che li isola, cioè che li taglia fuori e li fa
soli, diffidano, e ognuno è e si fa isola da sé, e da sé si gode - ma appena, se l'ha -
la sua poca gioja; da sé, taciturno, senza cercare conforti, si soffre il suo dolore,
spesso disperato.
Ma ci sono quelli che evadono, quelli che
passano non solo materialmente il mare, ma che, bravando quell'istintiva paura, si tolgono
(o credono di togliersi) da quel loro poco e profondo, che li fa isole a sé, e vanno,
ambiziosi di vita, ove una certa loro fantastica sensualità li porta, spassionandosi o
piuttosto soffocando e tradendo la loro vera riposta passione con quell'ambizione di vita
effimera.
Il Verga, giovane, è uno di questi. E
dunque, non veramente appassionato in principio e neanche austero, come si è voluto
definire. Austero, anzi, propriamente, o meglio, in un certo senso moralistico, non sarà
mai, né per quel che pensa della vita, né per quel che sente, come ognuno che veda e
scusi le opposte passioni e riconosca sempre le ragioni degli altri.
Fu detto anche che il Verga «vede nella realtà il mondo quale esso è, e si spiega che
non può essere diverso da quello che è».
Non so che senso abbia un simile giudizio.
Il mondo non è per se stesso in nessuna
realtà se non gliela diamo noi; e dunque, poiché gliel'abbiamo data noi, è naturale che
ci spieghiamo che non possa essere diverso. Bisognerebbe diffidare di noi stessi, della
realtà del mondo posta da noi. Per sua fortuna il Verga non ne diffida; e perciò appunto
non è né può essere, nel senso vero e proprio della parola, un umorista.
Bisogna intendersi bene su tutto questo,
che è il punto fondamentale per una scuola come la naturalista che intendeva escludere la
«personalità» dello scrittore nella rappresentazione di un preteso «vero».
Sono in fondo una medesima finzione
quella dell'arte e quella che a noi tutti viene dai nostri sensi.
Pur non di meno, noi chiamiamo «vera»
la rappresentazione dei nostri sensi, e «finta» quella dell'arte. Ma, se ben guardiamo,
tra l'una e l'altra, non è mai però questione di «realtà», bensí di «volontà», e
solo in quanto la finzione dell'arte è sempre «voluta» - voluta non nel senso che sia
procacciata con la volontà per un fine estraneo a se stessa; ma voluta per sé e per sé
amata disinteressatamente; mentre la rappresentazione dei nostri sensi non sta a noi
volerla o non volerla: si ha, come e in quanto si hanno i sensi. E quella, dunque, è
libera; e questa no. E l'una è dunque immagine o forma di sensazioni; mentre l'altra -
quella dell'arte - è creazione di forma. Il fatto estetico effettivamente comincia solo
quando una rappresentazione acquisti in noi «per se stessa» una volontà, cioè quando
essa «si voglia» in sé e per se stessa, provocando, per questo solo fatto «che si
vuole», il movimento atto a effettuarla fuori di noi. Se la rappresentazione non ha in
sé questa volontà, che è - come ho già detto - il movimento stesso dell'immagine, essa
è soltanto un fatto psichico comune: l'immagine non voluta per se stessa; fatto
spirituale-meccanico, in quanto non sta a noi volerla o non volerla: si ha in quanto
risponde in noi a una sensazione.
Abbiamo tutti, chi piú chi meno, una
volontà che provoca in noi quei movimenti atti a creare la nostra propria vita. Questa
creazione che ciascuno fa di sé a se stesso, ha anch'essa bisogno di tutte le attività e
funzioni dello spirito, cioè d'intelletto e di fantasia, oltre che di volontà; e chi
piú ne ha e piú ne mette in opera, riesce a creare a se stesso una piú alta e piú
vasta e forte vita. La differenza tra questa creazione e quella dell'arte è solo in
questo (che fa appunto comune l'una e non comune l'altra) che quella è «interessata» e
questa «disinteressata», il che vuol dire che l'una ha un fine di pratica utilità,
l'altra non ha alcun fine che in se stessa; l'una, è voluta per qualche cosa: l'altra si
vuole per se stessa. E una prova di questo si può avere nella frase che ciascuno di noi
suol ripetere ogni qual volta, per disgrazia, contro ogni nostra aspettativa il fine
pratico a cui tendevamo, i nostri interessi siano stati frustrati: «Ho lavorato per amore
dell'arte».
E il tono con cui si ripete questa frase
ci spiega la ragione per cui la maggioranza degli uomini, che lavorano per fini di pratica
utilità e che non intendono la volontà disinteressata, suol chiamare matti i
poeti, quelli cioè in cui la rappresensazione si vuole senz'altro fine che in se
medesima, e tale essi la vogliono, quale essa si vuole.
In questo totale disinteresse, e non in altro, può consistere la «impersonalità» dello
scrittore nella realtà da lui creata. In tutto il resto è lui, sempre, per forza, e
tanto piú, starei per dire, quanto meno si scopre.
Perché realtà non esiste se non nei sentimenti che ce la compongono. La vivremmo
ciecamente, se a ciascuno il lume dell'intelletto, o piú o meno, secondo i casi o i
temperamenti, non ce la rischiarasse. Composta dai nostri sentimenti - com'ha bisogno
dell'intelletto per esser veduta - cosí ha bisogno della volontà per muoversi in noi,
per noi e con noi.
L'arte è arte, perché ciò che è realtà, vale a dire appunto questa composizione dei
nostri sentimenti, rischiarata dal nostro intelletto e mossa dalla nostra volontà, cosa
infinitamente varia e continuamente mutevole, condizionata com'è sempre nella sua
molteplicità di spazio e di tempo, è invece fissata per sempre dalla fantasia in un
momento o in piú momenti essenziali, fuori di questo molteplice (fuori dunque dello
spazio e del tempo) - eterna e una - ma non nell'assoluto di un'astrazione, bensí eterna
perché di tutti i tempi, e una perché quella, che ha vita nel consenso di tutti e
in tutti, naturalmente, in un suo particolar modo: liberata da tutto ciò che è comune,
ovvio, caduco, da tutti gli ostacoli, che, nella creazione della nostra propria vita,
spesso ci distraggono, ci contrariano, ci deformano.
Non bisogna dunque dire che uno
scrittore, quale il Capuana lo voleva, quale per lui era il Verga, e poteva anche essere
ogni altro scrittore, al pari di lui impersonale, il Flaubert, lo Zola, il Maupassant, il
Capuana stesso, «veda il mondo qual'esso è nella realtà e si spieghi che non
può essere diverso da quello che è» - ma bisogna invece vedere quali sentimenti pongano
a questo o a quello scrittore, al Verga nel caso nostro, la sua realtà, la realtà del
suo mondo, con quale intelletto egli se la rischiari, con qual volontà la muova.
Ora il Verga - quale naturalmente si
condiziona nella storia del suo tempo, cioè per quel suo particolar modo d'essere come
poteva e doveva generarsi in lui nel suo tempo e col suo tempo - non ha una fede attiva,
una norma direttiva nella vita, e non la cerca nemmeno, perché crede che non ci sia. Ce
l'ha in fondo nascosta; ma è per il sentimento - e dunque oscura - non per il pensiero.
La norma affettiva: degli affetti immediati: la famiglia, la sua terra, i costumi della
sua gente, gli interessi, le passioni di essa. E qui difatti soltanto egli riesce a porre
a se stesso una realtà. Non crea dunque ideologicamente un mondo, non riesce cioè
a ordinarlo secondo una sua idea, da fuori, in una realtà che egli possa o sappia dargli
superandolo, cioè a dire superandosi. Lo accetta in quella realtà oscura che a volta a
volta gli pone il suo sentimento, da dentro, e dice ch'essa è cosí perché è cosí. E
per forza il sentimento in questo suo porsi a caso e senza lume s'intristisce sempre piú
e si logora a mano a mano, come un meccanismo governato da un'angosciosa fatalità. Egli
rappresenta il consistere quasi fatale di questi sentimenti in realtà che non possono
esser che quelle, perché il sentimento è quello ed è cosí - cosí triste, cosí
implacabilmente triste!
Ecco la Vita dei campi, ecco le Novelle rusticane, ecco Per le vie e Vagabondaggio,
ecco I Malavoglia e Mastro don Gesualdo. Eppure parve al Verga che le
inquietudini del pensiero vagabondo potessero quietarsi in lui dolcemente «nella pace
serena dei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione
in generazione», considerando come cose degne del maggior rispetto il tenace attaccamento
d'una povera gente allo scoglio sul quale la fortuna l'aveva fatta nascere, la
rassegnazione a una vita di stenti, la religione della famiglia che si riverbera sul
mestiere, sulla casa, e sui sassi che la circondano. Scorse invece come una fatale
necessità nelle tenaci affezioni dei deboli, nell'istinto che hanno i piccoli di
stringersi tra loro per resistere alle tempeste della vita, e cercò di decifrare il
dramma modesto e ignoto che sgomina gli attori plebei del suo capolavoro: I Malavoglia;
dramma il cui nodo, come egli stesso scrisse, consiste in questo: «che, allorquando uno
di quei piccoli vuole staccarsi dal gruppo per vaghezza dell'ignoto, o per brama di
meglio, o per curiosità di conoscere il mondo, il mondo da pesce vorace com'è se lo
ingoja, e i suoi prossimi con lui».
Questo è il pensiero che fa lume al suo
sentimento. Un ben triste lume. E il sentimento che è d'amore per quegli umili, per quei
deboli, per quelle povere cose, diventa per forza, a quel lume, passione, e la passione
tormento. Altro che dolce quietarsi! altro che pace serena! altro che sentimenti miti e
semplici in calme vicende inalterate di generazioni in generazioni! E un mondo, un povero
mondo di bisogni primi, di primi affetti, intimi, originarii, nudi, e nude cose, di
semplicità elementare, in preda a una necessità fatale. Egli per primo ne soffre, ma
subito quel lume gli fa riconoscere che non può essere che cosí e che non c'è via di
scampo in altra realtà che potrebbe esser diversa, a guardarla da un altro lato o da
sopra, o facendo che il sentimento dei personaggi a volte si rimiri anche di sfuggita
nello specchio d'una riflessione estranea, cioè dello stesso scrittore, come avviene
spesso in Manzoni. No: egli la guarda sempre, sempre da dentro, con gli occhi dei suoi
stessi personaggi, in una immedesimazione continua: e la realtà è quella sola, quale la
pongono i sentimenti di quei personaggi, implacabilmente, inesorabilmente quella. Non che
qualche volta non sia comica o non s'ironizzi per dir cosí da sé, nei commenti degli
altri attori della scena o nei contrasti, spesso crudeli, anche se goffi, della vita
provinciale o di campagna. Ma incombe sempre anche qui quella necessità che rende
malinconica anche l'ironia e triste la goffaggine, come in Malaria, come nel Reverendo,
come in Cos'è il Re o in Licciu Papa, e qua e là un po' da per tutto nelle
novelle e nei Malavoglia e in Mastro don Gesualdo. Bisogna farsi una ragione
di questa fatalità incombente, e guaj a chi non se la fa o non se la vuol fare: avrà il
danno e le beffe. E questa è la rassegnazione verghiana, che è cosí amara anch'essa.
Non «razionalità», dunque, che dà l'idea d'una rigidezza meccanica, ma rassegnazione
alla necessità fatale, che vince tutti, e non ammette che qualcuno le si ribelli.
Perciò Verga non è il Manzoni. Come il
Manzoni amò gli umili, ne rappresentò la vita; come il Manzoni, superstite per molti
anni alla sua opera di scrittore, ebbe la sorte invidiabile di poter esser sicuro della
vita imperitura di essa dopo averla saggiata al paragone di un lungo silenzio; ma come
diverso è il lume dell'uno, acceso dalla fede che consola e sostiene, da quello
dell'altro che riesce a mala pena a far meno amara, perché in certo qual modo confortata,
quella squallida rassegnazione alla fatalità incombente solo se si raccolga attorno al
focolare domestico, che per il Verga, come per tutti i siciliani, è sacro. Morte e
dannazione a chi vi attenta, morte e dannazione a chi lo tradisce, a chi se ne scorda. In
quasi tutta l'opera verghiana non c'è altro fulcro sacro che questo. Sempre attraverso
gli occhi dei suoi personaggi il Verga vi guarda con venerazione, con nostalgia, con
tenerezza, pieno di pietà per chi non poté averlo, per chi dalle miserie fu costretto ad
allontanarsene o a perderlo. «A ogni uccello il suo nido è bello!» Oh i proverbii di
Padron 'Ntoni Malavoglia, per cui gli uomini son fatti come le dita della mano! Oh casa
del Nespolo, indimenticabile! e tutte le pene per riscattarla, per poi morirne lontano, in
un albergo dei poveri in città, con gli occhi sempre alla porta per vedere se qualcuno
entri a riportarselo via, là dove, non potendo piú vivere, vuole almeno morire! E ciò
che forma la tristezza piú grande di Mastro don Gesualdo è il suo morire come un cane
nel palazzo della figlia, lui che «per far la roba» non s'era mai dato un momento di
requie.
Ma don Gesualdo Motta non vale Padron
'Ntoni Malavoglia, non perché la sua figura non si stagli potente in tutto il suo
rilievo, e i suoi casi, i suoi sentimenti, i suoi minimi atti, come del resto quelli degli
altri personaggi intorno a lui, non siano rappresentati con arte anche piú accorta; ma il
suo romanzo si mostra già costruito d'elementi che visibilmente si riportano attorno a
lui, senza quella compatta e schietta naturalezza del primo romanzo, tanto piú mirabile e
quasi prodigiosa, in quanto non si sa come risulti cosí fusa attorno a quella casa del
Nespolo tutta la vita di quel borgo di mare e come venga fuori senza intreccio e pieno di
tanta passione il romanzo in cui le vicende sembrano a caso.
E non è da dire che tutto questo non sia
voluto, perché era nell'aspirazione e dunque nell'intenzione dello scrittore, se,
dedicando a Salvatore Farina la novella L'amante di Gramigna nella Vita dei
campi, scriveva che il trionfo del romanzo si sarebbe raggiunto «allorché
l'affinità e la coesione di ogni sua parte sarà cosí completa che il processo della
creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane; e che l'armonia
delle sue forme sarà cosí perfetta, la sincerità della sua realtà cosí evidente, il
suo modo e la sua ragione di essere cosí necessarie, che la mano dell'artista rimarrà
assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l'impronta dell'avvenimento reale, e l'opera
d'arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come
un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore... ch'essa stia
per ragion propria, pel solo fatto che è come deve essere ed è necessario che sia,
palpitante di vita ed immutabile al pari d'una statua di bronzo di cui l'autore abbia
avuto il coraggio divino di eclissarsi e sparire nella sua opera immortale».
L'aspirazione divenne realtà nei Malavoglia.
Il segreto del prodigio è nella visione
totale dell'autore, che dà a quanto appare sparso e a caso nell'opera quell'intima vitale
unità che non domina mai da fuori, ma si trasfonde e vive nei singoli attori del dramma,
i quali, sí, son tanti, ma si conoscono tutti e ciascuno sa tutto dell'altro e del
piccolo borgo intende ogni aspetto e ogni voce, se suona una campana, da qual chiesa
suoni; un grido, chi ha gridato e perché ha gridato, legati tutti da ogni minima vicenda
che si fa subito comune.
Cosí da un capo all'altro, per tanti fili, che non sono di questo o di quel personaggio,
ma che partono da quella necessità fatale dominante, l'opera d'arte si tiene tutta,
meravigliosamente, con quello scoglio, con quel mare, con l'antica dirittura solenne di
quel vecchio uomo di mare, in una primitività quasi omerica, ma su cui incombe quasi un
senso della fatalità dell'antica tragedia, se la rovina di uno è la rovina di tutti; e
con l'ammonimento che ne emana, tra la pietà sbigottita per la sorte dei vinti.
Mirabile l'opera, ma piú mirabile ancora l'impegno onde essa nacque, con un suo stile
nuovo e necessario, che la fa viva per sempre come opera d'arte, e viva oggi piú che mai
come modello d'azione e di fede anche fuori d'ogni considerazione letteraria, come atto di
vita. Voglio dire l'impegno a cui, un certo momento, e forse quando piú egli s'era
allontanato e distratto dalle sue origini, il Verga si sentí prepotentemente chiamato,
con la voce della sua terra e di tutto ciò che v'era di religioso nel suo spirito, al
lavoro esigente, umile e triste d'esprimere le cose, che in certo senso vuol dire fare,
operare, e non piú desiderare e contemplare: le cose difficili, le cose quali sono per
noi, egli che aveva già vinto, nell'opinione degli altri, in quelle facili, quali erano
nel desiderio del pubblico d'allora.
Tutte le concezioni intellettuali della
vita che risultano da opere d'arte vanno valutate con giudizio: nulla è piú stolto che
il chiederne ragione all'artista in nome della vita pratica. E infatti, non la concezione
intellettuale della vita, che risulta da questa mirabile opera, giova a noi - concezione
che può apparire perfino deprimente, o almeno contraria all'animo nostro mutato e non
piú da vinti, quanto un'altra opposta può apparire consona ed esultante - ma giova a noi
lo stesso spogliarsi d'ogni superfluo per arrivare a vivere d'una realtà tutta da creare,
la stessa forza duramente operante, lo stesso richiamo alle origini, di cui il Verga ci
dà l'esempio; necessità fondamentali ed uniche cosí alla creazione d'una vera opera
d'arte come all'affermazione d'una personalità umana nella vita, come alla vita d'un
popolo: questo spogliarsi, questa forza costruttiva, questo richiamo alle origini che
aprono la via alla sola conquista necessaria agli uomini e ai popoli: la conquista del
proprio stile.
VARIANTE DELL'ESORDIO DEL DISCORSO ALL'ACCADEMIA
Uno studio molto
istruttivo, che condurrebbe a osservazioni e a considerazioni al tutto nuove e forse a
scoperte impensate, sarebbe da proporre a uno che volesse spiegarsi le ragioni per cui la
letteratura italiana, dopo il zoo, vale a dire dopo la famosa Arcadia che infestò con le
sue sciocche svenevolezze e la sua pastorelleria tutta quanta l'Europa, proprio quando
cominciò a guarire di questo male e a ritemprarsi col Parini e l'Alfieri, cessò d'avere
oltre i confini della patria quella risonanza universale che aveva sempre avuta, e fu
quasi tagliata fuori dalle correnti internazionali pur avendo scrittori degni d'essere
riconosciuti e onorati come sommi, per esempio nella lirica Leopardi, nella prora
narrativa Manzoni, e non parlo del Foscolo che li precedette e che pur visse e scrisse e
mori fuori di patria. Sono sí conosciuti in ogni nazione e pregiati dagli studiosi e dai
buoni intenditori, ma non universalmente noti come dovrebbero; cosicché è una pena per
un italiano che abbia coscienza dei valori d'arte espressi nelle varie letterature
d'Europa e del mondo non veder al porto che meritano e che a loro di diritto compete chi
.ceppe in pochi verri d'incomparabile bellezza esprimere come forse nessun poeta saprà
mai il sentimento dell'infinito, e chi seppe comporre una cosí vasta copia di sentimenti,
dai piú umili ai piú superbi, con tanta illuminata saggezza, umana e divina, in un
romanzo immortale. Pena, non per il Leopardi né per il Manzoni né per il Foscolo né per
gli altri che sono ormai beati per sempre nella bellezza delle loro espressioni compiute e
perfette; ma per gli uomini delle altre nazioni che non se ne possono beare; perché il
fatto che gli altri le ignorino non vuol mica dire che tali sommità sia nella lirica sia
nel romanzo o in altre forme d'arte non ci siano, ricchezza nostra e deplorevole povertà
di chi l'ignora.
Uno degli scrittori di romanzo piú
grandi che l'Italia abbia avuto, presso che ignoto all'estero e non noto certo neppure in
Italia, almeno quanto dovrebbe, è Giovanni Verga, di cui oggi vi parlerò.
Per l'Italia, in un certo senso, si
spiega.
Due tipi umani, ecc.
© 2000 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 22 marzo, 2001