Luigi Pirandello
I vecchi e i giovani
Parte II
V
A Girgenti, tutto
il popolo si accalcava nel vasto piano fuori Porta di Ponte, all'entrata della città, in
attesa che dalla stazione, giú in Val Sollano, arrivassero con le vetture di quella corsa
i resti (che si dicevano raccolti in una sola cassa) di Nicoletta Capolino e di Aurelio
Costa.
Sbalordimento, angoscia, ribrezzo
erano dipinti su tutti i volti per quell'efferato delitto, che da due giorni teneva in
subbuglio la città e tutta la provincia intorno. Era in tutti quegli occhi un'attenzione
intensa e dolorosa, un'ansietà guardinga di raccoglier nuove notizie di piú precisi
particolari e di non lasciarsi nulla sfuggire; perché nessuno era pago di quanto sapeva,
e tutti volevano vedere e quasi toccare con gli occhi, in quella cassa che si aspettava,
la prova che ciò che era avvenuto lontano, e che pareva per la sua ferocia incredibile,
era vero. Non avendo potuto assistere allo spettacolo di quella ferocia, volevano vedere
almeno, per quanto or ora sarebbe possibile, i miserandi effetti di essa.
Antiche ragioni, per una almeno
delle vittime; altre nuove che ora si divulgavano e accrescevano, tra lo stupore e la
pietà, il tragico dell'avvenimento, se trattenevano il rimpianto, non potevano impedir la
commiserazione per l'atrocità di quella morte, l'indignazione per l'infamia che si
riversava per essa su l'intera provincia.
Viva ancora davanti agli occhi di
tutti era l'immagine della bellissima donna, quando, altera, squisitamente abbigliata,
passava nella vettura del Salvo e chinava appena il capo per rispondere ai saluti con un
sorriso quasi di mesta compiacenza. Tutti vedevano entro di sé, con una strana nitidezza
di percezione, qualche particolarità viva del corpo o dell'espressione di lei, il bianco
dei denti appena trasparente tra il roseo delle labbra, in quel sorriso; il brillare degli
occhi tra le ciglia nere; e si domandavano, con una indefinibile inquietudine, chi avrebbe
potuto immaginare, allora, che dovesse esser questa la sua fine. Per lasciare, cosí d'un
tratto, gli agi e gli onori a cui, col Salvo amico e col marito deputato, era salita, e
prender la fuga con uno, al quale prima aveva ricusato d'unirsi in matrimonio, via, certo
il cervello doveva averle dato di volta. Ma forse per astio, ecco, per astio contro
Dianella Salvo che amava segretamente il Costa... Forse? E non si sapeva già che quella
poverina, appena avuta la notizia della fuga e di quel macello, era impazzita come la
madre? Dunque, dal tradimento quei due, da un'avventura che forse per uno solo di essi era
d'amore, e che già di per sé avrebbe suscitato tanto scandalo in paese, erano balzati a
quella morte. Ma come, perché si erano diretti ad Aragona dov'egli doveva sapersi
aspettato da quelle jene fameliche da tanti mesi per la chiusura delle zolfare del Salvo?
Ma perché alla volta di Girgenti, cosí fuggiti insieme, non potevano avviarsi. Quella
fuga, piú che in onta al marito, era in onta al Salvo, e perciò là appunto sera
volta, dove tutti erano contro il Salvo. Forse egli, il Costa, credeva, o almeno sperava
che, annunziando subito all'arrivo che anche lui si era ribellato al Salvo, quelli
dovessero accoglierlo come uno dei loro e non tenerlo piú responsabile delle mancate
promesse. E poi, lí, ad Aragona, aveva la casa; forse vi andava soltanto per prendere la
roba, gli strumenti del suo lavoro, i libri, col proposito di ripartirsene subito, di
ritornarsene in Sardegna al posto di prima. Sí; ma con la donna? doveva andar lí, tra
nemici, con la donna? Poteva almeno lasciar questa, prima, in qualche posto! Eh, ma forse
lei, lei stessa aveva voluto affrontare insieme il pericolo. Aveva animo fiero, quella
donna, e aveva saputo mostrarlo di fronte a quell'orda di selvaggi, levandosi in piedi su
la carrozza, a fare scudo del suo corpo ad Aurelio Costa, e gridando che questi per loro
sera licenziato dal Salvo, per le promesse non mantenute. Ma quel ribaldo di Marco
Prèola aveva levato la voce:
"Morte alla sgualdrina!"
E l'orda dei selvaggi, rimasta
dapprima come sbigottita dalla temerità superba di quella signora, aveva avuto un
fremito. Forse ancora Nicoletta Capolino sarebbe riuscita a dominarla, a farsi ascoltare,
se inconsultamente a quel grido di morte, a quell'ingiuria volgare, Aurelio Costa non
fosse balzato in difesa di lei, con l'arma in pugno. Allora la carrozza era stata
assaltata da ogni parte, e l'uno e l'altra, tempestati prima di coltellate, di martellate,
erano stramazzati, poi sbranati addirittura, come da una canea inferocita; anche la
carrozza, anche la carrozza era stata sconquassata, ridotta in pezzi; e, quando su la
catasta formata dai razzi delle ruote dagli sportelli, dai sedili, erano stati gettati i
miserandi resti irriconoscibili dei due corpi, sera visto uno versare su di essi da
un grosso lume d'ottone a spera, trafugato dalla vicina stazione ferroviaria, il petrolio,
e tanti e tanti con cupida ansia affannosa appiccare il fuoco, come per toglier subito ai
loro stessi occhi l'atroce vista di quello scempio.
Cosí, i particolari della strage
erano per minuto e quasi con voluttà d'orrore descritti e rappresentati, come se tutti vi
avessero assistito e la avessero ancora davanti agli occhi. Vedevano tutti quel bruto
insanguinato, che versava il petrolio da quella lampa d'ottone su le membra oscenamente
squarciate e ammucchiate su la catasta, e quegli altri chini e ansanti a suscitare il
fuoco.
Si sapeva che molti, piú di
sessanta, erano gli arrestati insieme con Marco Prèola, aborto di natura; prima, lancia
spezzata dei clericali; poi, presidente di quel fascio di solfaraj ad Aragona. Tra
breve, dunque, forse quel giorno stesso, un nuovo avvenimento spettacoloso: il trasporto
di tutti quei manigoldi, in catena, a due a due, dalla stazione al carcere di San Vito,
tra una scorta solenne di guardie, di carabinieri a cavallo e di soldati.
"Ecco, ecco intanto le
carrozze!" "Là, eccola!" "Dov'era la cassa?" "Uh, Come
piccola!" "Eccola là!" " Su la terza carrozza là, su quella che
aveva in serpe un maresciallo!" "Uh, capiva tutta sul sedile davanti!"
"Quella, quella cassetta là! quella cassettina di latta!" "Quella? che
nell'altro sedile c'era il commissario di polizia?" Sí, sí!" "E chi era
quell'altro accanto? Ah, Leonardo Costa! il padre! il padre!" "Ah, povero padre,
con quella cassetta là davanti!"
Un urlo di pietà, di raccapriccio
si levò da tutta la folla alla vista del padre che pareva impietrato in una espressione
di rabbia, ma come stupefatta nell'orrore; con gli occhi fissi su quella cassetta, quasi
chiedesse come poteva esser là il suo figliuolo, la sua colonna! Ma che poteva dunque
esser restato, del suo figliuolo, se due corpi, due, erano là, due? Le teste sole? Forse,
spiccate, sí, e qualche membro, arsicchiato. Oh Dio! oh Dio!"
E quasi tutti piangevano, e tanti
singhiozzavano forte.
Udendo quegli urli, quei singhiozzi,
Leonardo Costa, passando, levò un urlo anche lui, esalò la ferocia del suo cordoglio in
un ruglio che non aveva piú nulla di umano; poi sabbatté, si contorse, tra le
braccia del commissario di polizia.
La carrozza si fermò alla voltata
della piazza, dove sorge il palazzo della Prefettura, sede anche del commissariato di
polizia. Due guardie presero la cassetta; il cavalier Franco ajutò Leonardo Costa a
smontare. Il povero vecchio, per quanto massiccio, non si reggeva piú su le gambe;
un'orecchia gli sanguinava, perché alla stazione, in un impeto di rabbia, sera
strappato uno dei cerchietti d'oro. Altre guardie si schierarono davanti al portone, per
impedire alla folla d'invadere l'atrio del palazzo.
E la folla restò lí davanti,
irritata, delusa, insoddisfatta. Che sarebbe avvenuto adesso? Era tutto finito cosí?
Sarebbe rimasta lí, nel commissariato, quella cassetta? Non si farebbe il trasporto al
camposanto di Bonamorone? C'era lí la gentilizia della famiglia Spoto. Ormai piú nessuno
restava di quella famiglia. Per Aurelio Costa c'era il padre; per Nicoletta Capolino,
nessuno: non poteva esserci il marito; avrebbe potuto esserci il patrigno, don Salesio
Marullo; ma si sapeva che il poverino, abbandonato da tutti, era andato a cercar rifugio
per carità a Colimbètra, e si trovava lí da qualche mese, ammalato. Forse Leonardo
Costa reclamava per sé i resti del suo figliuolo, per trasportarli al camposanto di Porto
Empedocle; e ragioni giudiziarie si opponevano a questo suo desiderio.
La folla, a poco a poco, cominciò a
sbandarsi tra infiniti commenti.
Leonardo Costa voleva proprio ciò
che la folla aveva immaginato. Il commissario, cav. Franco, cercava di persuaderlo ad
avere un po' di pazienza, che prima tutte le pratiche giudiziarie fossero, come egli
diceva, esperite, là in ufficio... Ma sí, in giornata; dopo la visita del giudice
istruttore. Il Costa, come se non capisse, insisteva, ripetendo ostinatamente, con le
stesse parole, la richiesta pietosa. E il cavalier Franco, quantunque compreso di pietà
per quel povero padre, sbuffava, non ne poteva piú. Erano momenti terribili, per lui, e
non sapeva da qual parte voltarsi prima giacché da ogni canto della provincia, da tutta
la Sicilia, giungevano notizie di giorno in giorno piú gravi; pareva che da un istante
all'altro dovesse scoppiare una generale sommossa e il presidio delle milizie era scarso,
e piú scarso ancora quello di polizia.
Ma che voleva, che altro voleva
adesso quel benedett'uomo? Voleva... voleva che i resti di suo figlio - quali che fossero
- non rimanessero mescolati là con quelli della donna, di quella donna esecrata! Perché,
perché cosí insieme li avevano raccolti?
"Perché?" gli gridò.
"Ma che vi figurate che ci sia piú là dentro?"
E indicò la cassetta, deposta su
una tavola.
"Oh figlio!"
"Tutto quello che si è potuto
raccogliere, tra le fiamme. Niente! quasi niente!"
"Oh figlio!"
"Che volete piú scartare,
distinguere? Si arrivò troppo tardi. Alla stazione non c'erano guardie. Prima che
arrivasse il delegato d'Aragona, il fuoco... Niente, vi dico... qualche residuo
d'ossa..."
"Oh figlio!"
"Non si conosce piú nulla...
Sí, sí, pover'uomo, sí, piangete, piangete, che è meglio... Povero Costa, sí...
sí... È una cosa che... oh Dio, oh Dio, che cosa... sí, fa rinnegare l'umanità! Ma voi
pensate, per levarvi almeno questa spina dal cuore, pensate che lí non c'è... vostro
figlio lí non c'è: non c'è più niente lí... E del resto, poverino, pensate che quella
donna, se voi la odiate, egli la amò; e forse non gli dispiace adesso, che ciò che di
lui ci può essere là dentro, sia insieme, mescolato, coi resti di lei... Povera donna!
Avrà avuto i suoi torti, ma via, che sorte anche la sua!"
"No... no... lei... non
posso... non posso parlare... lei... a perdizione... mio figlio... lei! Ma non sapete,
signor commissario, che mio figlio era amato dalla figlia del principale? Si sa sicuro...
sicuro, questo... è impazzita quella povera figlia mia, come la mamma! È stata... è
stata tutta una macchina... Costei e quell'assassino del padre... che se la intendevano
tra loro... per rovinare questo figlio mio... per toglierlo all'amore di quella santa
creatura... Oh, signor commissario, legatemi, legatemi le braccia; signor commissario,
chiudetemi, chiudetemi in prigione, perché se io lo vedo, quell'assassino che mi ha fatto
morire il figlio cosí, io lo ammazzo, signor commissario, io non rispondo di me, lo
ammazzo! lo ammazzo!"
Il cavalier Franco intrecciò le
mani, le strinse, le scosse piú volte in aria:
"Ma vi pare," gli gridò
poi, con gli occhi sbarrati "vi pare, scusate, che io debba sentire simili
spropositi? Vi compatisco, siete arrabbiato dal dolore e non sapete piú quel che vi dite.
Ma perdio, vostro figlio, vostro figlio... in un momento come questo, che basta un
niente... una favilla, a mandare in fiamme tutta la Sicilia... non si contenta di prender
la fuga come un ragazzino con la moglie d'un deputato... ma va a cacciarsi da sé, là,
come a dire: "Eccoci qua, fateci a pezzi! Cercate l'esca? Eccola qua! Ci siamo
noi!" Perdio, bisogna esser pazzi, ciechi... io non so! Con chi ve la prendete? E noi
siamo qua a dover rispondere di tutto... anche d'una pazzia come questa! E per giunta, mi
tocca di sentire anche voi: - ammazzo! ammazzo! ammazzo! - Chi ammazzate? Credete
che il Salvo, se pur è vero tutto quel che voi farneticate, ha bisogno della vostra
punizione? Gli basta la pazzia della figlia!"
Il Costa, dopo questa sfuriata, non
ebbe piú ardire di parlar forte; lo guardò con gli occhi invetrati di lagrime; e si
morse un dito; mormorò:
"Se fosse capace di rimorso,
signor commissario! Ma non è!"
Il cavalier Franco si scrollò;
uscí dalla stanza.
"Andate, andate..." gli
disse dietro, il Costa; poi cauto, sappressò alla cassetta deposta su la tavola, e
si provò ad alzarla.
Un groppo di singulti muti, fitti,
nella gola e nel naso, gli scrollarono in convulsione la testa.
Non pesava, non pesava niente,
quella cassetta!
Singinocchiò davanti alla
tavola, appoggiò la fronte al freddo di quella latta, e si mise a gemere:
"Figlio!... figlio!...
figlio!..."
Due giorni dopo,
arrivò a Girgenti, inatteso, funebre, l'on. Ignazio Capolino.
La condizione, in cui lo aveva messo
non tanto forse la sciagura improvvisa quanto lo scatto violento per cui Dianella Salvo
aveva perduto la ragione, era cosí difficile e incerta, che egli aveva bisogno di
raccogliere a consulto, lí sul posto, tutte le sue forze per trovare una via da uscirne
in qualche modo, al piú presto. Lo scandalo della fuga della moglie era soffocato
nell'orrore della morte; il tragico, che spirava da questa morte, lo rendeva immune dal
ridicolo che poteva venirgli da quella fuga. Bastava dunque presentarsi ai suoi
concittadini compunto nell'aspetto, ma nello stesso tempo austeramente riservato, per
trarre profitto della commozione generale, senza tuttavia parteciparvi, giacché dalla
moglie era stato offeso. La simpatia degli altri doveva venirgli come giusto e meritato
compenso a questa offesa. E dovevano tutti vedere che egli soffriva, schiantato
dall'atrocissimo fatto, e che lui piú di tutti meritava compianto, poiché finanche dalle
due vittime tanto commiserate era stato offeso, cosí da non poter piangere, neanche
piangere ora la sua sciagura!
Eppure... come mai? Rientrando in
casa, in quella casa che le squisite e sapienti cure della moglie avevano reso cosí bene
adatta alla commedia di garbate e graziose menzogne, alla gara di compitezze ammirevoli,
nella quale entrambi avevano preso tanto gusto a esercitarsi perché la loro vita non
fosse troppo di scandalo agli altri, troppo disgustosa a loro stessi; e sentendo nel
silenzio cupo delle stanze, rimaste con tutti i mobili come in attesa, il vuoto, il vuoto
in cui dal primo momento della sciagura si vedeva perduto... - come mai? nell'aprir la
camera da letto e nell'avvertirvi affievolito, ma pur presente ancora, il voluttuoso
profumo di lei, ecco, per un irresistibile impeto che lo stordí per la sua
incoerenza, ma che pur gli piacque come un ristoro insperato di accorata tenerezza -
pianse, sí, pianse per il ricordo di lei, pianse per la prima volta dopo l'annunzio di
quella morte, pianse come non aveva mai pianto in vita sua, sentendo in quel pianto quasi
un dolore non suo, ma delle sue lagrime stesse che gli sgorgavano dagli occhi senza
chegli le volesse, ma, appunto perché non le voleva, con tanto sapor di dolcezza e
di refrigerio!
Non doveva però, no, no, non
doveva... perché... Si fermò un momento a considerare perché non avrebbe dovuto
piangerla. Non era stata forse la compagna sua necessaria e insurrogabile? la compagna
preziosa dei suoi sottili e complicati accorgimenti, la quale, correndo - più per sé,
forse, quella volta, che per lui - a un riparo a cui anchegli però l'aveva spinta -
era caduta? Sí, e cosí orribilmente, cosí orribilmente caduta! Eppure, no;
apparentemente, ecco, almeno apparentemente non doveva piangerla... Cosí in segreto sí,
anche perché quel pianto gli faceva bene, ora. Era restato solo; e da sé solo, ora,
doveva ajutarsi, difendersi; e non sapeva ancora, non vedeva come.
Piangendo, no, intanto, di certo!
E Capolino sorse in piedi; si portò
via, prima con le mani, poi a lungo, col fazzoletto, accuratamente, le lagrime dagli
occhi, dalle guance; si rimise le lenti cerchiate di tartaruga, e si presentò, fosco,
severo, aggrondato, allo specchio dell'armadio.
Dio, come il suo viso era sbattuto,
invecchiato in pochi giorni!
Il dolore? Che dolore? Non poteva
riconoscere d'aver provato dolore... se non forse or ora, un poco. Ma no, anche prima, in
fondo, aveva certo dovuto provarne uno e ben grande, se a Roma, all'annunzio della
sciagura, era stato accecato da quella rabbia che lo aveva scagliato su Dianella Salvo.
Doveva pentirsi di quello scatto?
Si era con esso attirato per sempre
l'odio, la nimicizia mortale del Salvo. Ma se pur fosse riuscito a reprimersi in quel
primo momento, a vietarsi la soddisfazione feroce di quella vendetta, che avrebbe
ottenuto? A lui, restato solo, senza piú la moglie, avrebbe forse Flaminio Salvo
seguitato a dare ajuto e sostegno, per il rimorso e la complicità segreta nel sacrifizio
di quella? Forse la figlia, già inferma, sarebbe impazzita anche senza quel suo scatto,
al solo annunzio della morte del Costa. E allora? Flaminio Salvo avrebbe creduto di pagare
già abbastanza con la pazzia della figliuola; e per lui non avrebbe avuto piú alcuna
considerazione; anzi lo avrebbe respinto da sé, come lo spettro del suo rimorso. Caso
pensato. Se poi Dianella non fosse impazzita e si fosse a poco a poco quietata, era uomo
Flaminio Salvo, avendo raggiunto lo scopo, da restar grato alla memoria di chi gliel'aveva
fatto raggiungere, a costo della propria vita; e, per essa, al marito, rimasto vedovo? Ma
se già, subito, per scrollarsi d'addosso ogni responsabilità, subito aveva gridato ai
quattro venti che Nicoletta Capolino e Aurelio Costa avevano preso la fuga e che il Costa
sera licenziato ed era andato dunque a morire per conto suo, ad Aragona, insieme con
l'amante! Sí: fuggita col Costa, sua moglie; ma chi l'aveva spinta a commettere questa
pazzia? Chi aveva spedito a Roma il Costa con la scusa di quel disegno da presentare al
Ministero? Chi aveva aizzato la gelosia, o piuttosto, il puntiglio di lei, facendole
balenare prossimo il matrimonio della figlia col Costa? Ed egli, Capolino, egli, il
marito, aveva dovuto prestarsi a tutte queste perfide manovre che dovevano condurre a una
tale tragedia; cosí, è vero? per restar poi abbandonato, senza piú alcuna ragione
d'ajuto, raccolto il frutto di tante scellerate perfidie! Ah, no, perdio! Di quel suo
scatto non doveva pentirsi. Se egli aveva perduto la moglie, e lui la figlia! Pari, e di
fronte l'uno all'altro. Ora il Salvo gli avrebbe soppresso ogni assegno. Toccava a lui,
dunque, di provvedere subito anche ai bisogni piú immediati. E ogni credito presso gli
altri, con l'amicizia del Salvo, gli veniva meno. Che fare? Come fare?
Cosí pensando, Capolino brancicava
con le dita irrequiete la medaglietta da deputato appesa alla catena dell'orologio. Aveva
per sé, ancora, il prestigio che gli veniva da quella medaglietta. Per ora, il Salvo non
poteva strappargliela dalla catena dell'orologio. E con essa, per uno che valeva, se non
piú, certo non meno del Salvo in paese, egli era ancora il deputato. Don Ippolito
Laurentano non avrebbe permesso, che colui che rappresentava alla Camera il paladino della
sua fede, si dibattesse tra meschine difficoltà materiali.
Ecco: subito, prima che Flaminio
Salvo arrivasse a Girgenti e si recasse a Colimbètra a preoccupare l'animo del principe
contro di lui, egli vi correrebbe e parlerebbe aperto a don Ippolito della perfidia di
colui. Dopo tanti mesi di convivenza con donna Adelaide, non doveva il principe essere in
animo da tenere piú tanto dalla parte del cognato; oltreché, in favor suo, egli avrebbe
in quel momento la commiserazione per la sua sciagura. Poteva, sí, contro a questa, il
Salvo porre in bilancia quella della propria figliuola; ma appunto su ciò egli andrebbe a
prevenire il principe, dimostrandogli che non lui, con quel suo scatto naturale e
legittimo, nella rabbia del cordoglio, era stato cagione di quella pazzia; ma il padre, il
padre stesso che con tanta violenza aveva voluto impedire che la figlia sposasse il Costa,
sacrificando costui e distruggendolo insieme con la moglie. Ora, per sgabellarsi d'ogni
rimorso, voleva gettar la colpa addosso a lui, e anche di lui sbarazzarsi, come già del
Costa e della moglie.
Ecco il piano! Ma né quel giorno,
né il giorno appresso, Capolino ebbe tempo di recarsi a Colimbètra ad attuarlo. Una
processione ininterrotta di visite lo trattenne in casa, con molta sua soddisfazione,
quantunque sapesse e vedesse chiaramente che piú per curiosità che per pietà di lui si
fosse mossa tutta quella gente, la quale certo, domani, a un cenno del Salvo, gli avrebbe
voltato le spalle. A ogni modo, andando dal principe, avrebbe potuto parlare di questo
solenne attestato di condoglianza e di simpatia dell'intera cittadinanza; oltreché, in
tanti animi che, per la commozione del tragico avvenimento, eran come un terreno ben
rimosso e preparato, poteva intanto seminar odio per il Salvo, cosí senza parere.
"Non me ne parlate, per
carità!" protestava, alterandosi in viso al minimo accenno. "Dovrei dir cose,
cose che... no, niente; per carità, non mi fate parlare..."
E se qualcuno, esitante, insisteva:
"Quella povera
figliuola..."
"La figliuola?" scattava.
- Ah, sí, povera, povera vittima anche lei! Non sopra tutte le altre, però, certo... Per
carità, non mi fate parlare...
Il salotto era pieno zeppo di gente
quando entrò il D'Ambrosio, quello che gli aveva fatto da testimonio nel duello col
Verònica e che era lontano parente di Nicoletta Spoto. Avvenne allora una scena che,
neanche se Capolino l'avesse preparata apposta, gli sarebbe riuscita piú favorevole.
Il D'Ambrosio entrò tutto gonfio di
commozione, e con le braccia protese. In piedi, tutti e due si abbracciarono in mezzo alla
stanza, si tennero stretti un pezzo piangendo forte. Forte, con la sua abituale irruenza,
parlò il D'Ambrosio, staccandosi dall'abbraccio:
"Dicono tutti, qua, che
Nicoletta mia cugina era la ganza di quell'imbecille del Costa: è vero? Tu puoi dirlo
meglio di tutti: è vero?"
Sbigottiti, gli astanti si volsero a
guatare il Capolino.
Questi cadde a sedere, come
trafitto, su la poltrona, con le braccia abbandonate su le gambe, e scosse amaramente il
capo. Poi, facendo un atto appena appena con le mani, parlò:
"Troppe... troppe cose dovrei
dire, che non posso... Anche la pietà, capirete... sí, sí... anche queste lacrime,
amici, mi bruciano! Perché anche da quei due che le meritano per la loro sorte, ma da
voi, cari, da voi; non da me... anche da quei due io ebbi male; ma sopra tutto da chi li
guidò a quel passo; da chi li teneva in pugno, e..."
"Il Salvo!" proruppe il
D'Ambrosio. "Hanno arrestato ad Aragona Marco Prèola; ma lui, il Salvo, per la
Madonna, debbono arrestare! lui affamò là tutto il paese! lui è il vero assassino! E
giustamente Dio l'ha punito, con la pazzia della figlia! Cosí, tra due pazze, se ne
starà ora con tutte le sue ricchezze!"
Capolino, allora, scattò in piedi,
sublime.
"Ma per carità! no! no! Non
posso permettere che si dicano di queste cose alla mia presenza! Vuoi difendere quegli
assassini? Via! Sappiamo tutti che il Salvo era nel suo diritto, chiudendo là le zolfare!
Ognuno provvede, come sa e crede, ai proprii interessi. E, del resto, non si è forse
adoperato in tanti modi qua, al risorgimento dell'industria? No, no! Signori miei, vedete?
parlo io, io, in questo momento, e arrivo fino a dirvi che egli, dal suo canto, anche come
padre, ha creduto di agire per il bene della figliuola! Voi tutti non avete alcuna ragione
per non riconoscer questo; potrei non riconoscerlo io, io solo, perché i mezzi di cui si
è servito mi hanno distrutto la casa, spezzato la vita! Ma egli mirava, là, al bene di
tutti quei bruti; e qua, al bene della sua figliuola!"
Dieci, quindici, venti mani si
tesero a Capolino, in un prorompimento d'ammirazione per cosí magnanima generosità; e
Capolino si sentí levato d'un cubito sopra se stesso.
"Forse mi vedrò
costretto," soggiunse con triste gravità, "a restituirvi il mandato, di cui
avete voluto onorarmi."
"No! no! che c'entra questo? E
perché?" protestarono alcuni.
Capolino, sorridendo mestamente,
levò le mani ad arrestare quell'affettuosa protesta:
"La condizione mia,"
disse. "Considerate. Potrei piú aver rapporti, non dico di parentela o d'amicizia,
ma pur soltanto d'interessi, con Flaminio Salvo? No, certo. E allora? Devo provvedere a me
stesso, signori miei, mentre il mandato che ho da voi esige un'assoluta indipendenza,
quella appunto che avevo per i miei ufficii nel banco del Salvo. Ora... ora bisognerà che
mi raccolga a pensar seriamente ai miei casi. Non son cose da decidere cosí su due piedi
e in questo momento."
"Ma sí! ma sí!"
ripresero quelli a confortarlo a coro. "Questi sono affari privati! La rappresentanza
politica..."
"Eh eh..."
"Ma che! non c'entra..."
"Altra cosa..."
"E poi, per ora..."
"Per ora," disse, "mi
basta, miei cari, di avervi dimostrato questo: che sono pronto a tutto, e che guardo le
cose e la mia stessa sciagura con animo equo e, per quanto mi è possibile, sereno.
Grazie, intanto, a tutti, amici miei."
Piú tardi, recatosi al Vescovado a
visitar Monsignore, ebbe da questo tali notizie su don Ippolito Laurentano e donna
Adelaide, che stimò da abbandonare senz'altro il piano dapprima architettato, e che anzi
gli convenisse aspettare il ritorno di Flaminio Salvo da Roma, per recarsi a Colimbètra a
tentarne un altro, che già gli balenava, audacissimo.
Flaminio Salvo
non volle lasciare a Roma Dianella in qualche "casa di salute", come i medici e
la sorella e il cognato gli consigliavano; disse che, se mai, l'avrebbe lasciata in una di
queste case a Palermo, per averla piú vicina e poterla piú spesso visitare; ma la sua
casa ormai - soggiunse - poteva pur trasformarsi in uno di questi privati ospizii della
pazzia, sotto il governo d'uno o piú medici e con l'assistenza di altre infermiere
adatte: vi restava egli solo provvisto di ragione; ma sperava che presto, con l'esempio e
un po' di buona volontà, la perderebbe anche lui.
Quando fu sul punto di partire,
però, si vide costretto a ricorrere a Lando Laurentano, perché gli désse a compagno di
viaggio Mauro Mortara, da cui Dianella non avrebbe voluto piú staccarsi, e che forse era
il solo che avrebbe potuto indurla a uscire da uno stanzino bujo ove sera rintanata,
e a partire. Lando Laurentano, che si preparava in gran fretta anche lui, chiamato a
Palermo dai compagni del Comitato centrale del partito, rispose al Salvo, che avrebbero
potuto fare insieme il viaggio, e che la mattina seguente sarebbe venuto con Mauro a
prenderlo in casa Vella. Flaminio Salvo notò nell'aspetto, nella voce, nei gesti del
giovane principe una strana agitazione febbrile, e fu piú volte sul punto di
domandargliene premurosamente il motivo; ma se n'astenne. Lando Laurentano era in
quell'animo per una ragione, a cui il Salvo non avrebbe potuto neppur lontanamente pensare
in quel momento: cioè, l'enorme impressione prodotta in tutta Roma dal suicidio di
Corrado Selmi. Se n'era divulgata la notizia la sera stessa, che egli usciva con Mauro da
casa Vella. Il grido d'un giornalajo glien'aveva dato l'annunzio. Aveva fatto fermar la
vettura per comperare il giornale. Ma, anziché dargli gioja, quell'annunzio improvviso lo
aveva in prima stordito. Aveva ordinato al vetturino d'accostarsi a un fanale, per
leggere, non ostante l'impazienza di Mauro; aveva saltato il lungo commento necrologico
premesso alle notizie sul suicidio, ed era corso con gli occhi a queste. Dal racconto del
cameriere del Selmi aveva saputo, prima, l'aggressione a mano armata del nipote di Roberto
Auriti, quando già il Selmi aveva ingojato il veleno; poi... ah poi!... una visita, che
il giornalista diceva drammaticissima, al Selmi appena spirato, "d'una dama
velata" di cui, per degni rispetti, non si faceva il nome, "accorsa",
seguitava il cronista, "ignara del suicidio, forse per dare ajuto e conforto
all'amico, dopo la sfida da lui lanciata, la mattina, all'intera assemblea".
Lando Laurentano non aveva avuto
alcun dubbio, che quella dama velata fosse donna Giannetta D'Atri, sua cugina; e aveva
strappato il giornale, con schifo e con rabbia, gridando al vetturino di correre a casa.
Qua aveva trovato in smaniosa ambascia Celsina Pigna e Olindo Passalacqua, che cercavano
disperatamente Antonio Del Re, scomparso dalla mattina. Eran sembrate cosí inopportune a
Lando in quel momento la vista buffa di quell'uomo, le smaniette di quella ragazza, tutta
quell'ansia attorno a lui per la ricerca d'un giovane chegli non conosceva e
chera tanto lontano dai suoi pensieri, che aveva avuto contro il suo solito un
violento scatto d'ira. Aveva chiamato Raffaele, il cameriere, per ordinargli di mettersi a
disposizione di quei due, ed era rimasto solo con Mauro. Questi, interpretando quello
scatto come un segno di sprezzante noncuranza per l'arresto del cugino, non sera
potuto trattenere; gli sera fatto innanzi tutto acceso di sdegno, gridando:
"Me ne voglio andare, subito!
ora stesso! Non voglio piú guardarvi in faccia!"
"Mauro! Mauro! Mauro!"
aveva esclamato Lando, scotendo in aria le mani afferrate.
Mauro allora sera cacciato una
mano in tasca, per trarne fuori le medaglie:
"Guardate! Dal petto me l'ero
strappate, davanti al delegato, quando ho visto arrestare vostro cugino! Ora quella
ragazza è venuta a riportarmele... Che sangue avete voi nelle vene? E questa la gioventú
d'oggi? è questa?"
"La gioventú..."
sera messo a rispondere con veemenza Lando; ma sera subito frenato, premendosi
forte le pugna serrate su la bocca e andando a sedere, coi gomiti su le ginocchia e la
testa tra le mani.
La gioventú? Che poteva la
gioventú, se l'avara paurosa prepotente gelosia dei vecchi la schiacciava cosí, col peso
della piú vile prudenza e di tante umiliazioni e vergogne? Se toccava a lei l'espiazione
rabbiosa, nel silenzio, di tutti gli errori e le transazioni indegne, la macerazione
d'ogni orgoglio e lo spettacolo di tante brutture? Ecco come l'opera dei vecchi qua, ora,
nel bel mezzo d'Italia, a Roma, sprofondava in una cloaca; mentre sú, nel settentrione,
sirretiva in una coalizione spudorata di loschi interessi; e giú, nella bassa
Italia, nelle isole, vaneggiava apposta sospesa, perché vi durassero l'inerzia, la
miseria e l'ignoranza e ne venisse al Parlamento il branco dei deputati a formar le
maggioranze anonime e supine! Soltanto, in Sicilia forse, or ora, la gioventú sacrificata
potrebbe dare un crollo a questa oltracotante oppressione dei vecchi, e prendersi
finalmente uno sfogo, e affermarsi vittoriosa!
Lando era balzato in piedi per
gridare questa sua speranza a Mauro Mortara; ma sera trattenuto per carità, alla
vista di lui che piangeva, con quelle sue pietose medaglie in mano.
Il giorno appresso Antonio Del Re
era stato ritrovato. Olindo Passalacqua era venuto a mostrare a Lando due telegrammi e un
vaglia spediti d'urgenza da Girgenti per far subito partire il giovine; ma aveva soggiunto
che il Del Re si ricusava ostinatamente di ritornare in Sicilia. Lando allora aveva
pregato Mauro di recarsi a prendere il giovine per invitarlo a partire con loro il giorno
appresso e Mauro a questa preghiera si era arreso di buon grado. Ma come proporgli adesso
di viaggiare insieme con Flaminio Salvo?
La mattina per tempo venne al
villino di via Sommacampagna Ciccino Vella per concertare il modo di spinger fuori dal
nascondiglio Dianella e farla partire. Guaj, se vedeva il padre! Durante tutto il viaggio
non doveva vederlo. Zio Flaminio e Lando dovevano viaggiare in un altro scompartimento
della vettura, senza mai farsi scorgere. C'era anche quel giovanotto, il Del Re? Bene:
tutti e tre, appartati, nascosti. Mauro e Dianella sarebbero stati soli, nello
scompartimento attiguo: tutt'intera una vettura sarebbe stata a loro disposizione.
Fu men difficile, a tali condizioni,
persuadere Mauro a render questo servizio al Salvo. Quando seppe che né ora, a casa
Vella, né poi, durante tutto il tragitto, lo avrebbe veduto, e che non si trattava tanto
di rendere un servizio a lui quanto un'opera di carità a quella povera fanciulla demente,
si arrese aggrondato, e andò avanti con Raffaele in casa Vella.
Non ci fu bisogno né di preghiere
né di esortazioni: appena Dianella rivide Mauro, balzò dal nascondiglio e tornò a
riaggrapparsi a lui, incitandolo a fuggire insieme. Si dovette all'incontro stentare a
trattenerla un po' per rassettarla alla meglio, ravviarle i capelli scarmigliati, metterle
un cappello in capo, perché almeno non desse tanto spettacolo alla gente, in compagnia di
quel vecchio che già per suo conto attirava la curiosità di tutti.
Quando l'uno e l'altra, tenendosi
per mano, quello col viso tutto scombujato, lo zainetto alle spalle, questa con gli occhi
e la bocca spalancati a un'ilarità squallida e vana, i capelli cascanti, scompigliati
sotto il cappello assettato male sul capo, attraversarono il salone per andarsene, chi li
vide non se ne poté piú levar l'immagine dalla memoria.
Che discorsi tennero tra loro, nel
viaggio?
Dietro l'usciolino dello
scompartimento, il Salvo e il Laurentano, ora l'uno ora l'altro, li intesero conversar tra
loro, a lungo, e sillusero dapprima che tra loro il vecchio e la fanciulla
sintendessero. Ma sí, a maraviglia sintendevano, perché l'uno e l'altra,
ciascuno per sé, non parlavano se non con la propria follia. E le due follie sedevano
accanto e si tenevano per mano.
"Una donna.,. vergogna!... Non
si dice Aurelio... Signor Aurelio... Signor Aurelio!... Ma com'è possibile che
l'abbia dimenticato?... Una cosí grossa ferita al dito... Vieni, vieni qua, al bujo...
nell'andito... Te lo succhio io, il sangue dal dito... Una donna? Vergogna... Signor
Aurelio..."
"Questi... sono questi, i
figli! La nuova gioventú... Per veder questo, oh assassini, abbiamo tanto combattuto,
sacrificato la vita nostra... per veder questo, donna Dianella! E che ci vado piú ad
appendere, adesso, sotto la lettera del Generale nel camerone? che ci vado piú ad
appendere, dopo tutto quello che ho visto?"
"Eh, ma chi lo sa l'anno che
viene? Il gelso, a marzo, coglie sangue di nuovo... E allora, quand'è in amore, per
gettare, è molle, molle come una pasta, e se ne fa quello che se ne vuole... Chi lo sa
l'anno che viene?"
"Incerto il bene, ma certe le
pene, figlia mia! Incerto il bene, ma certe le pene!"
Cosí conversavano di là, quei due.
Né Lando né Flaminio Salvo
badavano intanto a un altro, di qua con loro, che non diceva nulla, ma che pure non meno
di quei due vaneggiava col cervello. Non vedeva, non sentiva, non pensava piú nulla,
Antonio Del Re. La furia della disperazione, con la quale sera avventato sopra il
Selmi, gli aveva come folgorato lo spirito. Uscito dalla casa del Selmi, era rimasto
vuoto, sospeso in una tetraggine attonita, spaventevole; e non ricordava piú nulla, dove
fosse andato, che avesse fatto, come e dove avesse passato la notte, se proprio la notte,
una notte fosse passata. Non rispondeva a nessuna domanda; forse non udiva. Vedere,
vedeva; stava per lo meno a guardare; ma la ragione non vedeva piú, la ragione degli
aspetti delle cose e degli atti degli uomini. Non si era già opposto al suo ritorno in
Sicilia; ma a muoversi da sé dal luogo ove i piedi lo avevano condotto e la stanchezza
accasciato. Si era mosso, allorché Mauro lo aveva strappato per il petto; ma senza udir
nulla di quanto quegli gli aveva detto della nonna e della mamma. Il Passalacqua e Celsina
lo avevano accompagnato, la mattina, al villino di Lando; prima di partire aveva veduto
Celsina sorridere a Ciccino Vella, accettarne il braccio, montare in carrozza con lui e
col Passalacqua: tutto questo aveva veduto, e piú là, col pensiero; e nulla, piú nulla
gli sera rimosso dentro.
Quando, passato lo stretto di
Messina, Lando Laurentano scese dal treno per proseguire su un altro alla volta di
Palermo, Flaminio Salvo provò una certa costernazione al pensiero di restar solo nella
vettura per un'intera giornata fino a Girgenti con quel giovane a lui ignoto, che due
giorni avanti aveva levato il pugnale per uccidere il Selmi, e che ora gli teneva gli
occhi addosso con tanta fissità di sguardo, tra il torvo e l'insensato.
Ecco, con tre pazzi egli viaggiava;
e forse non meno pazzo di questi tre era quello or ora sceso dal treno con l'intenzione di
mettere a soqquadro tutta l'isola! Lui solo, dunque, per terribile condanna, doveva
serbare intatto il privilegio di non aver minimamente velata, offuscata, né per rimorso,
né per pietà, né piú da alcun affetto, né piú da alcuna speranza, né piú da alcun
desiderio, quella lucida, crudele limpidità di spirito? Lui solo.
E, come per assaporare lo scherno
della sua sorte, si accostò ancora una volta all'usciolino dello scompartimento, con
l'orecchio allo spiraglio, ad ascoltare i discorsi vani del vecchio e della figliuola.
Appena Mauro
Mortara, arrivato a Girgenti, poté strapparsi dalle braccia di Dianella Salvo, corse di
furia alla casa di donna Caterina Laurentano. Vi trovò Antonio Del Re ancora tra le
braccia della madre che invano, stringendolo, scotendolo, smaniando, cercava di spetrarlo.
Come Anna vide entrar Mauro, gli
corse incontro, lasciando il figlio:
"Che ha? Che ha? Ditemi voi che
ha! Che gli hanno fatto?"
Ma il Mortara le scostò le braccia
e gridò piú forte di lei:
"Vostra madre? Dov'è vostra
madre?"
Sopravvenne Giulio, in pochi giorni
invecchiato di dieci anni. Negli occhi, nelle braccia protese aveva la speranza di aver da
Mauro qualche notizia precisa sull'arresto di Roberto sul suicidio del Selmi, se questi
veramente avesse lasciato qualche dichiarazione in favore del fratello, come dicevano i
giornali. Dal nipote non aveva potuto saper nulla, per quanto, tra le braccia della madre,
lo avesse furiosamente scrollato per farlo parlare.
Ma il Mortara scostò anche lui,
ripetendo, testardo e violento:
"Vostra madre? Non so nulla! So
che l'hanno arrestato sotto i miei occhi! Non voglio veder nessuno! Voglio vedere lei
sola!"
Giulio restò perplesso, se
permettergli d'entrare nella camera della madre, cosí all'improvviso.
Dal giorno che egli, sotto l'urgenza
della necessità, vincendo ogni riluttanza, dapprima con circospezione, poi risolutamente,
con crudezza, le aveva detto che bisognava si recasse dal fratello Ippolito per salvare il
figlio, era caduta, di schianto, in un attonimento quasi di apatia, come se la vista di
tutte le cose intorno le si fosse a un tratto vuotata d'ogni senso. Non un gesto, non una
parola. Piú niente. E quella immobilità e quel silenzio avevano avuto fin da principio
un che di cosí assoluto e invincibile, che né un gesto, né una parola eran piú stati
possibili agli altri per scuoterla o esortarla. Giulio sapeva che avrebbe ucciso la madre,
parlando. E difatti, ecco, subito, parlando, l'aveva uccisa. Ella non poteva andare dal
fratello per salvare il figlio: sarebbe stata la sua morte. Ed ecco, era morta.
Tanto egli quanto Anna avevano
sperato, dapprima, che non volesse piú muoversi né parlare; non che, veramente, non
potesse. Ma ben presto serano accorti che non poteva. Pure, una lieve
contrazione rimasta su la fronte, tra ciglio e ciglio, diceva chiaramente che, anche
potendo, non avrebbe voluto. La avevano sollevata di peso dalla seggiola e adagiata sul
letto. Erano di morte la immobilità e il silenzio; soltanto, ancora, non era fredda. E
per impedire che anche quel freddo le sopravvenisse, si erano affrettati a coprirla bene
sul letto, con mani amorose, piangendo. L'ultima crudeltà doveva compiersi cosí sopra di
lei, e, perché fosse piú iniqua, per mano stessa dei figli. Ora, vegliandola e
piangendo, i figli le dimostravano, o piuttosto dimostravano a se stessi, che non erano
stati loro a compierla. Se ella, per tutto ciò che aveva fatto, non poteva pagare per il
figlio, bisognava che pagasse cosí, ora. Giulio lo sapeva; e, pur sapendolo, non aveva
potuto impedirlo. Doveva parlare, spingerla a quella morte, darle il crollo. L'aveva poi
raccolta su le braccia, e ora le rincalzava le coperte e le stringeva attorno alle braccia
lo scialle nero di lana, per ripararla dall'ultimo freddo, e andava in punta di piedi,
perché nessun rumore arrivasse piú a quel silenzio. Anche il volo d'una mosca sarebbe
stato di piú, ora, oltre a quello che egli aveva fatto, perché doveva. Un pensiero, se
non fosse anche di piú la sua vita, il suo respiro, dopo quello che aveva fatto, gli era
anche passato per la mente. Fuori di quella madre, fuori della Sicilia, egli, fin da
giovinetto, aveva preso mondo. Era vissuto senza né ricordi, né affetti, né
aspirazioni, quasi giorno per giorno: freddo, svogliato, ironico, sdegnoso. D'improvviso,
quando men se l'aspettava, il destino della sua famiglia aveva allungato una spira a
involgerlo, a invilupparlo, e lo aveva attratto a sé e piombato là, a rinsertarsi, a
riaffiggersi alla radice, da cui sera strappato; a sentire tutto ciò che non aveva
voluto mai sentire, a ricordarsi di tutto ciò di cui non aveva voluto mai ricordarsi. La
fine di colei, che aveva sempre e tutto sentito, e di tutto e sempre si era ricordata,
schiantata ora dall'urto con cui egli era tornato a inviscerarsi in lei, non doveva essere
adesso anche la sua fine? Schiantato il tronco, schiantati i rami. Nel tetro squallore
della casa, era rimasto inorridito del suo apparire a se stesso coi sentimenti e i ricordi
tutti di quella madre. Ma gli era apparsa anche Anna, la sorella: il ramo che non
sera mai staccato da quel tronco; che miseramente una volta sola, per poco, era
fiorito, per dare il frutto ispido e attossicato di quel figlio, in cui neanche l'amore
della madre riusciva a penetrare. E fratello e sorella si erano stretti, allora, fusi in
un abbraccio d'infinita tenerezza d'infinita angoscia, all'ombra della tetra casa,
assaporando la dolcezza del pianto che li univa per la prima volta e che pur rompeva loro
il cuore. Egli doveva vivere per quella sorella e per quel ragazzo. La notizia
dell'arresto di Roberto, ormai inevitabile, attesa da un momento all'altro, era finalmente
arrivata insieme con quella del suicidio di Corrado Selmi, ma vaga ristretta in poche
righe nei giornali siciliani, come una notizia a cui i lettori non avrebbero dato
importanza, presi com'erano tutti, allora, dalla morbosa curiosità di conoscere fin nei
minimi particolari l'eccidio d'Aragona.
La trepidazione di Anna per il
figlio solo a Roma, il pensiero dell'ajuto da portare a Roberto avevano spinto dapprima
Giulio a ritornar subito alla Capitale. Ma come abbandonar la madre in quello stato, sola
lí con Anna che saggirava per le stanze chiamando il figlio, quasi forsennata? E
che ajuto avrebbe potuto portare a Roberto? L'unico ajuto possibile sarebbe stato il
denaro, il rimborso alla banca di quelle quarantamila lire, cosí che tutti potessero
credere che queste fossero state prese da lui, per bisogni suoi. Il suicidio del Selmi
ora, avrebbe forse aperta la porta del carcere a Roberto, ma gli sarebbe rimasta,
incancellabile, dopo la denunzia e l'arresto, la macchia d'una losca complicità. Quanti
avrebbero creduto, domani, che disinteressatamente egli si fosse prestato a contrarre il
debito, sotto il suo nome, per conto d'un altro? La dichiarazione del Selmi, se davvero
esisteva come i giornali asserivano, non sarebbe valsa a cancellare del tutto quella
macchia.
Di là, nella camera della madre,
c'era il canonico Pompeo Agrò, che da tanti giorni, per ore e ore, non si staccava dalla
poltrona a pie' del letto, fissi gli occhi nella faccia spenta della giacente, forse con
la speranza di scoprirvi un indizio che ella - non avendo piú nulla da dire agli uomini -
desiderasse per suo mezzo comunicare con Dio. Piú d'una volta con profonda voce l'aveva
chiamata per nome, a piú riprese, senza ottener risposta.
Giulio disse a Mauro di attendere un
poco: voleva consigliarsi con l'Agrò, se questi désse piú peso alla sua speranza o al
suo timore che la vista o la voce del Mortara, scotendo la madre da quel torpore di morte,
potessero farle bene o male.
"Credo," gli rispose
l'Agrò, "che non ci sia piú né da sperare né da temere. Non avvertirà nulla.
Provate. Tanto se dura cosí, è la morte lo stesso."
Mauro entrò come un cieco nella
camera quasi al bujo, chiamando forte, con affanno di commozione:
"Donna Caterina... donna
Caterina..."
Restò, davanti al letto, alla vista
di quella faccia volta al soffitto, sui guanciali ammontati, cadaverica, con gli occhi che
simmaginavano torbidi e densi di disperata angoscia sotto la chiusura perpetua delle
gravi pàlpebre annerite, con una ostinata, assoluta volontà di morte negli zigomi tesi,
nelle tempie affossate, nelle pinne stirate del naso aguzzo, nelle livide, sottili labbra,
non solo serrate, ma anche in qualche punto attaccate dall'essiccamento degli umori.
"Oh figlia... oh
figlia..." esclamò. "Donna Caterina... sono io... Mauro... il cane guardiano di
vostro padre... Guardatemi... aprite gli occhi... da voi voglio essere guardato... Aprite
gli occhi, donna Caterina; guardando me, guardate la vostra stessa pena... Sentitemi:
debbo dirvi una cosa... torno da Roma..."
Urtando contro la rigida
impassibilità funerea della morente, la commozione di Mauro Mortara si spezzò a un
tratto in striduli singhiozzi, molto simili a una risata. L'Agrò e Giulio, anchessi
piangenti, se lo presero in mezzo, e, sorreggendolo per le braccia, lo trassero fuori
della camera.
La morente, rimasta sola nell'ombra,
immobile su i guanciali ammontati, udí tardi la voce, come se questa avesse dovuto far
molto cammino per raggiungerla nelle profonde lontananze misteriose, ove già il suo
spirito sera inoltrato. E da queste lontananze, in risposta a quella voce, tardi
venne alle sue pàlpebre chiuse una lagrima, ultima, che nessuno vide. Sgorgò da un
occhio; scorse su la gota; cadde e scomparve tra le rughe del collo.
Quando Pompeo Agrò tornò a sedere
su la poltrona a pie' del letto, né piú nell'occhio, né piú su la gota ve n'era
traccia.
Donna Caterina era morta.
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 04 September, 1998