FRANCESCO PETRARCA
CANZONIERE
CCLIV-CCC
RERUM VULGARIUM FRAGMENTA
codice Vaticano 3195
In morte di Madonna Laura
CCLXIV
I vo pensando, e nel penser massale
I vo pensando, e nel penser
massale una pietà sí forte di me stesso che mi conduce spesso ad altro lagrimar chi non soleva; ché, vedendo ogni giorno il fin più presso, mille fiate ho chieste a Dio quellale co le quai del mortale carcer nostro intelletto al ciel si leva; ma in fin a qui niente mi releva prego, o sospiro, o lagrimar chio faccia; e cosí per ragion conven che sia, ché chi possendo star, cadde tra via, degno è che mal suo grado a terra giaccia. Quelle pietose braccia, in chio mi fido, veggio aperte ancóra; ma temenza maccora per gli altrui essempli, e del mio stato tremo; chaltri mi sprona, e son forse a lestremo Lun
pensèr parla co la mente, e dice: Già sai tu ben quanta dolcezza porse Da laltra parte un pensier dolce et agro, Ma quellaltro voler, di chi son pieno, Quel chi fo, veggio, e non
minganna il vero Né so che spazio mi si désse il cielo Canzon, qui sono; ed ho l cor via più freddo |
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CCLXV
Aspro core e selvaggio e cruda voglia
Aspro core e selvaggio e cruda voglia in dolce, umìle, angelica figura, se limpreso rigor gran tempo dura, avran di me poco onorata spoglia; ché quando nasce o mor fior, erba e foglia, quando è l dí chiaro, e quando è notte oscura, piango ad ogni or.Ben ho di mia ventura, di madonna, e dAmore, onde mi doglia. Vivo sol di speranza, rimembrando che poco umor già per continua prova consumar vidi marmi e pietre salde. Non è sí duro cor che lagrimando, pregando, amando, talor non si smova, né sí freddo voler che non si scalde. |
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CCLXVI
Signor mio caro, ogni pensier mi tira
Signor mio caro, ogni pensier mi tira devoto a veder voi, cui sempre veggio; la mia fortuna (or che mi po far peggio?) mi tène a freno, e mi travolge e gira. Poi quel dolce desio chAmor mi spira menami a morte, chi non me naveggio; e mentre i miei duo lumi indarno cheggio, dovunque io son, dí e notte si sospira. Carità di signore, amor di donna son le catene ove con molti affanni legato son, perchio stesso mi strinsi. Un lauro verde, una gentil colonna, quindeci luna, e laltro diciotto anni portato ho in seno, e già mai non mi scinsi. |
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CCLXVII
Oimé il bel viso, oimé il soave sguardo
Oimé il bel viso, oimé il soave
sguardo, oimé il leggiadro, portamento altèro! Oimé il parlar chogni aspro ingegno e fero facevi umìle, ed ogni uom vil gagliardo! Et oimé il dolce riso onde uscìo l dardo di che morte, altro bene omai non spero! Alma real, dignissima dimpero, se non fossi fra noi scesa sí tardo! Per voi convèn chio arda e n voi respire; chi pur fui vostro; e se di voi son privo, via men dogni sventura altra mi dole. Di speranza mempieste, e di desire, quandio parti dal sommo piacer vivo; ma l vento ne portava le parole. |
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CCLXVIII
Che debbio far? Che mi consigli, Amore?
Che debbio far? Che mi consigli,
Amore? Tempo è ben di morire, et ho tardato più chi non vorrei. Madonna è morta, et ha seco il mio core; e volendol seguire, interromper convèn questanni rei; perché mai veder lei di qua non spero, e laspettar mè noia; poscia chogna mia gioia, per lo suo dipartire, in pianto è volta, ogni dolcezza de mia vita è tolta. Amor, tu l senti, ondio teco mi doglio, quantè l danno aspro e grave; e so che del mio mal ti pesa e dole, anzi del nostro; perchad uno scoglio avem rotto la nave, et in un punto nè scurato il sole. Qual ingegno a parole poria agguagliare il mio doglioso stato? Ahi orbo mondo, ingrato! Gran cagion hai di dever pianger meco; ché quel ben chera in te, perduto hai seco. Caduta è la tua gloria, e tu no l vedi; né degno eri, mentrella visse qua giù, daver sua conoscenza, né desser tocco da suoi santi piedi; perché cosa sí bella devea l ciel adornar di sua presenza. Ma io, lasso!, che senza lei né vita mortal, né me stesso amo, piangendo la richiamo: questo mavanza di cotanta spene, e questo solo ancor qui mi mantene. Oimè!, terra è fatto il suo bel viso, che solea far del cielo e del ben di lassù fede fra noi; linvisibil sua forma è in paradiso, disciolta di quel velo che qui fece ombra al fior de gli anni suoi, per rivestirsen poi unaltra volta, e mai più non spogliarsi, quando alma e bella farsi tanto più la vedrem, quanto più vale sempiterna bellezza che mortale. Più che mai bella e più leggiadra donna tornami inanzi, come là dove più gradir sua vista sente. Questa è del viver mio luna colonna, laltra è l suo chiaro nome, che sona nel mio cor sí dolcemente. Ma tornandomi a mente che pur morta è la mia speranza, viva allor chella fioriva, sa ben Amor qual io divento, e, spero, vedel colei chè or sí presso al vero. Donne, voi che miraste sua beltate, e langelica vita, con quel celeste portamento in terra, di me vi doglia e vincavi pietate, non di lei chè salita a tanta pace, e mha lassato in guerra; tal che saltri mi serra lungo tempo il camin da seguitarla, quel chAmor meco parla sol mi riten chio non recida il nodo; ma e ragiona dentro in cotal modo: - Pon freno al gran dolor che ti trasporta; ché per soverchie voglie si perde l cielo, ove l tuo core aspira, dove è viva colei, chaltrui par morta, e di sue belle spoglie seco sorride, e sol di te sospira; e sua fama che spira in molte parti ancor per la tua lingua, prega che non estingua, anzi la voce al suo nome rischiari, se gli occhi suoi ti fûr dolci né cari. - Fuggi l sereno e l verde, non tappressare ove sia riso o canto, canzon mia, no, ma pianto: non fa per te di star fra gente allegra, vedova, sconsolata, in veste negra. |
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CCLXIX
Rotta è lalta colonna, e l verde lauro
Rotta è lalta colonna, e
l verde lauro, che facean ombra al mio stanco pensero; perduto ho quel che ritrovar non spero dal borrea a laustro, o dal mar indo al mauro. Tolto mhai, Morte, il mio doppio tesauro, che mi fea viver lieto, e gire altèro; e ristorar no l po terra né impero, né gemma oriental, né forza dauro. Ma se consentimento è di destìno, che posso io più, se no aver lalma trista, umidi gli occhi sempre, e l viso chino? O nostra vita, chè sí bella in vista, com perde agevolmente in un matino quel che n molti anni a gran pena sacquista! |
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CCLXX
Amor, se vuo chi torni al giogo antico
Amor, se vuo chi
torni al giogo antico, come par che tu mostri, unaltra prova meravigliosa e nova, per domar me, convènti vincer pria. Il mio amato tesoro in terra trova, che mè nascosto, ondio son sí mendìco, e l cor saggio pudico, ove suol albergar la vita mia: e segli è ver che tua potenzia sia nel ciel sí grande, come si ragiona, e ne labisso (perché qui fra noi quel che tu val e puoi, credo che l sente ogni gentil persona), ritogli a Morte quel chella nha tolto, e ripon le tue insegne nel bel vólto. Riponi entro l bel viso il vivo lume chera mia scorta e la soave fiamma chancor, lasso!, minfiamma, essendo spenta; or che fea dunque ardendo? E non si vide mai cervo né damma con tal desio cercar fonte né fiume, qual io il dolce costume onde ho già molto amaro, e più nattendo, se ben me stesso e mia vaghezza intendo, che mi fa vaneggiar sol del pensero, e gire in parte ove la strada manca, e co la mente stanca cosa seguir che mai giugner non spero. Or al tuo richiamar venir non degno, ché segnoria non hai fuor del tuo regno. Fammi sentir de quellaura gentile di fòr, sí come dentro ancor si sente; la qual era possente, cantando, dacquetar li sdegni e lire, di serenar la tempestosa mente, e sgombrar dogni nebbia oscura e vile, ed alzava il mio stile sovra di sé, dove or non poría gire. Aguaglia la speranza col desire; e poi che lalma è in sua ragion più forte, rendi a gli occhi, a gli orecchi il proprio obgetto, senza qual, imperfetto è lor oprare, e l mio vivere è morte. Indarno or sovra me tua forza adopre, mentre l mio primo amor terra ricopre. Fa chio riveggia il bel guardo, chun sole fu sopra l ghiaccio ondio solea gir carco; fa chi ti trovi al varco, onde senza tornar passò l mio core; prendi i dorati strali, e prendi larco, e facciamisi udir, sí come sole, col suon de le parole, ne le quali io imparai che cosa è amore; movi la lingua, overano a tuttore disposti gli ami ovio fui preso, e lésca chi bramo sempre; e i tuoi lacci nascondi fra i capei crespi e biondi, ché l mio volere altrove non sinvesca; spargi co le tue man le chiome al vento, ivi mi lega, e puomi far contento. Dal laccio dòr non sia mai che me scioglia, negletto ad arte, e nnanellato et irto, né de lardente spirto de la sua vista dolcemente acerba, la qual dí e notte più che lauro o mirto tenea in me verde lamorosa voglia, quando si veste e spoglia di fronde il bosco e la campagna derba. Ma poi che Morte è stata sí superba che spezzò il nodo, ondio temea scampare, né trovar pôi, quantunque gira il mondo, di che ordischi l secondo, che giova, Amor, tuoi ingegni ritentare? Passata è la stagion, perduto hai larme, di chio tremava: ormai che puoi tu farme? Larme tue furon gli occhi, onde laccese saette uscivan dinvisibil foco, e ragion temean poco, ché n contral ciel non val difesa umana; il pensar, e l tacer, il riso, e l gioco, labito onesto, e l ragionar cortese, le parole, che ntese avrian fatto gentil dalma villana, langelica sembianza, umile e piana, chor quinci or quindi udia tanto lodarsi, e l sedere e lo star, che spesso altrui poser in dubbio a cui devesse il pregio di più laude darsi: con questarmi vincevi ogni cor duro; or se tu disarmato, i son securo. Gli animi chal tuo regno il cielo inchina leghi ora in uno et ora in altro modo; ma me sol ad un nodo legar potêi, ché l ciel di più non volse. Quel uno è rotto; e n libertà non godo, ma piango, e grido: - Ahi, nobil pellegrina, qual sentenzia divina me legò inanzi, e te prima disciolse? Dio, che sí tosto al mondo ti ritolse, ne mostrò tanta e sí alta virtute solo per infiammar nostro desio. - Certo ormai non temio, Amor, de la tua man nove ferute: indarno tendi larco, a voito scocchi; sua virtù cadde al chiuder de begli occhi. Morte mha sciolto, Amor, dogni tua legge: quella che fu mia donna, al ciel è gita, lasciando trista e libera mia vita. |
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CCLXXI
Lardente nodo ovio fui dora in ora
Lardente nodo ovio fui
dora in ora, contando anni ventuno interi preso, Morte disciolse; né già mai tal peso provai, né credo chuom di dolor mora. Non volendomi Amor perdermi ancóra, ebbe un altro lacciuol fra lerba teso, e di nova ésca un altro foco acceso, tal cha gran pena indi scampato fôra. E se non fosse esperienzia molta de primi affanni, i sarei preso, et arso, tanto più quanto son men verde legno. Morte mhai liberato unaltra volta, e rotto l nodo, e l foco ha spento e sparso; contra la qual non val forza né ngegno. |
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CCLXXII
La vita fugge e non sarresta unora
La vita fugge e non sarresta
unora, e la morte vien dietro a gran giornate, e le cose presenti, e le passate mi dànno guerra, e le future ancóra; e l rimembrare e laspettar maccora or quinci or quindi, sí che n veritate, se non chi ho di me stesso pietate, i sarei già di questi pensier fòra. Tornami avante salcun dolce mai ebbe l cor tristo; e poi da laltra parte veggio al mio navigar turbati i vènti; veggio fortuna in porto, e stanco omai il mio nocchier, e rotte àrbore e sarte, e i lumi bei, che mirar soglio, spenti. |
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CCLXXIII
Che fai? Che pensi? Che pur dietro guardi?
Che fai? Che pensi? Che pur dietro
guardi? nel tempo, che tornar non pòte omai? Anima sconsolata, che pur vai giugnendo legne al foco ove tu ardi? Le soavi parole e i dolci sguardi chad un ad un descritti e depinti hai son levàti da terra; et è, ben sai, qui ricercarli, intempestivo, e tardi. Deh, non rinnovellar quel che nancide; non seguir più penser vago, fallace, ma saldo e certo, cha buon fin ne guide. Cerchiamo l ciel, se qui nulla ne piace; ché mal per noi quella beltà si vide, se viva e morta ne devea tôr pace. |
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CCLXXIV
Datemi pace, o duri miei pensieri
Datemi pace, o duri miei pensieri: non basta ben chAmor, Fortuna e Morte mi fanno guerra intorno, e n su le porte, senza trovarmi dentro altri guerreri? E tu, mio cor, ancor se pur qual eri? Disleal a me sol, ché fere scorte vai ricettando, e se fatto consorte de miei nemici sí pronti e leggieri. In te i secreti suoi messaggi Amore, in te spiega Fortuna ogni sua pompa, e Morte la memoria di quel colpo che lavanzo di me conven che rompa; in te i vaghi pensier sarman derrore: per che dogni mio mal te solo incolpo. |
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CCLXXV
Occhi miei, oscurato è l nostro sole
Occhi miei, oscurato è l nostro
sole, anzi è salito al cielo, et ivi splende; ivi il vedremo ancóra, ivi nattende, e di nostro tardar forse si dole. Orecchie mie, langeliche parole sonan in parte, ove è chi meglio intende. Pie miei, vostra ragion là non si stende, ovè colei chesercitar vi sòle. Dunque perché mi date questa guerra? Già di perdere a voi cagion non fui vederla, udirla, e ritrovarla in terra: Morte biasmate; anzi laudate lui che lega e scioglie, e n un punto apre e serra, e dopo l pianto sa far lieto altrui. |
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CCLXXVI
Poi che la vista angelica, serena
Poi che la vista angelica, serena, per sùbita partenza, in gran dolore lasciato ha lalma e n tenebroso orrore, cerco parlando dallentar mia pena. Giusto duol certo a lamentar mi mena; sassel chi nè cagione, e sallo Amore; chaltro rimedio non avea l mio core contra i fastidî, onde la vita è piena. Questo un, Morte, mha tolto la tua mano: e tu che copri, e guardi, et hai or teco, felice terra, quel bel viso umano, me dove lasci, sconsolato e cieco, poscia che l dolce et amoro e piano lume de gli occhi miei non è più meco? |
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CCLXXVII
SAmor novo consiglio non napporta
SAmor novo consiglio non
napporta, per forza converrà che l viver cange: tanta paura e duol lalma trista ange, che l desir vive, e la speranza è morta: onde si sbigottisce, e si sconforta mia vita in tutto, e notte e giorno piange, stanca, senza governo in mar che frange, e n dubbia via senza fidata scorta. Immaginata guida la conduce; ché la vera è sotterra, anzi è nel cielo, onde più che mai chiara al cor traluce; a gli occhi no, chun doloroso velo contende lor la disiata luce, e me fa sí per tempo cangiar pelo. |
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CCLXXVIII
Ne letà sua più bella e più fiorita
Ne letà sua più bella e più
fiorita, quando aver suol Amor in noi più forza, lasciando in terra la terrena scorza, è laura mia vital da me partita, e viva e bella e nuda al ciel salita: indi mi signoreggia, indi mi sforza. Deh, perché me del mio mortal non scorza lultimo dí, chè primo a laltra vita? Ché, come i miei pensier dietro a lei vanno, cosí leve, espedita, e lieta lalma la segua, et io sia fuor di tanto affanno. Ciò che sindugia è proprio per mio danno, per far me stesso a me più grave salma. Oh, che bel morir era, oggi, è terzo anno! |
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CCLXXIX
Se lamentar daugelli, o verdi fronde
Se lamentar daugelli, o verdi
fronde mover soavemente a laura estiva, o rôco mormorar di lucide onde sode duna fiorita e fresca riva, là vio seggia damor pensoso, e scriva, lei che l ciel ne mostrò, terra nasconde, veggio, et odo, et intendo chancor viva, di sí lontano, a sospir miei risponde. - Deh, perché inanzi l tempo ti consume? - mi dice con pietate - a che pur versi de gli occhi tristi un doloroso fiume? Di me non pianger tu; ché i miei dí fêrsi morendo eterni, e ne linterno lume, quando mostrai de chiuder, gli occhi apersi. - |
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CCLXXX
Mai non fui in parte ove sí chiar vedessi
Mai non fui in parte ove sí chiar
vedessi quel che veder vorrei, poi chio no l vidi, né dove in tanta libertà mi stessi, né mpiessi il ciel de sí amorosi stridi; né già mai vidi valle aver sí spessi luoghi da sospirar riposti e fidi; né credo già chAmore in Cipro avessi, o in altra riva, sí soavi nidi. Lacque parlan damore, e lôra, e i rami, e gli augelletti, e i pesci, e i fiori, e lerba, tutti inseme pregando chi sempre ami. Ma tu, ben nata, che dal ciel mi chiami, per la memoria di tua morte acerba preghi chi sprezzi l mondo e i suoi dolci ami. |
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CCLXXXI
Quante fiate al mio dolce ricetto
Quante fiate al mio dolce ricetto, fuggendo altrui, e, sesser po, me stesso, vo con gli occhi bagnando lerba e l petto, rompendo co sospir laere da presso! Quante fiate sol, pien di sospetto, per luoghi ombrosi e foschi mi son messo, cercando col pensèr lalto diletto, che Morte ha tolto, ondio la chiamo spesso! Or in forma di ninfa, o daltra diva, che del più chiaro fondo di Sorga èsca, e pongasi a sedere in su la riva; or lho veduto su per lerba fresca calcare i fior comuna donna viva, mostrando in vista che di me le ncresca. |
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CCLXXXII
Alma felice, che sovente torni
Alma felice, che sovente torni a consolar le mie notti dolenti con gli occhi tuoi, che Morte non ha spenti, ma sovra l mortal modo fatti adorni, quanto gradisco che miei tristi giorni a rallegrar de tua vita consenti! Cosí comincio a ritrovar presenti le tue bellezze a suoi usati soggiorni. Là ve cantando andai da te moltanni, or, come vedi, vo di te piangendo; di te piangendo, no, ma de miei danni. Sol un riposo trovo in molti affanni, che, quando torni, te conosco, e ntendo, a landar, a la voce, al vólto, a panni. |
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CCLXXXIII
Discolorato hai, Morte, il più bel vólto
Discolorato hai, Morte, il più bel
vólto che mai si vide, e i più begli occhi spenti; spirto più acceso di vertuti ardenti, del più leggiadro e più bel nodo hai sciolto. In un momento ogni mio ben mhai tolto; posthai silenzio a più soavi accenti che mai sudîro, e me pien di lamenti: quantio veggio mè noia, e quantio ascolto. Ben torna a consolar tanto dolore madonna, ove pietà la riconduce; né trovo in questa vita altro soccorso. E se come ella parla, e come luce, ridir potessi, accenderei damore, non dirò duom, un cor di tigre o dorso. |
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CCLXXXIV
Sí breve l tempo e l penser sí veloce
Sí breve l tempo e l
penser sí veloce che mi rendon madonna cosí morta, chal gran dolor la medicina è corta: pur, mentrio veggio lei, nulla mi nòce. Amor, che mhai legato e tiemmi in croce, trema quando la vede in su la porta de lalma ove mancide, ancor sí scorta, sí dolce in vista, e sí soave in voce. Come donna in suo albergo altèra vène, scacciando de lsoscuro e grave core co la fronte serena i pensier tristi. Lalma, che tanta luce non sostene, sospira e dice: - O benedette lore del dí che questa via con li occhi apristi! - |
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CCLXXXV
Né mai pietosa madre al caro figlio
Né mai pietosa madre al caro figlio, né donna accesa al suo sposo diletto die con tanti sospir, con tal sospetto in dubbio stato sí fedel consiglio, come a me quella che l mio grave essiglio mirando dal suo eterno alto ricetto, spesso a me torna co lusato affetto, e di doppia pietate ornata il ciglio; or di madre, or damante, or teme, or arde donesto foco; e nel parlar mi mostra quel che n questo viaggio o fugga o segua, contando i casi de la vita nostra, pregando cha levar lalma non tarde: e sol quantella parla ho pace o tregua. |
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CCLXXXVI
Se quellaura soave de sospiri
Se quellaura soave de
sospiri chi odo di colei che qui fu mia donna, or è in cielo, et ancor par qui sia, e viva, e senta, e vada, et ami, e spiri, ritrar potessi, or che caldi desiri movrei parlando! sí gelosa e pia torna ovio son temendo non fra via mi stanchi, o n dietro o da man manca giri. Ir dritto, alto minsegna; et io che ntendo le sue caste lusinghe, e i giusti preghi col dolce mormorar pietoso e basso, secondo lei convèn mi regga e pieghi, per la dolcezza che del suo dir prendo, chavria vertù di far piangere un sasso. |
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CCLXXXVII
Sennuccio mio, ben che doglioso e solo
Sennuccio mio, ben che doglioso e solo mabbi lasciato, i pur mi riconforto, perché del corpo, overi preso e morto, alteramente se levato a volo. Or vedi inseme lun e laltro polo, le stelle vaghe, e lor viaggio torto, e vedi il veder nostro quanto è corto: onde col tuo gioir tempro l mio duolo. Ma ben ti prego che n la terza spera Guitton saluti, e messer Cino, e Dante, Franceschin nostro, e tutta quella schiera. A la mia donna puoi ben dire in quante lagrime io vivo; e son fattuna fera, membrando il suo bel viso, e lopre sante. |
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CCLXXXVIII
I ho pien di sospir questaere tutto
I ho pien di sospir
questaere tutto, daspri colli mirando il dolce piano, ove nacque colei chavendo in mano meo cor, in sul fiorire e n sul far frutto, è gita al cielo, ed hammi a tal condutto col sùbito partir, che di lontano gli occhi miei stanchi, lei cercando in vano, presso di sé non lassan loco asciutto. Non è sterpo, né sasso in questi monti, non ramo, o fronda verde in queste piagge, non fiore in queste valli, o foglia derba, stilla dacqua non vèn di queste fonti, né fiere han questi boschi sí selvagge, che non sappian quanto è mia pena acerba. |
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CCLXXXIX
Lalma mia fiamma oltra le belle bella
Lalma mia fiamma oltra le belle
bella, chebbe qui l ciel sí amico e sí cortese, anzi tempo per me nel suo paese è ritornata, et a la par sua stella. Or comincio a svegliarmi, e veggio chella per lo migliore al mio desir contese, e quelle voglie giovenili accese temprò con una vista dolce e fella. Lei ne ringrazio, e l suo alto consiglio, che col bel viso, e co soavi sdegni, fecemi, ardendo, pensar mia salute. O leggiadre arti, e lor effetti degni, lun co la lingua oprar, laltra col ciglio, io gloria in lei et ella in me vertute! |
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CCXC
Come va l mondo or mi diletta e piace
Come va l mondo or mi diletta e
piace quel che più mi dispiacque; or veggio e sento che, per aver salute, ebbi tormento, e breve guerra per eterna pace. O speranza, o desir sempre fallace, e de gli amanti più ben per un cento! o quantera il peggior farmi contento quella chor siede in cielo, e n terra giace! Ma l ceco Amor, e la mia sorda mente mi traviavan sí, chandar per viva forza mi convenia, dove morte era. Benedetta colei cha miglior riva volse il mio corso, e lempia voglia ardente, lusingando, affrenò, perchio non pèra! |
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CCXCI
Quandio veggio dal ciel scender lAurora
Quandio veggio dal ciel scender
lAurora co la fronte di ròse e co crin doro, Amor massale; ondio mi discoloro, e dico sospirando: - Ivi è laura ora. O felice Titon, tu sai ben lora da ricovrare il tuo caro tesoro; ma io che debbo far del dolce alloro? Che se l vo riveder, conven chio mora. I vostri dipartir non son sí duri; chalmen di notte suol tornar colei che non ha schifo le tue bianche chiome: le mie notti fa triste, e i giorni oscuri, quella che nha portato i pensèr miei, né di sé mi ha lasciato altro che l lume. |
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CCXCII
Gli occhi di chio parlai sí caldamente
Gli occhi di chio parlai sí
caldamente, e le braccia, e le mani, e i piedi, e l viso, che mavean sí da me stesso diviso, e fatto singular da laltra gente; le crespe chiome dòr puro lucente, e l lampeggiar de langelico riso che solean fare in terra un paradiso, poca polvere son, che nulla sente. Et io pur vivo; onde mi doglio e sdegno, rimaso senza l lume chamai tanto, in gran fortuna, e n disarmato legno. Or sia qui fine al mio amoroso canto: secca è la vena de lusato ingegno, e la cetera mia rivolta in pianto. |
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CCXCIII
Sio avesse pensato che sí care
Sio avesse pensato che sí care fossin le voci de sospir miei in rima, fatte lavrei, dal sospirar mio prima, in numero più spesse, in stil più rare. Morta colei che mi facea parlare, e che si stava de pensier miei in cima, non posso, e non ho più sí dolce lima, rime aspre e fosche far soavi e chiare. E certo ogni mio studio in quel tempo era pur di sfogare il doloroso core in qualche modo, non dacquistar fama. Pianger cercai, non già del pianto onore: or vorrei ben piacer; ma quella altèra, tacito, stanco, dopo sé mi chiama. |
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CCXCIV
Soleasi nel mio cor star bella e viva
Soleasi nel mio cor star bella e viva, comalta donna in loco umile e basso; or son fatto io per lultimo suo passo, non pur mortal, ma morto, et ella è diva. Lalma dogni suo ben spogliata e priva, Amor de la sua luce ignudo e casso devria de la pietà romper un sasso; ma non è chi lor duol riconti, o scriva: ché piangon dentro, ovogni orecchia è sorda, se non la mia, cui tanta doglia ingombra, chaltro che sospirar nulla mavanza. Veramente siam noi polvere et ombra; veramente la voglia cieca e ngorda; veramente fallace è la speranza. |
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CCXCV
Soleano i miei penser soavemente
Soleano i miei penser soavemente di lor obgetto ragionare inseme: - Pietà sappressa, e del tardar si pente: forse or parla di noi, o spera, o teme. - Poi che lultimo giorno, e lore estreme spogliâr di lei questa vita presente, nostro stato dal ciel vede, ode, e sente: altra di lei non è rimaso speme. O miracol gentile! o felice alma! o beltà senza essempio altèra e rara, che tosto è ritornata ondella uscìo Ivi ha del suo ben far corona e palma quella chal mondo sí famosa e chiara fe la sua gran vertute, e l furor mio. |
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CCXCVI
I mi soglio accusare, et or mi scuso
I mi soglio accusare, et or mi
scuso, anzi me pregio, e tengo assai più caro de lonesta pregion, del dolce amaro colpo, chi portai già moltanni chiuso. Invide Parche, sí repente il fuso troncaste, chattorcea soave e chiaro stame al mio laccio, e quello aurato e raro strale, onde morte piacque oltra nostro uso! Ché non fu dallegrezza a suoi dí mai, di libertà, di vita alma sí vaga, che non cangiasse l suo natural modo, togliendo anzi per lei sempre trar guai, che cantar per qualunque, e di tal piaga morir contenta, e vivere in tal nodo. |
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CCXCVII
Due gran nemiche inseme erano agiunte
Due gran nemiche inseme erano agiunte, Bellezza et Onestà, con pace tanta che mai rebellion lanima santa non sentí poi cha star seco fûr giunte. Et or per morte son sparse e disgiunte: luna è nel ciel, che se ne gloria e vanta; laltra sotterra, che begli occhi amanta, onde uscîr già tantamorose punte. Latto soave, e l parlar saggio e umìle che movea dalto loco, e l dolce sguardo che piagava il mio core (ancor lacenna), sono spariti; e sal seguir son tardo, forse averrà che l bel nome gentile consecrerò con questa stanca penna. |
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CCXCVIII
Quandio mi volgo in dietro a mirar gli anni
Quandio mi volgo in dietro a
mirar gli anni channo fuggendo i miei penseri sparsi, e spento l foco, ove agghiacciando io arsi, e finito il riposo pien daffanni, rotta la fé de gli amorosi inganni, e sol due parti dogni mio ben farsi, luna nel cielo, e laltra in terra starsi, e perduto il guadagno de miei danni, i mi riscuoto, e trovomi sí nudo, chi porto invidia ad ogni estrema sorte: tal cordoglio e paura ho di me stesso. O mia stella, o fortuna, o fato, o morte, o per me sempre dolce giorno e crudo, come mavete in basso stato messo. |
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CCXCIX
Ovè la fonte, che con picciol cenno
Ovè la fonte, che con picciol
cenno volgea il mio core in questa parte e n quella? Ovè l bel ciglio, e luna e laltra stella chal corso del mio viver lume dênno? Ovè l valor, la conoscenza, e l senno? Laccorta, onesta, umìl, dolce favella? Ove son le bellezze accolte in ella, che gran tempo di me lor voglia fênno? Ovè lombra gentil del viso umano, chôra e riposo dava a lalma stanca, e là ve i miei pensier scritti eran tutti? Ovè colei che mia vita ebbe in mano? Quanto al misero mondo, e quanto manca a gli occhi miei che mai non fíen asciutti! |
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CCC
Quanta invidia ti porto, avara terra
Quanta invidia ti porto, avara terra, chabbracci quella, cui veder mè tolto, e mi contendi laria del bel vólto, dove pace trovai dogni mia guerra! Quanta ne porto al ciel, che chiude e serra, e sí cupidamente ha in sé raccolto lo spirto da le belle membra sciolto, e per altrui sí rado si diserra! Quanta invidia a questanime che n sorte hanno or sua santa e dolce compagnia, la qual io cercai sempre con tal brama! Quanta la dispietata e dura morte, chavendo spento in lei la vita mia, stassi ne suoi begli occhi, e me non chiama! |
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© 30 aprile 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
8 maggio 1996 - Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998