Luigi Pirandello
I vecchi e i giovani
Parte I
III
"Di qua, di qua,
mi segua," disse al signore che gli veniva dietro il vecchio cameriere dalle piote
sbieche in fuori, che lo facevano andare in qua e in là con le gambe piegate.
Attraversarono su i soffici tappeti
polverosi tre stanze morte in fila, in ognuna delle quali il cameriere, passando, apriva
gli scuri dei vecchi finestroni tinti di verde. Le stanze tuttavia rimanevano in
un'angustiosa penombra, sia per la pesantezza dei drappi, sia per la bassezza della casa
sovrastata dagli edifizii di contro che paravano. Aperti gli scuri, il cameriere guardava
la stanza e sospirava, come per dire: "Vede com'è arredata bene? E intanto non
figura!".
Pervennero cosí al salone in fondo,
lugubre e solenne, dal palco scompartito, in rilievo, ornato di dorature.
Il signore trasse da un elegante
portafogli un biglietto da visita stemmato, ne piegò un lembo e lo porse al cameriere, il
quale, indicando un uscio nel salone, disse:
"Un momentino. C'è di là il
cavalier Prèola."
"Prèola padre?"
"Figlio."
"E cavaliere per giunta?"
"Per me," protestò il vecchio
inchinandosi profondamente con la mano al petto, "tutti i padroni miei,
cavalieri!"
E, andandosene su i piedi sbiechi, lesse
sottecchi, sul biglietto da visita: Cav. Gian Battista Mattina.
"(Costui - dunque - cavaliere
autentico, pare)."
Il Mattina rimase in piedi, cogitabondo
in mezzo al salone; poi scrollò le spalle, seccato; volse uno sguardo distratto in giro;
vide uno specchio alla parete di fronte e vi sappressò. In quel vasto specchio,
dalla luce tetra, la propria immagine gli apparve come uno spettro; e ne provò un
momentaneo turbamento indefinito.
Spirava da tutti i mobili, dal tappeto
dalle tende quel tanfo speciale delle case antiche, d'una vita appassita nell'abbandono.
Quasi il respiro d'un altro tempo. Il Mattina si guardò di nuovo attorno con una strana
costernazione per la immobilità silenziosa di quei vecchi oggetti, chi sa da quanti anni
lì senz'uso, e si accostò di piú allo specchio per scrutarsi davvicino, movendo pian
piano la testa, stirandosi fin sotto gli occhi stanchi le punte dei folti baffi conservati
neri da una mistura, in contrasto coi capelli precocemente grigi che conferivano cotal
serietà al suo volto bruno. A un tratto, un lunghissimo sbadiglio gli fece spalancare e
storcere la bocca, e all'emissione del fiato fradicio contrasse il volto in un'espressione
di nausea e di tedio. Stava per scostarsi dallo specchio, allorché sul piano della
mensola, chinando gli occhi, scorse qua e là tanti bei mucchietti di tarlatura disposti
quasi con arte, e si chinò a mirarli con curiosità. Avevano lavorato bene quelle tarme,
e nessuno intanto pareva tenesse in debito conto la lor fatica... Eppure, il frutto,
eccolo là, bene in vista, che diceva: "Questo è fatto. Portate via!". Stese
una mano a uno di quei mucchietti, ne prese un pizzico e strofinò le dita. Niente!
Neanche polvere... E, guardandosi i polpastrelli dell'indice e del pollice, andò a sedere
su una comoda poltrona accanto al canapè. Seduto, la scosse un po', come per accertarsi
della solidità.
"Neanche polvere... Niente!"
Con una smorfia, trasse dal tavolinetto
tondo innanzi al canapè un album, in capo al quale era il ritratto del padrone dl casa,
il canonico Agrò.
Era sempre parso al Mattina che il
canonico Pompeo Agrò avesse una strana somiglianza con un uccellaccio, di cui non
rammentava il nome. Certo il naso, largo alla base, acuminato in punta, sallungava
in quel volto come un becco Era però negli occhietti grigi, vivi, sotto la fronte alta e
angusta, tutta la malizia astuta, sottile e tenace, di cui l'Agrò godeva fama.
Il Mattina esaminò quel viso, come se
nei tratti di esso volesse scorgere la ragione dell'invito ricevuto la sera avanti. Che
diamine poteva voler da lui l'Agrò? Il dissidio di questo canonico gran signore col
partito clericale, dissidio che suscitava tanto scandalo in paese, era proprio proprio
vero, o non piuttosto un atteggiamento concertato, insidioso, per tradir la buona fede
dell'Auriti, penetrar nel campo avversario e sorprenderne le mosse? Eh, a fidarsi d'una
volpe... Quel colloquio segreto col Prèola... Fosse tutto un tranello?
Alzò gli occhi, volse di nuovo lo
sguardo attorno e di nuovo dall'immobilità silenziosa di quei vecchi oggetti senz'uso e
senza vita si sentí turbato, quasi che essi, per averne egli scoperto le magagne, lo
spiassero ora piú ostili.
Udí per le tre stanze in fila la voce
del vecchio cameriere, che ripeteva:
"Di qua, di qua, mi segua."
Posò l'album e guardò in direzione
dell'uscio.
"Oh! Verònica..."
"Caro Titta," rispose Guido
Verònica, fermandosi in mezzo al salone.
Si tolse le lenti per pulirle col
fazzoletto pronto nell'altra mano; strizzò gli occhi fortemente miopi, e con l'indice e
il pollice della mano tozza si stropicciò il naso maltrattato dal continuo pinzar delle
lenti; poi si appressò per sedere su la poltrona di fronte al Mattina; ma questi,
alzandosi, lo prese sotto il braccio e gli disse piano:
"Aspetta, ti voglio far
vedere..."
E lo condusse innanzi alla mensola per
mostrargli tutti quei mucchietti di polviglio.
Il Verònica, non comprendendo che cosa
dovesse guardare, miope com'era, si chinò fin quasi a toccar col naso il piano della
mensola.
"Tarli?" disse poi, ma senza
farci caso, anzi guardando freddamente il Mattina, come per domandargli perché glieli
avesse mostrati: e andò a sedere su la poltrona.
" Tu quoque?" domandò
allora il Mattina, rimasto male e volendo dissimular la stizza.
"Non so di che si tratti" gli
rispose il Verònica con l'aria di chi voglia nascondere un segreto.
"Neanchio"
saffrettò a soggiungere il Mattina con indifferenza. "Ho ricevuto un
invito..."
E posò gli occhi senza sguardo su la
fronte del Verònica sconciata da tre lunghi raffrigni in vario senso: ferite ripor tate
in duello.
"Torni da Roma?"
"No. Da Palermo."
"E ti trattieni molto?"
"Non so."
Dimostrava chiaramente il Verònica con
quelle secche risposte che voleva restar chiuso in sé, per non darsi importanza con ciò
che - volendo - avrebbe potuto dire. Difatti il suo cómpito, adesso, era questo:
mostrarsi seccato, anzi stanco e sfiduciato. Per sua disgrazia, egli - e tutti lo sapevano
- aveva un ideale: la Patria, rappresentata, anzi incarnata tutta quanta nella persona di
un vecchio glorioso statista, il Crispi, battuto alcuni anni addietro in una tumultuosa
seduta parlamentare, dopo una lotta piccina e sleale. Per questo vecchio glorioso
sera cimentato in tanti e tanti duelli, riportandone quasi sempre la peggio; aveva
respinto su i giornali con inaudita violenza di linguaggio le ingiurie degli oppositori.
Ma ormai, caduto quel Vecchio, anche la patria per lui era caduta: trionfava la marmaglia;
non era noja, la sua; era propriamente schifo di vivere. Non credeva affatto che Roberto
Auriti potesse vincere, quantunque sostenuto dal Governo; ma quel suo Vecchio venerato -
che ancora intorno all'avvenire della patria silludeva come un fanciullo - gli aveva
imposto di recarsi a Girgenti a combattere per l'Auriti; sapeva che questi, piú che per
le premure del Governo, sera piegato ad accettare la lotta per la spinta del vecchio
statista; ed eccolo a Girgenti. Tanto per non venir meno al dovere, rispondeva ora
all'invito dell'Agrò, d'un canonico, lui che amava i preti quanto il fumo negli occhi.
C'era; bisognava che sadattasse. Non ostante però la sfiducia con cui sera
lasciato andare a quella impresa elettorale, si sentiva alquanto stizzito nel vedersi
messo ora alla pari con un Mattina qualunque, appajato con costui nella piccola congiura
che il canonico Agrò pareva volesse ordire.
Il Mattina si mosse su la poltrona,
sbuffando e prendendo un'altra positura.
" Si fa aspettare..."
"Chi c'è di là?" domandò
Guido Verònica, senz'ombra d'impazienza.
Il Mattina si protese e disse sottovoce:
"Prèola figlio, la lancia spezzata
d'Ignazio Capolino. L'ho saputo dal cameriere. Che te ne pare? Domando e dico, che cosa ci
stiamo a fare qua noi due?"
" Sentiremo..." sospirò il
Verònica.
"Non vorrei che..."
Il Mattina sinterruppe, vedendo
aprir l'uscio ed entrare lungo e curvo su la sua magrezza, il canonico Pompeo Agrò.
Facendo cenno con ambo le mani ai due
ospiti di rimaner seduti, disse con vocetta stridente:
"Chiedo vènia... Stieno, stieno
seduti, prego. Caro Verònica; cavaliere esimio. Qua, cavaliere, segga qua, accanto a me;
non ho paura de' suoi peccatacci di gioventú."
"Sí, gioventú!" sorrise il
Mattina, mostrando il capo grigio.
Il Canonico trasse dal petto un vecchio
orologino d'argento.
"Il pelo, eh, lei m'insegna, e non
il vizio. Già le dieci perbacco! Ho perduto molto tempo... Mah!"
Salterò in volto; restò un
momento perplesso, se dire o non dire; poi, come attaccando una coda al sospiro rimasto in
tronco:
"La gratitudine, un mito!"
Tentennò il capo, e riprese:
" Sarebbero disposti lor signori a
venire un momentino con me?"
"Dove?" domandò il Mattina.
"In casa di Roberto Auriti... tanto
amico mio, tanto fin dall'infanzia, lo sanno. I nostri padri, piú che fratelli, compagni
d'arme; quello di Roberto a Milazzo, e il mio cadde al Volturno. Storia, questa. Se ne
dovrebbe tener conto in paese, invece di menare tanto scalpore per la mia... come la
chiamano? diserzione... eh? diserzione, già. La veste! Sissignori. Ma sotto la veste c'è
pure un cuore; e ce l'ho anchio per la santa amicizia, e anche... e anche..."
Il Canonico forse voleva aggiungere
"per la patria", lo lasciò intendere col gesto e pose un freno alla foga del
sentimento generoso. Si sforzava di parlar dipinto, con un risolino arguto sulle labbra,
strofinandosi di continuo sotto il mento le mani ossute, come se le lavasse alla
fontanella delle sue frasi polite, sí, non però fluenti e limpide e continue, ma quasi a
sbruffi, esitanti spesso e con curiosi ingorghi esclamativi. Di tratto in tratto, nel
sollevar le pàlpebre stanche, lasciava intravedere qualche obliquo sguardo fuggevole,
cosí diverso dall'ordinario, che subito ciascuno immaginava quell'uomo dovesse,
nell'intimità, non esser quale appariva, aver piú d'una afflizione profondamente segreta
che lo rendeva astuto e cattivo, e travagli d'animo oscuri.
"Prima d'andare," riprese
cangiando tono, "due paroline per intenderci. Avrei meditato... messo sú, o mi
sembra, un piccolo piano di battaglia. Non la pretendo a generale, veh! Lor signori
combatteranno; io porterò il gamellino. Ecco. Ben ponderato tutto, il nostro piú
temibile avversario chi è? Il Capolino? No; ma chi gli fa spalla: il Salvo, già suo
cognato, potentissimo. Ora io da buona fonte so che il Salvo fino a pochi giorni fa non
voleva permettere in verun modo questa... questa comparsa del Capolino."
"Si, sí," confermò il
Mattina. "A causa delle trattative di matrimonio tra la sorella e il principe di
Laurentano.
"Oh! Benissimo," approvò il
Canonico. "Ma il Salvo concesse la grazia di fargli spalla appena seppe che il
principe non intendeva d'aver riguardo alla parentela dell'Auriti e ordinava non ne avesse
parimenti il partito. Stando cosí le cose, le sorti del nostro Roberto sono quasi
disperate. Non c'illudiamo."
"Eh, lo so!" sbuffò il
Verònica.
Subito il Canonico lo fermò con un gesto
della mano, seguitando:
"Ma se. noi, ecco, pognamo che noi,
signori miei, a dispetto della libertà concessa dal principe, riuscissimo a legar mani e
piedi al colosso, al Salvo... eh? Come? Ecco: sarebbe questo il mio piano."
Pompeo Agrò, data cosí l'esca alla
curiosità, stette un pezzo con le mani spalmate, sospese sotto il mento; poi le ritrasse,
richiudendole; chiuse anche gli occhi per raccogliersi meglio; lasciò andar fuori un
altro: "Ecco!", come un gancio per sostener l'attenzione dei due ascoltatori, e
rimase ancora un po' in silenzio.
"Lor signori sanno le condizioni con
cui si effettuerà il matrimonio per espressa volontà del Laurentano. Ora queste
condizioni, secondo che io ho divisato, dovrebbero diventare il punto... come diremo?
vulnerabile del Salvo."
"Il tallone d'Achille,"
suggerí il Mattina, scotendosi, per dire una cosa nuova.
"Benissimo! d'Achille!"
approvò l'Agrò. "E mi spiego. Preme al Salvo certamente, avendole accettate, che il
figlio del principe, residente a Roma (mi par che si chiami Gerlando, eh? come il nonno:
Gerlandino, Landino) non sia o almeno, non si mostri apertamente contrario a questo
matrimonio del padre. Anzi so che il Salvo ha posto come patto la presenza del giovine
alla cerimonia nuziale, per il riconoscimento del vincolo da parte sua e come impegno da
gentiluomo per l'avvenire. Io non conosco codesto Gerlandino, ma so che è di pelo...
cioè, diciamo, di stampa ben altra dal padre."
"Opposta!" esclamò il
Veronica. "Io lo conosco bene."
"Oh bravo!" soggiunse l'Agrò.
"Ammesso dunque che non abbia neppure le idee di Roberto Auriti, tra i due, voglio
dire tra questo e un Capolino, dovrebbe aver piú cara, m'immagino, la vittoria del
parente."
Guido Verònica, a questo punto, si
scosse e sospirò a lungo, come per vôtarsi dell'illusione accolta per un momento, e
disse:
"Ah, no, non credo, sa! non credo
proprio che Lando si impicci di codeste cose..."
"Mi lasci dire," riprese il
Canonico, con voce agretta. "A me non cale che se ne impicci: vorrei saper solamente
da lei che è stato tanto tempo a Roma e conosce il giovine, se l'antagonismo, diciamo
cosi, tra don Ippolito Laurentano e donna Caterina Auriti sussista anche tra i loro
figliuoli.
"No, questo no!" rispose subito
il Verònica. "Sono anzi in buon accordo, amici."
"Mi basta!" esclamò allora il
Canonico picchiandosi col dorso d'una mano la palma dell'altra. "Mi strabasta! Se
della parentela con l'Auriti non vuole tener conto il padre, può invece, o potrebbe,
tener conto il figlio. Ed ecco legato il Salvo, il colosso!"
Pompeo Agrò volle godere un momento di
quella prima vittoria guardando acutamente, con un sorrisino un po' smorboso, il
Verònica, poi il Mattina, già accampati entrambi nel suo piano, stimato almeno
meditabile. Quindi, come un generale non contento di vincere soltanto a tavolino, con le
leggi della tattica, scese a osservare le difficoltà materiali dell'impresa.
"Il punto," disse, "sarà
persuadere a quel benedetto Roberto di servirsi di questo spediente. Giacché, per lo meno
abbiamo bisogno di una lettera privata di Gerlandino, da far vedere o conoscere in qualche
modo al Salvo, ecco! o diretta al Salvo stesso, che sarà difficile, o a Roberto, o a
qualche amico: a lei, per esempio, caro Verònica: insomma, una prova, un
documento..."
Guido Verònica non volle dichiarare
chegli non poteva attendersi una lettera da Lando, col quale non aveva alcuna
intimità; stimò, sí, ingegnoso il piano dell'Agrò, ma forse inattuabile per la troppa
schifiltà di Roberto il quale... il quale... sí, benemerenze patriottiche...
""Onestà
immacolata!"" soggiunse l'Agrò.
"Sí"," concesse il
Verònica, "e anche ingegno, se vogliamo; ma... ma... ma... al dí d'oggi... e gli
secca il Prefetto e par che gli secchino anche gli amici... basta! Sarà un affar serio!
io, per me, mi metterei anche la pelle alla rovescia per ajutarlo, però..."
Sinterruppe; si batté la fronte
con una mano; esclamò:
"Ho trovato! Giulio... c'è
Giulio... il fratello di Roberto, giusto in questo momento nella segreteria particolare di
S. E. il ministro D'Atri: eh, perbacco! a lui sí posso scrivere... è intimissimo di
Lando. Da Giulio si otterrà facilmente quello che vogliamo, senza farne saper nulla a
Roberto, che opporrebbe chi sa quanti ostacoli. Ecco fatto!"
"Bravissimo! bravissimo!" non
rifiniva piú d'esclamare il Canonico, gongolante.
Solo il Mattina era rimasto come una
barca, la cui vela non riuscisse a pigliar vento. Vedendo quell'altre due barche filar
cosi leste senza piú curarsi di lui rimasto floscio indietro si sentí umiliato, volle
dir la sua e, non potendo altro, si provò a soffiare un po' di vento contrario e a parar
qualche secca o qualche scoglio.
"Già,"disse,"ma non sarà
troppo tardi, signori miei? Riflettiamo! Prima che la lettera arrivi, anche facendo con la
massima sollecitudine, di qui a Roma, chiama e rispondi! Ci vorrà una settimana; dico
poco. Il Salvo avrà tutto il tempo, di compromettersi e non si potrà piú tirare
indietro.
" Eh, lo vorrò vedere!"
esclamò il Canonico con un sogghignetto, e alzando una mano, come per salutarlo da
lontano. "No, sa! no, sa! Mai piúú mai piúú, mai piúú... Vuole che gli stia poi
tanto a cuore il Capolino?"
"Ma la propria dignità,
scusi!" si risentí il cavaliere, come se fosse in ballo la sua. "Bella figura
ci farebbe! Ma sa che oggi stesso nella sala di redazione dellEmpedocle si
proclamerà ufficialmente la candidatura di Capolino con l'intervento del Salvo e di tutti
i maggiorenti del partito? Non scherziamo!"
"In questo caso," saltò a dire
il Verònica, "per far piú presto, si spedirà a Giulio ora stesso, d'urgenza, un
telegramma in cifre. Roberto ha un cifrario particolare col fratello. Non perdiamo piú
tempo... Piuttosto... aspetti!... ora che ci penso... il Selmi... perdio!"
"Selmi?" domandò il Canonico,
stordito da quel nome che cadeva all'improvviso come un ostacolo insormontabile su la via
cosí bene spianata. "Il deputato Selmi?"
"Corrado Selmi, sí,"rispose il
Verònica. "L'ho visto a Palermo... Ha promesso a Roberto di venire qua, per lui, e
che anzi avrebbe tenuto un discorso..."
"Ebbene?" fece l'Agrò.
"Anzi, un parlamentare di tanta autorità... vero patriota..."
"Lasci andare! lasci andare!"
lo interruppe il Verònica, socchiudendo gli occhi, scotendo una mano. "Patriota...
va bene! Bacato, bacato, bacato, caro Canonico... Debiti... compromissioni... storie... e
Dio non voglia che il povero Roberto per causa di lui... Basta. Non è per questo,
adesso... Ma per Lando Laurentano..."
E Guido Verònica fece piú volte
schioccar le dita, come per strigarsele dell'impiccio che gli dava il pensiero del Selmi.
"Non capisco..." osservò il
Canonico. "Forse tra il Laurentano e il Selmi?..."
"Eh, altro!" esclamò il
Verònica. "Nimicizia mortale!"
"Affar di donne," aggiunse il
Mattina, serio, socchiudendo gli occhi, soddisfattissimo di quella contrarietà."
E il Canonico, incuriosito:
" Ah sí? di donne?"
" Storia vecchia," rispose il
Verònica. "Finita, a quanto pare, ma, fino a un anno fa, Corrado Selmi - lo dico
perché tutta Roma lo sa - fu l'amante di donna Giannetta D'Atri, moglie del Ministro
d'oggi."
Il Canonico levò una mano:
"Uh, che cose! E questa... e questa
donna Giannetta chi sarebbe?"
"Ma una Montalto!" disse il
Verònica. "Cugina di Lando... Lei sa che la prima moglie del principe fu una
Montalto."
"Ah, ecco! E forse il
giovine...?"
"Da ragazzo, tra cugini... Questo
non lo so bene. Il fatto è che Lando Laurentano provocò due volte il Selmi... Ora,
capirà, se questi viene qua a sostenere la candidatura di Roberto..."
"Già, già, già... ora
comprendo!" esclamò il Canonico. "Si dovrebbe impedire! Ah, si dovrebbe
impedire!"
"Forse non sarà difficile,"
concluse il Verònica. "Perché Corrado Selmi avrà da combattere per sé nel suo
collegio. Basta, vedremo. Adesso andiamo subito da Roberto."
Il Canonico si alzò.
"Pronti," disse. "La
vettura è giú. Un momentino, col loro permesso. Prendo il cappello e il tabarro."
Poco dopo, il Verònica e il Mattina
rividero il vecchio cameriere dai piedi sbiechi, parato da automedonte, e salirono in
vettura con l'Agrò.
Venendo su dal Ràbato, per piazza San
Domenico notarono subito un movimento insolito lungo la via maestra. Quattro, cinque
monellacci, correndo e fermandosi qua e là, strillavano il giornaletto clericale Empedocle,
che pareva andasse a ruba.
"L'Impíducli! L'Impíducli!"
E per tutto si formavano capannelli, qua
a leggere, là a commentar vivamente qualche articolo, certo violento, stampato in quel
foglio.
Il Verònica, vedendo passare presso la
vettura uno di quegli strilloni, non seppe resistere alla tentazione, e mentre il Canonico
- che per le vie della città, in quei giorni, si sentiva in mezzo a un campo nemico -
consigliava: ""Meglio a casa! meglio a casa!"" si fece buttare nella
vettura una copia del giornale. La prese il Mattina.
" Leggo io?"
E cominciò a leggere sottovoce
l'articolo di fondo, quello che, indubbiamente, suscitava tanto fermento nel pubblico.
Era intitolato Patrioti per bisogni di
famiglia, e si riferiva senza far nomi, ma con turpe evidenza - alla memoria di
Stefano Auriti, padre di Roberto, alterando con vilissima calunnia la storia romanzesca
del suo amore per Caterina Laurentano: la fuga dei due giovani poco prima della
rivoluzione del 1848; la parte presa da Stefano Auriti a questa rivoluzione "non già
per amor di patria, ma appunto per bisogni di famiglia, cioè per la conquista d'una dote
insieme con le grazie del suocero per forza, ricco, liberale, sí, ma, ahimè, d'una
inflessibilità superiore a ogni previsione".
Man mano, leggendo, la voce del Mattina
si alterava dallo sdegno, acceso maggiormente dall'indignazione dell'Agrò, che prorompeva
di tratto in tratto, accennando di turarsi le orecchie e buttandosi indietro:
"Oh vigliacchi! oh vigliacchi!"
A un certo punto il Mattina si vide
strappar di mano il giornale. Guido Verònica, pallidissimo, col volto scontraffatto
dall'ira, aprí lo sportello della vettura, ne balzò fuori e, senza sentire i richiami
del Canonico, tanto per cominciare, si lanciò di furia tra un crocchio di gente, in mezzo
al quale stava il Capolino, a cui schiaffò in faccia il giornale, stropicciandoglielo sul
muso. L'aggressione fu cosí fulminea, che tutti restarono per un momento storditi e
sgomenti, poi savventarono addosso all'aggressore: accorse gente, vociando, da tutte
le parti: nel mezzo era la mischia, fitta: volavano bastonate, tra urli e imprecazioni. Il
Mattina non ebbe tempo né modo di cacciarsi in difesa del Verònica; ma, poco dopo,
l'abbaruffío, lí nel forte, si allargò: la rissa era partita. Il Canonico chiamava il
Mattina, smaniando, dalla vettura. Questi udí alla fine e si volse; ma vide in quella il
Verònica, senza cappello, senza lenti, strappato, ansimante tra una frotta di giovani che
evidentemente lo difendevano, e accorse. Ritornò, poco dopo, alla vettura del Canonico:
"Niente" disse; "stia
tranquillo; andiamo pure; è tra amici; se l'è cavata bene."
Il Canonico tremava tutto.
"Signore Iddio, Signore Iddio... che
scandalo... Ma perché?... Schifosi... Non conveniva sporcarsi le mani... E ora che
avverrà?"
"Oh," fece con una certa
sprezzatura il Mattina. "Un duello; è semplicissimo... o una querela, se la santa
religione non consentirà a quel farabutto di dar conto delle turpitudini che pure gli ha
permesso di sfognare."
"La religione, scusi, lasciamola
stare, cavaliere," disse Pompeo Agrò pacatamente. "Non c'entra e... mi lasci
dire! non c'entra neppure il Capolino."
"Come no?"
"Mi lasci dire. Io so chi ha scritto
l'articolo, quella sozzura. Il Prèola, il Prèola venuto stamani da me, non so da chi
spedito... Brutto ingrato! feccia d'uomo!"
"Ma il Capolino," obbiettò il
Mattina, "è direttore del giornale e ha lasciato passar l'articolo."
"Giurerei, metterei le mani sul
fuoco," rispose il Canonico, "che non lo lesse prima. È mio avversario, veda,
eppure lo riconosco incapace d'una siffatta bassezza... E ora che troveremo in casa di
Roberto?"
Donna Caterina
Auriti-Laurentano abitava con la figlia Anna, vedova anchessa, e col nipote, una
vecchia e triste casa sotto la Badía Grande.
La casa era appartenuta a Michele Del Re,
marito di Anna che null'altro aveva potuto lasciare in eredità alla vedova giovanissima,
all'unico figliuolo, Antonio, che ora aveva circa diciott'anni .
Vi si saliva per angusti vicoli
sdruccioli, a scalini, malamente acciottolati, sudici spesso, intanfati dai cattivi odori
misti esalanti dalle botteghe buje come antri, botteghe per lo piú di fabbricatori di
pasta al tornio, stesa lí su canne e cavalletti ad asciugare, e dalle catapecchie delle
povere donne, che passavano le giornate a seder su l'uscio, le giornate eguali tutte,
vedendo la stessa gente alla stessora, udendo le solite liti che saccendevano
da un uscio all'altro tra due o piú comari linguacciute per i loro monelli che, giocando,
serano strappati i capelli o rotta la testa. Unica novità, di tanto in tanto, il
Viatico; il prete sotto il baldacchino, il campanello, il coro delle divote:
Oggi e sempre sia
lodato
Nostro Dio Sacramentato...
Morto il marito, dopo
appena tre anni di matrimonio, Anna Auriti era quasi morta anchessa per il mondo.
Fin dal giorno della sciagura non era uscita mai piú di casa, neanche per andare a messa
le domeniche; né sera mai piú mostrata, nemmeno attraverso i vetri delle finestre
sempre socchiuse. Soltanto le monache della Badía Grande, affacciandosi alle grate a
gabbia, avevano potuto vederla dall'alto, quand'ella veniva a prendere, sul vespro, un po'
d'aria nell'angusto giardinetto pensile della casa, chera addossata alla tetra,
altissima fabbrica di quella badía, già antico castello baronale dei Chiaramonte. Né
certo quelle monache avevano potuto sentire alcuna invidia di lei, reclusa come loro. Come
loro, se non piú semplicemente, vestiva di nero, sempre; come loro nascondeva, sotto un
fazzoletto nero di seta annodato al mento, i capelli, se non recisi, non piú curati
affatto, appena ravviati in due bande e attorti alla lesta dietro la nuca; que' bei
capelli castani, voluminosi, che tanta grazia un giorno, acconciati con arte, avevano dato
al suo pallido, mite, soavissimo volto.
Donna Caterina aveva condiviso
strettamente questa clausura della figlia, vestita anchessa di nero, fin dal 1860,
data della morte eroica del marito, a Milazzo. Rigida, magra, non aveva l'aria di mesta
rassegnazione della figlia. La macerazione cupa dell'orgoglio, la fierezza del carattere
che, a costo d'incredibili sacrifizii, non sera mai smentita di fronte alle piú
crudeli avversità della sorte, le avevano alterato cosí i lineamenti del volto, che
nessuna traccia esso ormai serbava piú dell'antica bellezza. Il naso le si era allungato,
affilato e teso sulla bocca vizza, qua e là rientrante per la perdita di alcuni denti; le
gote le si erano affossate; aguzzato il mento. Ma sopra tutto gli occhi, sotto le folte
sopracciglia nere, mostravano la rovina di quel volto: le pàlpebre seran rilassate,
una piú, l'altra meno; e quell'occhio piú dell'altro socchiuso, dallo sguardo lento,
velato d'intensa angoscia, conferiva a quella faccia spenta l'aspetto d'una maschera di
cera, orribilmente dolorosa. I capelli, intanto, le erano rimasti nerissimi e lucidi,
quasi per dileggio, per far risaltare meglio lo scempio di quelle fattezze e smentir la
credenza che i dolori facciano incanutire. Aveva sofferto tutto donna Caterina Laurentano,
anche la fame, lei nata nel fasto, allevata e cresciuta fra gli splendori d'una casa
principesca: la fame, quando, domata la rivoluzione del 1848, a diciotto anni, col primo
figliuolo neonato, Roberto, aveva dovuto seguire nell'esilio, in Piemonte, il marito,
escluso con altri quarantatré dall'amnistia, e condannato alla confisca dei pochi beni.
Il padre, don Gerlando Laurentano, anchegli tra quei quarantatré esclusi, la aveva
allora invitata ad andare con lui a Malta, suo luogo d'esilio, a patto però che avesse
abbandonato per sempre Stefano Auriti. Lei? Aveva rifiutato sdegnosamente; e con piú
sdegno aveva poi rifiutato l'elemosina del fratello Ippolito, il quale con altri pochi
indegni della nobiltà siciliana era andato a ossequiar Satriano a Palermo, e ne aveva
ottenuto la restituzione dei beni confiscati al padre. Ed era andata a Torino col marito,
tutti e due sperduti e come ciechi, a mendicare per quel figlioletto la vita. Nessuno
degli esuli, dei fuorusciti siciliani colà, aveva voluto credere dapprima che ella, di
cosí cospicui natali, unica figliuola femmina del principe di Laurentano, non avesse
portato nulla con sé, né ricevesse soccorsi dalla famiglia; e Stefano Auriti era stato
perciò in tutti i modi ostacolato dagli stessi compagni di sventura nella ricerca
affannosa d'un posticino che gli avesse dato pane, solo pane per la moglie e per sé. E
allora ella sera gravemente ammalata e per cinque mesi era stata in un ospedale,
ricoverata per carità dopo infiniti stenti, e per carità il piccolo Roberto era stato
allevato in un altro ospizio. Serano ravveduti finalmente e commossi i compagni
d'esilio e avevano ajutato a gara Stefano Auriti. Uscita dall'ospedale, ella aveva
ricevuto la notizia che il padre, don Gerlando Laurentano, era morto volontariamente a
Búrmula, di veleno. Dei dodici anni passati a Torino, fino al 1860, donna Caterina
serbava ormai una memoria vaga, confusa, come di una vita non vissuta propriamente da lei,
ma piuttosto immaginata in un sogno strano e violento, in cui tuttavia sprazzavano visioni
liete, qualche momento felice e ardente, d'entusiasmo patriottico. Incancellabilmente
impressa nel cuore aveva invece l'ora del risveglio da questo sogno: allorché le era
pervenuta la notizia che Stefano Auriti, partito col figliuolo appena dodicenne da Quarto
con Garibaldi per la liberazione della Sicilia, era caduto nella battaglia campale di
Milazzo. Neanche la grazia di farla impazzire aveva voluto concederle Iddio in quel
momento! E aveva dovuto sentire, vedere quasi, il suo cuore di moglie straziato, colpito a
morte, là in Sicilia, trascinarsi sanguinando dietro al figliuolo giovinetto, rimasto ora
senza il presidio del padre a seguitare la guerra. Le avevano fatto a Torino una colletta,
e coi due orfanelli, Giulio e Anna, nati colà, era ritornata in Sicilia, nella patria
già liberata; ma da vedova, in gramaglie, e piú misera di come ne era partita: tra
l'esultanza di tutti, lei, con quei due piccini, vestiti anchessi di nero. Roberto
era già entrato a Napoli con Garibaldi, e ora combatteva sotto Caserta, accanto a Mauro
Mortara. Era stata accolta in casa degli Alàimo, parenti poveri di Stefano Auriti.
Novamente il fratello Ippolito, ora riparato a Colimbètra, le aveva profferto ajuto; e
novamente, con pari sdegno, ella lo aveva rifiutato, meravigliando e gettando nella
costernazione gli Alàimo, che la ospitavano. Povera gente, anche d'intelletto povera e di
cuore, quante amarezze non le aveva cagionate! Sera dovuta guardare da loro, come da
nemici acerrimi della sua dignità, chessi non intendevano; capacissimi com'erano di
chiedere e d'accettare di nascosto quell'ajuto che ella aveva rifiutato, non contenti del
lavoro che faceva in casa e che si procacciava da fuori per cavarne un giusto compenso al
poco dispendio che dava loro. Sera rialzata per poco da quell'orribile avvilimento
al ritorno di Roberto, accolto da tutto il paese quasi in delirio. Ancora, ricordando quel
giorno, quel momento, le sue misere carni eran corse da brividi. Ah con quale esultanza,
con che spasimo d'amore e di dolore sera serrato al seno il figliuolo, che ritornava
solo, senza il padre, l'eroe giovinetto dalla camicia rossa, che il popolo le aveva recato
su le braccia in trionfo! Il Governo provvisorio le aveva accordato un sussidio mensile, e
a Roberto - non potendo altro, per l'età - aveva accordato una borsa di studio in
Palermo. L'aveva perduta pochi anni dopo, questa borsa, Roberto, per seguir Garibaldi alla
conquista di Roma. Ma al torrente di sangue giovanile, che avrebbe ristorato le vene
esauste di Roma, la ragion di Stato aveva opposto, ad Aspromonte, un argine di petti
fraterni; e Roberto, con gli altri, era stato preso e imprigionato, prima alla Spezia, poi
al forte Monteratti a Genova. Liberato, aveva ripreso gli studii, per poco. Nel 1866,
dietro a Garibaldi, di nuovo. Solo nel 1871 gli era venuto fatto di laurearsi in legge; e
subito era andato a Roma per provvedere, dopo tante vicende tumultuose, alla propria
esistenza e a quella dei suoi. Qualche anno dopo, lo aveva raggiunto il fratello Giulio.
Anna, a Girgenti, aveva già trovato marito, e donna Caterina - aspettando che Roberto a
Roma si facesse largo e si preparasse un avvenire degno del suo passato, e la consolasse
infine di tutte le amarezze patite e dell'avvilimento per cui maggiormente aveva sofferto
- era andata a vivere in casa del genero Michele Del Re. La morte di questo, tre anni
dopo, la sciagura della figlia, la miseria sopravvenuta di nuovo, quasi non avevano avuto
potere di scuoterla da un dolore piú cupo e profondo, in cui era caduta. Il figlio, il
figlio da cui tanto si aspettava, il suo Roberto, fra il trambusto violento della nuova
vita nella terza Capitale, tra la baraonda oscena dei tanti che vi sabbaruffavano
reclamando compensi, carpendo onori e favori, il suo Roberto si era perduto! Stimando
semplicemente come suo dovere quanto aveva fatto per la patria, non aveva voluto né
saputo accampare alcun diritto a compensi, aveva forse sperato e atteso che gli amici, i
compagni, si fossero ricordati di lui dignitoso e modesto. Poi forse lo schifo lo aveva
vinto e tratto in disparte. E qual rovinío era sopravvenuto in Sicilia di tutte le
illusioni, di tutta la fervida fede, con cui sera accesa alla rivolta! Povera isola,
trattata come terra di conquista! Poveri isolani, trattati come barbari che bisognava
incivilire! Ed eran calati i Continentali a incivilirli: calate le soldatesche
nuove, quella colonna infame comandata da un rinnegato, l'ungherese colonnello Eberhardt,
venuto per la prima volta in Sicilia con Garibaldi e poi tra i fucilatori di Lui ad
Aspromonte, e quell'altro tenentino savojardo Dupuy, l'incendiatore; calati tutti gli
scarti della burocrazia; e liti e duelli e scene selvagge; e la prefettura del Medici, e i
tribunali militari, e i furti, gli assassinii, le grassazioni, orditi ed eseguiti dalla
nuova polizia in nome del Real Governo; e falsificazioni e sottrazioni di documenti e
processi politici ignominiosi: tutto il primo governo della Destra parlamentare! E poi era
venuta la Sinistra al potere, e aveva cominciato anchessa con provvedimenti
eccezionali per la Sicilia; e usurpazioni e truffe e concussioni e favori scandalosi e
scandaloso sperpero del denaro pubblico; prefetti, delegati, magistrati messi a servizio
dei deputati ministeriali, e clientele spudorate e brogli elettorali; spese pazze,
cortigianerie degradanti; l'oppressione dei vinti e dei lavoratori, assistita e protetta
dalla legge, e assicurata l'impunità agli oppressori...
Da due giorni - dacché Roberto era
arrivato a Girgenti usciva dalla bocca amara di donna Caterina Auriti questo fiotto
veemente di crudeli ricordi, d'acerbe rampogne, di fiere accuse. Guardando il figlio, a
traverso le pàlpebre rilassate, con quell'occhio quasi spento, si votava il cuore di
tutte le amarezze accumulate in tanti anni, di tutto il dolore, di cui l'anima sua
sera nutrita e attossicata.
"Che speri? che vuoi?" - gli
domandava. "Che sei venuto a far qui?"
E Roberto Auriti, investito dalla furia
della madre, taceva aggrondato, a capo chino, con gli occhi chiusi.
Aveva ormai quarantatré anni: già
calvo, ma vigoroso, col volto fortemente inquadrato dalle folte sopracciglia nere, quasi
giunte, e dalla corta barba pur nera, se ne stava avvilito e addogliato, come un fanciullo
debole al cospetto di quella madre che, pur cosí debellata dai dolori e dagli anni,
serbava tanta energia e cosí fieri spiriti. Si sentiva veramente sconfitto. L'animo,
troppo teso negli sforzi della prima gioventú, gli era venuto meno a poco a poco, di
fronte alla nuova, laida guerra, guerra di lucro, guerra per la conquista indegna dei
posti. E ne aveva chiesto uno anche lui, non per sé, per il fratello Giulio, e lo aveva
ottenuto al Ministero del tesoro. Egli sera affidato agli scarsi, incerti proventi
della professione d'avvocato: proventi che tuttavia, tal volta, non gli lasciavano al
tutto tranquilla la coscienza, non già perché non li credesse meritato compenso al
proprio lavoro, allo zelo; ma perché la maggior parte delle liti gli venivano per il
tramite dei deputati siciliani suoi amici, di Corrado Selmi specialmente, e per parecchie
aveva il dubbio che le avesse vinte, non tanto per la sua bravura, quanto per l'indebita e
non gratuita ingerenza di quelli. Ma egli, morto il cognato Michele Del Re, aveva la madre
e la sorella vedova e il nipote da mantenere a Girgenti; oltre che a Roma, da parecchi
anni, non era piú solo. Certo la madre non ignorava la convivenza di lui a Roma con una
donna, di cui per antichi pregiudizii e per la puritana rigidezza dei costumi non poteva
avere alcuna stima; non glien'aveva mai fatto parola; ma egli sentiva l'aspra condanna nel
cuore materno, un'altra amarezza - secondo lui ingiusta - che la madre non gli mostrava
per non avvilirlo, per non ferirlo vieppiú. Ma forse donna Caterina, in quei momenti, non
ci pensava nemmeno, tutt'intesa com'era a mettere innanzi al figlio, con foga inesausta,
insieme coi ricordi luttuosi della famiglia, le condizioni tristissime del paese. E
durante quest'esposizione, la sorpresero il canonico Pompeo Agrò e il Mattina.
Dalla cordialità vivace, con cui Roberto
Auriti lo accolse, l'Agrò comprese subito chegli ignorava ancora la pubblicazione
di quel turpe articolo. Presentò il Mattina, ossequiò la signora.
Donna Caterina aspettò che i primi
convenevoli fossero scambiati e che i due amici esprimessero la gioja di rivedersi dopo
tanti anni; e riprese, rivolta all'Agrò:
"Per carità, Monsignore, glielo
faccia intendere anche lei, che è amico sincero. Qua siamo tra noi. Anche questo signore,
se l'ha condotto lei, sarà un amico. Io voglio persuadere mio figlio a non accettare
questa lotta."
"Mamma..."pregò Roberto, con
un sorriso afflitto.
"Sí, sí," incalzò la madre.
"Lo dicano loro. Che ha fatto Roberto, e perché, in nome di che cosa viene oggi a
chiedere il suffragio del suo paese? Forse in nome di tutto ciò che fece da giovinetto,
in nome del padre morto, dei sacrifizii e degli ideali santi per cui quei sacrifizii
furono fatti e quello strazio sofferto? Farà ridere!"
"Oh, no, perché, donna
Caterina?" si provò a interrompere il canonico Agrò, portandosi una mano al petto,
quasi ferito. "Non dica cosí."
"Ridere! ridere!" incalzò
quella con piú foga. "Lo sa bene anche lei come quegli ideali si sono tradotti in
realtà per il popolo siciliano! Che n'ha avuto? com'è stato trattato? Oppresso, vessato,
abbandonato e vilipeso! Gli ideali del Quarantotto e del Sessanta? Ma tutti i vecchi, qua,
gridano: Meglio prima! Meglio prima! E lo grido anchio, sa? io, Caterina
Laurentano, vedova di Stefano Auriti!"
"Mamma! mamma!" supplicò
Roberto, con le mani agli orecchi.
E subito la madre:
"Sí, figlio: perché prima almeno
avevamo una speranza, quella che ci sostenne in mezzo a tutti i triboli che tu sai e non
sai, là, a Torino... Nessuno vuol piú saperne, ora, credi. Troppo cari si son pagati,
quegli ideali; e ora basta! Ritórnatene a Roma! Non voglio, non posso ammettere che tu
sia venuto qua in nome del Governo che ci regge. Tu non hai rubato, figlio, non hai
prestato man forte a tutte le ingiustizie e le turpitudini che qua si perpetrano protette
dai prefetti e dai deputati, non hai favorito la prepotenza delle consorterie locali che
appestano l'aria delle nostre città come la malaria le nostre campagne! E allora perché?
che titoli hai per essere eletto? chi ti sostiene? chi ti vuole?"
Entrò, in questo punto, Guido Verònica,
rassettato e ricomposto. Era salito all'albergo dopo la rissa per cambiarsi d'abito, e vi
aveva lasciato detto che se qualcuno fosse venuto a cercar di lui, egli sarebbe ritornato
alle ore tre del pomeriggio. Subito l'Agrò e il Mattina gli fecero cenno con gli occhi,
che Roberto non sapeva nulla. Donna Caterina Auriti sera levata in piedi, per
incitare il figlio a rifiutare l'ajuto del Governo, che del resto non avrebbe avuto alcun
valore nell'imminente lotta, e ad accettar questa, invece, in nome dell'isola oppressa.
Non avrebbe vinto, certamente; ma la sconfitta almeno non sarebbe stata disonorevole e
sarebbe servita di mònito al Governo.
"Perché voi lo vedrete,"
concluse. "Faccio una facile profezia: non passerà un anno, assisteremo a scene di
sangue."
Guido Verònica parò le mani grassocce.
"Per carità, signora mia, per
carità, non dica codeste cose, che sono orribili in bocca a lei! Le lasci dire ai
sobillatori che, senza volerlo, fanno il giuoco dei clericali! Scusi, Canonico; ma è
proprio cosí! Quattro mascalzoni ambiziosi che seminano la discordia per assaltare i
Consigli comunali e provinciali e anche il Parlamento; altri quattro ignobili nemici della
patria che sognano la separazione della Sicilia sotto il protettorato inglese, uso Malta!
E c'è poi la Francia, la nostra cara sorella latina, che soffia nel fuoco e manda denari
per trar partito domani di qualche sommossa brigantesca, ispirata dalla mafia!"
"Ah sí?" proruppe donna
Caterina, che sera tenuta a stento. "Lei si conforta cosí? Sono tutte
calunnie, le solite, quelle che ripetono i ministri, facendo eco ai prefetti e ai
tirannelli locali capi-elettori; per mascherare trenta e piú anni di malgoverno! Qua c'è
la fame, caro signore, nelle campagne e nelle zolfare; i latifondi, la tirannia feudale
dei cosiddetti cappelli, le tasse comunali che succhiano l'ultimo sangue a gente
che non ha neanche da comperarsi il pane! Si stia zitto! si stia zitto!"
Guido Verònica sorrise nervosamente,
aprendo le braccia; poi si rivolse a Roberto:
"Oh senti... (col suo permesso,
signora!): avrei bisogno del tuo cifrario, per spedire un telegramma d'urgenza a
Roma."
"Ah già, bravo, bravo!"
esclamò il canonico Agrò, riscotendosi dal doloroso atteggiamento preso durante la
violenta intemerata di donna Caterina.
Roberto si recò di là per il cifrario.
La conversazione cadde fra i tre amici e la vecchia signora; poi l'Agrò per rompere il
silenzio penoso sopravvenuto, sospirò:
"Eh, certo sono tristi assai le
condizioni del nostro povero paese!"
E la conversazione fu ripresa un po', ma
senza piú calore. I tre avevano un'intesa segreta tra loro ed erano anche gonfii e
costernati dello scandalo di quell'articolo: si scambiavano occhiate d'intelligenza,
avrebbero voluto rimanere soli un momento per accordarsi sul miglior modo di preparare
Roberto. Ma donna Caterina non se n'andava.
" Sa se Corrado Selmi," le
domandò Guido Verònica, "ha scritto a Roberto che verrà?"
"Verrà, verrà," rispose ella,
scrollando il capo con amaro sdegno.
"Ci ho pensato," disse piano il
Verònica all'Agrò e al Mattina. "Tanto meglio, se viene. Anzi gli spedirò io
stesso un telegramma perché venga subito, per me, capite? Cosí Lando... zitti,
ecco Roberto."
Ma non era Roberto: entrò invece nella
sala un giovinotto alto, smilzo, a cui le lenti serrate in cima al naso, congiungendo le
folte sopracciglia, davano un'aria di cupa e rigida tenacia. Era Antonio Del Re, il
nipote. Pallidissimo di solito, appariva in quel momento quasi cèreo.
"Hanno letto nell'Empedocle?"
domandò con un fremito nelle labbra e nel naso.
Il canonico Agrò e il Mattina alzarono
subito le mani per impedire che seguitasse.
"Contro Roberto?" domandò
donna Caterina.
"Contro il nonno!" rispose,
vibrante, il giovinotto. "Una manata di fango! E contro te!"
"Sozzure! sozzure!" - esclamò
l'Agrò. "Per carità, non ne sappia nulla il povero Roberto!"
"Già sta a leggerlo," disse il
nipote, sprezzante.
" No! no!" gridò allora
l'Agrò, levandosi in piedi. "Oh Signore Iddio, bisogna prevenirlo! Già questi
farabutti hanno avuto la lezione che si meritavano dal nostro Verònica! Per carità, vada
lei, donna Caterina... Imprudenza, imprudenza, ragazzo mio!"
Donna Caterina accorse; ma troppo tardi.
Roberto Auriti, ignorando quel che poc'anzi aveva fatto il Verònica, era corso pallido,
col volto contratto da un sorriso spasmodico, e come un cieco alla redazione di quel
giornalucolo, presso Porta Atenèa. Vi aveva trovati già raccolti i maggiorenti del
partito, con Flaminio Salvo alla testa, per proclamare, subito dopo l'aggressione la
candidatura di Ignazio Capolino. Al vecchio usciere, che stava di guardia nella saletta
d'ingresso innanzi all'uscio a vetri della sala di redazione, aveva detto ancor sorridendo
a quel modo - che Roberto Auriti voleva parlare col direttore. Nella sala di redazione
sera fatto un improvviso silenzio; poi agli orecchi di Roberto eran venute queste
parole concitate:
"Nossignori! Vado io, tocca a me;
l'articolo l'ho scritto io, e io ne rispondo!"
Non aveva neppur visto chi gli sera
fatto innanzi: gli sera lanciato addosso come una belva, lo aveva levato di peso e
scagliato con tale impeto contro l'uscio, che questo sera sfondato, sfasciato, con
gran fracasso e rovinío di vetri infranti.
Quando il Verònica, il Mattina e il
nipote Del Re sopraggiunsero a precipizio, tra la ressa della gente accorsa da ogni parte
agli urli che seran levati altissimi dalla sala di redazione, Marco Prèola col
volto insanguinato e un coltello in mano si dibatteva ferocemente sbraitando:
"Lasciatemi, maledetti, lasciatemi!
Se lo liberate adesso, l'ammazzo piú tardi! Lasciatemi! Lasciatemi!"
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 03 September, 1998