FRANCESCO PETRARCA

CANZONIERE
CXI-CXL

RERUM VULGARIUM FRAGMENTA
codice Vaticano 3195

In vita di Madonna Laura

CXI
La donna che ’l mio cor nel viso porta

      La donna che ’l mio cor nel viso porta,
là dove sol fra bei pensier d’amore
sedea, m’apparve; et io per farle onore
mossi con fronte reverente e smorta.
      Tosto che del mio stato fussi accorta,
a me si volse in sì novo calore
ch’avrebbe a Giove nel maggior furore
tolto l’arme di mano, e l’ira morta.
      I’ mi riscossi; et ella oltra, parlando,
passò, che la parola i’ non soffersi,
né ’l dolce sfavillar degli occhi suoi.
      Or mi ritrovo pien di sì diversi
piaceri, in quel saluto ripensando,
che duol non sento, né sentì’ ma’ poi.
 
 
 
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CXII
Sennuccio, i’ vo’ che sappi in qual manera

      Sennuccio, i’ vo’ che sappi in qual manera
trattato sono, e qual vita è la mia:
ardomi e struggo ancor com’io solia;
l’aura mi volve; e son pur quel ch’i’ m’era.
      Qui tutta umile, e qui la vidi altèra,
or aspra, or piana, or dispietata, or pia;
or vestirsi onestate, or leggiadria,
or mansueta, or disdegnosa e fera;
      qui cantò dolcemente, e qui s’assise;
qui si rivolse, e qui rattenne il passo;
qui co’ begli occhi mi trafisse il core;
      qui disse una parola, e qui sorrise;
qui cangiò ’l viso. In questi pensier, lasso!,
notte e dì tiemmi il signor nostro Amore.
 
 
 
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 CXIII
Qui, dove mezzo son, Sennuccio mio

      Qui, dove mezzo son, Sennuccio mio,
(così ci foss’io intero, e voi contento)
venni fuggendo la tempesta e ’l vento
c’hanno sùbito fatto il tempo rio.
      Qui son securo: e vo’ vi dir perch’io
non, come soglio, il folgorar pavento,
e perché mitigato, non che spento,
né mica trovo il mio ardente desio.
      Tosto che giunto a l’amorosa reggia
vidi onde nacque l’aura dolce e pura,
ch’acqueta l’aere e mette i tuoni in bando,
      Amor ne l’alma, ov’ella signoreggia,
raccese ’l foco, e spense la paura:
che farrei dunque gli occhi suoi guardando?
 
 
 
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 CXIV
De l’empia Babilonia, ond’è fuggita

      De l’empia Babilonia, ond’è fuggita
ogni vergogna, ond’ogni bene è fòri,
albergo di dolor, madre d’errori,
son fuggito io per allungar la vita.
      Qui mi sto solo; e, come Amor m’invita,
or rime e versi, or colgo erbette e fiori,
seco parlando, et a tempi migliori
sempre pensando: e questo sol m’aita.
      Né del vulgo mi cal, né di fortuna,
né di me molto, né di cosa vile,
né dentro sento né di fuor gran caldo.
      Sol due persone cheggio; e vorrei l’una
col cor vèr’ me pacificato umìle,
l’altro col pie’, sì come mai fu, saldo.
 
 
 
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CXV
In mezzo di duo amanti onesta altèra

      In mezzo di duo amanti onesta altèra
vidi una donna, e quel signor co lei
che fra gli uomini regna, e fra li dèi;
e da l’un lato il Sole, io da l’altro era.
      Poi che s’accorse chiusa da la spera
de l’amico più bello, a gli occhi miei
tutta lieta si volse; e ben vorrei,
che mai non fosse in vèr’ di me più fera.
      Sùbito in allegrezza si converse
la gelosia che ’n su la prima vista
per sì alto adversario, al cor mi nacque.
      A lui la faccia lagrimosa e trista
un nuviletto intorno ricoverse;
cotanto l’esser vinto li dispiacque.
 
 
 
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CXVI
Pien di quella ineffabile dolcezza

      Pien di quella ineffabile dolcezza
che del bel viso trassen gli occhi miei
nel dì che volentier chiusi gli avrei
per non mirar già mai minor bellezza,
      lassai quel ch’i’ più bramo; et ho sì avezza
la mente a contemplar solo costei
ch’altro non vede, e ciò che non è lei
già per antica usanza odia e disprezza.
      In una valle chiusa d’ogni ’ntorno,
ch’è refrigerio de’ sospir miei lassi,
giunsi sol con Amor, pensoso e tardo.
      Ivi non donne, ma fontane e sassi,
e l’imagine trovo di quel giorno
che ’l pensier mio figura ovunque io sguardo.
 
 
 
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CXVII
Se ’l sasso, ond’è più chiusa questa valle

      Se ’l sasso, ond’è più chiusa questa valle,
di che ’l suo proprio nome si deriva,
tenesse vòlto, per natura schiva,
a Roma il viso et a Babel le spalle,
      i miei sospiri più benigno calle
avrian per gire ove lor spene è viva:
or vanno sparsi, e pur ciascuno arriva
là dov’io il mando, che sol un non falle;
      e son di là sì dolcemente accolti,
com’io m’accorgo, che nessun mai torna,
con tal diletto in quelle parti stanno.
      De gli occhi è duol; che tosto che s’aggiorna
per gran desio de’ be’ luoghi a lor tolti,
dànno a me pianto, et a’ pie’ lassi affanno.
 
 
 
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CXVIII
Rimansi a dietro al sestodecimo anno

      Rimansi a dietro al sestodecimo anno
de’ miei sospiri, et io trapasso inanzi
verso l’estremo; e parmi che pur dianzi
fosse ’l principio di cotanto affanno.
      L’amar m’è dolce, et util il mio danno,
e ’l viver grave; e prego ch’egli avanzi
l’empia fortuna; e temo non chiuda anzi
morte i begli occhi che parlar mi fanno.
      Or qui son, lasso!, e voglio esser altrove;
e vorrei più volere, e più non voglio;
e per più non poter fo quant’io posso;
      e d’antichi desir lagrime nove
provan com’io son pur quel ch’i’ mi soglio,
né per mille rivolte ancor son mosso.
 
 
 
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 CXIX
Una donna più bella assai che ’l sole

      Una donna più bella assai che ’l sole,
e più lucente, e d’altrettanta etade,
con famosa beltade,
acerbo ancor, mi trasse a la sua schiera.
Questa in penseri, in opre et in parole
(però ch’è de le cose al mondo rade),
questa per mille strade
sempre inanzi mi fu leggiadra, altèra.
Solo per lei tornai da quel ch’i’ era,
poi ch’i’ soffersi gli occhi suoi da presso;
per suo amor m’er’io messo
a faticosa impresa assai per tempo;
tal che s’i’ arrivo al disiato porto,
spero per lei gran tempo
viver, quand’altri mi terrà per morto.

      Questa mia donna mi menò molt’anni
pien di vaghezza giovenile ardendo,
sì come ora io comprendo,
sol per aver di me più certa prova,
mostrandomi pur l’ombra, o ’l velo, o’ panni
talor di sé, ma ’l viso nascondendo;
et io, lasso!, credendo
vederne assai, tutta l’età mia nova
passai contento, e ’l rimembrar mi giova,
poi ch’alquanto di lei veggi’ or più inanzi.
I’ dico che pur dianzi,
qual io non l’avea vista in fin allora,
mi si scoverse; onde mi nacque un ghiaccio
nel core; et evvi ancòra
e sarà sempre fin ch’i’ le sia in braccio.

      Ma non mel tolse la paura o ’l gielo,
che pur tanta baldanza al mio cor diedi,
ch’i’ le mi strinsi a’ piedi
per più dolcezza trar de gli occhi suoi:
et ella, che remosso avea già il velo
dinanzi a’ miei, mi disse: - Amico, or vedi
com’io son bella; e chiedi
quanto par si convenga a gli anni tuoi. -
- Madonna - dissi - già gran tempo in voi
posi ’l mio amor, ch’i’ sento or sì infiammato;
ond’a me in questo stato,
altro volere o disvoler m’è tolto. -
con voce allor di sì mirabil tempre
rispose, e con un vúlto,
che temer e sperar mi farà sempre:

      - Rado fu al mondo, fra così gran turba,
ch’udendo ragionar del mio valore,
non si sentisse al core,
per breve tempo almen, qualche favilla;
ma l’adversaria mia, che ’l ben perturba,
tosto la spegne; ond’ogni vertù more,
e regna altro signore
che promette una vita più tranquilla.
De la tua mente Amor, che prima aprilla,
mi dice cose veramente, ond’io
veggio che ’l gran desio
pur d’onorato fin ti farà degno;
e come già se’ de’ miei rari amici,
donna vedrai per segno,
che farà gli occhi tuoi via più felici. -

      I’ volea dir - quest’è impossibil cosa -
quand’ella: - Or mira (e leva’ gli occhi un poco
in più riposto loco)
donna ch’a pochi si mostrò già mai. -
Ratto inchinai la fronte vergognosa,
sentendo novo dentro maggior foco.
Et ella il prese in gioco,
dicendo: - I’ veggio ben dove tu stai.
Sì come ’l sol con suoi possenti rai
fa sùbito sparire ogni altra stella,
così par or men bella
la vista mia, cui maggior luce preme.
Ma io però da’ miei non ti diparto;
ché questa e me d’un seme,
lei davanti e me poi, produsse un parto. -

      Rùppesi in tanto di vergogna il nodo
ch’a la mia lingua era distretto intorno
su nel primiero scorno,
allor quand’io del suo accorger m’accorsi;
e ’ncominciai: - S’egli è ver quel ch’i’ odo,
beato il padre, e benedetto il giorno
c’ha di voi il mondo adorno,
e tutto ’l tempo ch’a vedervi io corsi!
E se mai da la via dritta mi torsi,
duolmene forte, assai più ch’i’ non mostro.
Ma se de l’esser vostro
fossi degno udir più, del desir ardo. -
Pensosa mi rispose, e così fiso
tenne il suo dolce sguardo,
ch’al cor mandò co le parole il viso:

      - Sì come piacque al nostro eterno padre,
ciascuna di noi due nacque immortale.
Miseri! a voi che vale?
Me’ v’era che da noi fosse il defetto.
Amate, belle, gioveni e leggiadre
fummo alcun tempo; et or siam giunte a tale
che costei batte l’ale
per tornar a l’antico suo recetto;
i’ per me sono un’ombra. Et or t’ho detto,
quanto per te sì breve intender puossi. -
Poi che i pie’ suoi fûr mossi,
dicendo: - Non temer ch’i’ m’allontani -
di verde lauro una ghirlanda colse,
la qual co le sue mani
intorno intorno a le mie tempie avolse.

      Canzon, chi tua ragion chiamasse obscura,
di’: - Non ho cura, perché tosto spero
ch’altro messaggio il vero
farà più chiara voce manifesto.
I’ venni sol per isvegliare altrui,
se, chi m’impose questo,
non m’ingannò, quand’io parti’ da lui. -

 
 
 
 
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 CXX
Quelle pietose rime, in ch’io m’accorsi

      Quelle pietose rime, in ch’io m’accorsi
di vostro ingegno, e del cortese affetto,
èbben tanto vigor nel mio conspetto
che ratto a questa penna la man porsi,
      per far voi certo che gli estremi morsi
di quella ch’io con tutto ’l mondo aspetto,
mai non sentì’, ma pur, senza sospetto,
in fin a l’uscio del suo albergo corsi;
      poi tornai in dietro, perch’io vidi scritto,
di sopra ’l limitar, che ’l tempo ancúra
non era giunto al mio viver prescritto;
      ben ch’io non vi legessi il dì né l’ora.
Dunque s’acqueti omai ’l cor vostro afflitto,
e cerchi uom degno, quando sì l’onora.
 
 
 
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 CXXI
Or vedi, Amor, che giovenetta donna

      Or vedi, Amor, che giovenetta donna
tuo regno sprezza e del mio mal non cura,
e tra duo ta’ nemici è sì secura.
      Tu se’ armato, et ella in treccie e ’n gonna
si siede, e scalza, in mezzo i fiori e l’erba,
vèr’ me spietata, e ’n contra te superba.
      I’ son pregion; ma se pietà ancor serba
l’arco tuo saldo, e qualcuna saetta,
fa di te, e di me, signor, vendetta.
 
 
 
 
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 CXXII
Dicesette anni ha già rivolto il cielo

      Dicesette anni ha già rivolto il cielo
poi che ’mprima arsi, e già mai non mi spensi;
ma quando avèn ch’al mio stato ripensi,
sento nel mezzo de le fiamme un gielo.
      Vero è ’l proverbio, ch’altri cangia il pelo
anzi che ’l vezzo; e per lentar i sensi,
gli umani affetti non son meno intensi:
ciò ne fa l’ombra ria del grave velo.
      Oi me lasso!, e quando fia quel giorno
che mirando il fuggir de gli anni miei,
èsca del foco, e di sì lunghe pene?
      Vedrò mai il dì che pur quant’io vorrei
quel’aria dolce del bel viso adorno
piaccia a quest’occhi, e quanto si convene?
 
 
 
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CXXIII
Quel vago impallidir che ’l dolce riso

      Quel vago impallidir che ’l dolce riso
d’un’amorosa nebbia ricoperse,
con tanta maiestade al cor s’offerse
che li si fece incontr’ a mezzo ’l viso.
      Conobbi allor sì come in paradiso
vede l’un l’altro; in tal guisa s’aperse
quel pietoso penser ch’altri non scerse;
ma vidil io, ch’altrove non m’affiso.
      Ogni angelica vista, ogni atto umìle
che già mai in donna, ov’amor fosse, apparve,
fôra uno sdegno a lato a quel ch’i’ odo.
      Chinava a terra il bel guardo gentile,
e tacendo dicea, come a me parve:
- Chi m’allontana il mio felice amico? -
 
 
 
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 CXXIV
Amor, Fortuna, e la mia mente schiva

      Amor, Fortuna, e la mia mente schiva
di quel che vede, e nel passato volta
m’affliggon sì, ch’io porto alcuna volta
invidia a quei che son su l’altra riva.
      Amor mi strugge ’l cor; Fortuna il priva
d’ogni conforto; onde la mente stolta
s’adira e piange: e così in pena molta
sempre conven che combattendo viva.
      Né spero i dolci dì tornino in dietro,
ma pur di male in peggio quel ch’avanza;
e di mio corso ho già passato ’l mezzo.
      Lasso!, non di diamante, ma d’un vetro
veggio di man cadermi ogni speranza,
e tutt’i i miei pensier romper nel mezzo.
 
 
 
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CXXV
Se ’l pensier che mi strugge

      Se ’l pensier che mi strugge,
com’è pungente e saldo,
così vestisse d’un color conforme,
forse tal m’arde e fugge,
ch’avria parte del caldo,
e desteriasi Amor là dov’or dorme;
men solitarie l’orme
fôran de’ miei pie’ lassi
per campagne e per colli,
men gli occhi ad ogn’or molli,
ardendo lei come un ghiaccio stassi,
e non lascia in me dramma
che non sia foco e fiamma.

      Però ch’Amor mi sforza
e di saver mi spoglia,
parlo in rime aspre e di dolcezza ignude.
Ma non sempre a la scorza
ramo, né in fior, né ’n foglia,
mostra di fòr sua natural vertude.
Miri ciò che ’l cor chiude,
Amor e que’ begli occhi,
ove si siede a l’ombra.
Se ’l dolor che si sgombra
avèn che ’n pianto o in lamentar trabocchi,
l’un a me noce, e l’altro
altrui, ch’io non lo scaltro.

      Dolci rime leggiadre
che nel primiero assalto
d’Amor usai, quand’io non ebbi altr’arme,
chi verrà mai che squadre
questo mio cor di smalto,
ch’almen, com’io solea, possa sfogarme?
Ch’aver dentro a lui parme
un che madonna sempre
depinge, e de lei parla:
a voler poi ritrarla,
per me non basto; e par ch’io me ne stempre.
Lasso!, così m’è scorso
lo mio dolce soccorso.

      Come fanciul ch’a pena
volge la lingua e snoda,
che dir non sa, ma ’l più tacer gli è noia,
così ’l desir mi mena
a dire; e vo’ che m’oda
la dolce mia nemica anzi ch’io moia.
Se forse ogni sua gioia
nel suo bel viso è solo,
e di tutt’altro è schiva,
odil tu, verde riva,
e presta a’ miei sospir sì largo volo,
che sempre si ridica
come tu m’eri amica.

      Ben sai che sì bel piede
non toccò terra unquanco
come quel dì che già segnata fosti,
onde ’l cor lasso riede,
col tormentoso fianco,
a partir teco i lor pensier nascosti.
Così avestù riposti
de’ be’ vestigi sparsi
ancor tra’ fiori e l’erba,
che la mia vita acerba,
lagrimando, trovasse ove acquietarsi!
Ma come po’ s’appaga
l’alma dubbiosa e vaga.

      Ovunque gli occhi volgo
trovo un dolce sereno
pensando: qui percosse il vago lume.
Qualunque erba o fior colgo
credo che nel terreno
aggia radice, ov’ella ebbe in costume
gir fra le piagge e ’l fiume,
e talor farsi un seggio
fresco, fiorito e verde.
Così nulla sen perde;
e più certezza averne fôra il peggio.
Spirto beato, quale
se’, quando altrui fai male?

      O poverella mia, come se’ rozza!
Credo che tel conoschi:
rimanti in questi boschi.

 
 
 
 
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CXXVI
Chiare, fresce, dolci acque

      Chiare, fresce, dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo, ove piacque
(con sospir mi rimembra)
a lei di fare al bel fianco colonna;
erba e fior, che la gonna
leggiadra ricoverse
co l’angelico seno;
aere sacro, sereno,
ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse;
date udienza insieme
a le dolenti mie parole estreme.

      S’egli è pur mio destino
(e ’l cielo in ciò s’adopra)
ch’Amor quest’occhi lagrimando chiuda,
qualche grazia il meschino
corpo fra voi ricopra,
e torni l’alma al proprio albergo ignuda.
La morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo;
ché lo spirito lasso
non porìa mai più in riposato albergo
né in più tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata e l’ossa.

      Tempo verrà ancor forse
ch’a l’usato soggiorno
torni la fera bella e mansueta,
e là ’v’ella mi scòrse
nel benedetto giorno,
volga la vista disiosa e lieta,
cercandomi; et, o pièta!,
già terra in fra le pietre
vedendo, Amor l’inspiri
in guisa che sospiri
sì dolcemente che mercé m’impetre,
e faccia forza al cielo,
asciugandosi gli occhi col bel velo.

      Da’ be’ rami scendea
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior sovra ’l suo grembo;
et ella si sedea
umile in tanta gloria,
coverta già de l’amoroso nembo;
qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch’oro forbito e perle
eran quel dì a vederle;
qual si posava in terra, e qual su l’onde;
qual con un vago errore
girando parea dir - qui regna Amore. -

      Quante volte diss’io
allor pien di spavento:
- costei per fermo nacque in paradiso! -
Così carco d’oblio
il divin portamento,
e ’l vúlto, e le parole, e ’l dolce riso,
m’aveano e sì diviso
da l’imagine vera,
ch’i’ dicea sospirando:
- Qui come venn’io, o quando? -
credendo esser in ciel, non là dov’era.
Da indi in qua mi piace
questa erba sì, ch’altrove non ho pace.

      Se tu avessi ornamenti, quant’hai voglia,
poresti arditamente
uscir del bosco, e gir in fra la gente.

 
 
 
 
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 CXXVII
In quella parte dove Amor mi sprona

      In quella parte dove Amor mi sprona
conven ch’io volga le dogliose rime,
che son seguaci de la mente afflitta.
Quai fien l’ultime, lasso!, e qua’ fien prime?
Collui che del mio mal meco ragiona
mi lascia in dubbio, sì confuso ditta.
Ma pur quanto l’istoria trovo scritta
in mezzo ’l cor, che sì spesso rincorro,
co la sua propria man, de’ miei martìri,
dirò; perché i sospiri
parlando han triegua, et al dolor soccorro.
Dico che, perch’io miri
mille cose diverse attento e fiso,
sol una donna veggio, e ’l suo bel viso.

      Poi che la dispietata mia ventura
m’ha dilungato dal maggior mio bene,
noiosa, inesorabile e superba,
Amor col rimembrar sol mi mantene:
onde s’io veggio in giovenil figura
incominciarsi il mondo a vestir d’erba,
parmi vedere in quella etate acerba
la bella giovenetta, ch’ora è donna;
poi che sormonta riscaldando il sole,
parmi qual esser sòle,
fiamma d’amor che ’n cor alto s’endonna;
ma quando il dì si dole
di lui che passo a passo a dietro torni,
veggio lei giunta a’ suoi perfetti giorni.

      In ramo fronde, o ver viole in terra
mirando a la stagion che ’l freddo perde,
e le stelle miglior acquistan forza,
ne gli occhi ho pur le violette e ’l verde
di ch’era nel principio de mia guerra
Amor armato, sì, ch’ancor mi sforza,
e quella dolce leggiadretta scorza
che ricopria le pargolette membra
dove oggi alberga l’anima gentile
ch’ogni altro piacer vile
sembiar mi fa; sì forte mi rimembra
del portamento umìle
ch’allor fioriva, e poi crebbe anzi a gli anni,
cagion sola e riposo de’ miei affanni.

      Qualor tenera neve per li colli
dal sol percossa veggio di lontano,
come ’l sol neve mi governa Amore,
pensando nel bel viso più che umano
che po’ da lunge gli occhi miei far molli,
ma da presso gli abbaglia, e vince il core;
ove, fra ’l bianco e l’aureo colore,
sempre si mostra quel che mai non vide
occhio mortal, ch’io creda, altro che ’l mio;
e del caldo desio,
ch’è quando sospirando ella sorride,
m’infiamma sì che oblio
niente aprezza, ma diventa eterno;
né state il cangia, né lo spegne il verno.

      Non vidi mai dopo notturna pioggia
gir per l’aere sereno stelle erranti,
e fiammeggiar fra la rugiada e ’l gielo,
ch’i’ non avesse i begli occhi davanti,
ove la stanca mia vita s’appoggia,
quali io gli vidi a l’ombra d’un bel velo;
e si come di lor bellezze il cielo
splendea quel dì, così bagnati ancòra
li veggio sfavillare; ond’io sempre ardo.
Se ’l sol levarsi sguardo,
sento il lume apparir che m’innamora;
se tramontarsi al tardo,
parmel veder quando si volge altrove
lassando tenebroso onde si move.

      Se mai candide ròse con vermiglie
in vasel d’oro vider gli occhi miei,
allor allor da vergine man colte,
veder pensaro il viso di colei
ch’avanza tutte l’altre meraviglie
con tre belle eccellenzie in lui raccolte:
le bionde treccie sopra ’l collo sciolte,
ov’ogni latte perderia sua prova,
e le guancie ch’adorna un dolce foco.
Ma pur che l’ôra un poco
fior bianchi e gialli per le piaggie mova,
torna a la mente il loco
e ’l primo dì ch’i’ vidi a l’aura sparsi
i capei d’oro, ond’io sì subito arsi.

      Ad una ad una annoverar le stelle,
e ’n picciol vetro chiuder tutte l’acque
forse credea, quando in sì poca carta
novo penser di ricontar mi nacque
in quante parti il fior de l’altre belle,
stando in sé stessa, ha la sua luce sparta
a ciò che mai da lei non mi diparta;
né farò io; e se pur talor fuggo,
in cielo e ’n terra m’ha racchiuso i passi;
perch’a gli occhi miei lassi
sempre è presente, ond’io tutto mi struggo;
e così meco stassi,
ch’altra non veggio mai, né veder bramo,
né ’l nome d’altra ne’ sospir miei chiamo.

      Ben sai, canzon, che quant’io parlo è nulla
al celato amoroso mio pensero,
che dì e notte ne la mente porto;
solo per cui conforto
in così lunga guerra anco non pèro;
ché ben m’avria già morto
la lontananza del mio cor piangendo;
ma quinci da la morte indugio prendo.

 
 
 
 
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 CXXVIII
Italia mia, ben che ’l parlar sia indarno

      Italia mia, ben che ’l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo tuo sì spesse veggio,
piacemi almen che ’ miei sospir sian quali
spera ’l Tevero e l’Arno,
e ’l Po, dove doglioso e grave or seggio.
Rettor del cielo, io cheggio
che la pietà che ti condusse in terra
ti volga al tuo diletto almo paese:
vedi, segnor cortese,
di che lievi cagion che crudel guerra;
e i cor, che ’ndura e serra
Marte superbo e fero,
apri tu, padre, e ’ntenerisci e snoda;
ivi fa che ’l tuo vero,
qual io mi sia, per la mia lingua s’oda.

      Voi, cui fortuna ha posto in mano il freno
de le belle contrade,
di che nulla pietà par che vi stringa,
che fan qui tante pellegrine spade?
perché ’l verde terreno
del barbarico sangue si depinga?
Vano error vi lusinga;
poco vedete, e parvi veder molto,
ché ’n cor venale amor cercate o fede.
Qual più gente possede
colui è più da’ suoi nemici avolto.
O diluvio raccolto
di che deserti strani
per inondar i nostri dolci campi!
Se da le proprie mani
questo n’avène, or chi fia che ne scampi?

      Ben provide natura al nostro stato,
quando de l’Alpi schermo
pose fra noi e la tedesca rabbia;
ma ’l desir cieco, e ’n contr’al suo ben fermo,
s’è poi tanto ingegnato,
ch’al corpo sano ha procurato scabbia.
Or dentro ad una gabbia
fiere selvagge e mansuete gregge
s’annidan sì che sempre il miglior geme:
et è questo del seme,
per più dolor, del popol senza legge,
al qual, come si legge,
Mario aperse sì ’l fianco,
che memoria de l’opra anco non langue,
quando, assetato e stanco,
non più bevve del fiume acqua che sangue.

      Cesare taccio che per ogni piaggia
fece l’erbe sanguigne
di lor véne, ove ’l nostro ferro mise.
Or par, non so per che stelle maligne,
che ’l cielo in odio n’aggia:
vostra mercé, cui tanto si commise:
vostre voglie divise
guastan del mondo la più bella parte.
Qual colpa, qual giudicio, o qual destino
fastidire il vicino
povero, e le fortune afflitte e sparte
perseguire, e ’n disparte
cercar gente, e gradire,
che sparga ’l sangue e venda l’alma a prezzo?
Io parlo per ver dire,
non per odio d’altrui né per disprezzo.

     Né v’accorgete ancor per tante prove
del bavarico inganno
ch’alzando il dito, colla morte scherza?
Peggio è lo strazio, al mio parer, che ’l danno:
ma ’l vostro sangue piove
più largamente: ch’altr’ira vi sferza.
Da la matina a terza
di voi pensate, e vederete come
tien caro altrui chi tien sé così vile.
Latin sangue gentile,
sgombra da te queste dannose some;
non far idolo un nome
vano senza soggetto;
ché ’l furor de lassù, gente ritrosa,
vincerne d’intelletto,
peccato è nostro, e non natural cosa.

      Non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria?
non è questo il mio nido
ove nudrito fui sì dolcemente?
non è questa la patria in ch’io mi fido,
madre benigna e pia,
che copre l’un e l’altro mio parente?
Per Dio, questo la mente
talor vi mova, e con pietà guardate
le lagrime del popol doloroso,
che sol da voi riposo
dopo Dio spera; e pur che voi mostriate
segno alcun di pietate,
vertù contra furore
prenderà l’arme; e fia ’l combatter corto,
ché l’antiquo valore
ne l’italici cor non è ancor morto.

      Signor, mirate come ’l tempo vola,
e sì come la vita
fugge, e la morte n’è sovra le spalle:
voi siete or qui; pensate a la partita:
ché l’alma ignuda e sola
conven ch’arrive a quel dubbioso calle.
Al passar questa valle,
piacciavi porre giù l’odio e lo sdegno,
vènti contrari a la vita serena;
e quel che ’n altrui pena
tempo si spende, in qualche atto più degno
o di mano o d’ingegno,
in qualche bella lode,
in qualche onesto studio si converta:
così qua giù si gode,
e la strada del ciel si trova aperta.

      Canzone, io t’ammonisco
che la tua ragion cortesemente dica;
perché fra gente altèra ir ti convene
e le voglie son piene
già de l’usanza pessima et antica,
del ver sempre nemica.
Proverai tua ventura
fra magnanimi pochi a chi ’l ben piace:
di’ lor: - Chi m’assicura?
I’ vo gridando: «Pace, pace, pace!»

 
 
 
 
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 CXXIX
Di pensier in pensier, di monte in monte

      Di pensier in pensier, di monte in monte
mi guida Amor; ch’ogni segnato calle
provo contrario a la tranquilla vita.
Se ’n solitaria piaggia, rivo, o fonte,
se ’n fra duo poggi siede ombrosa valle,
ivi s’acqueta l’alma sbigottita;
e come Amor l’envita,
or ride, or piange, or teme, or s’assecura:
e ’l volto che lei segue ov’ella il mena
si turba e rasserena,
et in un esser picciol tempo dura;
onde a la vista uom di tal vita esperto
diria: - Questo arde, e di suo stato è incerto, -

      Per alti monti e per selve aspre trovo
qualche riposo; ogni abitato loco
è nemico mortal de gli occhi miei.
A ciascun passo nasce un penser novo
de la mia donna, che sovente in gioco
gira ’l tormento ch’i’ porto per lei;
et a pena vorrei
cangiar questo mio viver dolce amaro,
ch’i’ dico: - Forse ancor ti serva Amore
ad un tempo migliore;
forse, a te stesso vile, altrui se’ caro. -
Et in questa trapasso sospirando:
or porrebbe esser vero? or come? or quando?

      Ove porge ombra un pino alto od un colle
talor m’arresto, e pur nel primo sasso
disegno co la mente il suo bel viso.
Poi ch’a me torno, trovo il petto molle
de la pietate; et alor dico: - Ahi, lasso,
dove se’ giunto! et onde se’ diviso! -
Ma mentre tener fiso
posso al primo pensier la mente vaga,
e mirar lei, et obliar me stesso,
sento Amor sì da presso
che del suo proprio error l’alma s’appaga:
in tante parti e sì bella la veggio,
che se l’error durasse, altro non cheggio.

      I’ l’ho più volte (or chi fia che m’il creda?)
ne l’acqua chiara, e sopra l’erba verde
veduto viva, e nel troncon d’un faggio,
e ’n bianca nube sì fatta che Leda
avria ben detto che sua figlia perde,
come stella che ’l sol copre col raggio;
e quanto in più selvaggio
loco mi trovo e ’n più deserto lido,
tanto più bella il mio pensier l’adombra.
Poi quando il vero sgombra
quel dolce error, pur lì medesmo assido
me freddo, pietra morta, in pietra viva,
in guisa d’uom che pensi e pianga e scriva.

      Ove d’altra montagna ombra non túcchi
verso ’l maggiore e ’l più espedito giogo
tirar mi suol un desiderio intenso.
Indi i miei danni a misurar co gli occhi
comincio, e ’n tanto lagrimando sfogo
di dolorosa nebbia il cor condenso,
alor ch’i’ miro e penso,
quanta aria dal bel viso mi diparte,
che sempre m’è sì presso e sì lontano;
poscia fra me pian piano:
- Che sai tu, lasso? Forse in quella parte
or di tua lontananza si sospira -;
et in questo penser l’alma respira.

      Canzone, oltra quell’alpe,
là dove il ciel è più sereno e lieto,
mi rivedrai sovr’un ruscel corrente,
ove l’aura si sente
d’un fresco et odorifero laureto:
ivi è ’l mio cor, e quella che ’l m’invola;
qui veder pòi l’imagine mia sola.

 
 
 
 
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 CXXX
Poi che ’l camin m’è chiuso di mercede

      Poi che ’l camin m’è chiuso di mercede,
per desperata via son dilungato
da gli occhi ov’era (i’ non so per qual fato)
riposto il guidardon d’ogni mia fede.
      Pasco ’l cor di sospir, ch’altro non chiede,
e di lagrime vivo, a pianger nato:
né di ciò duolmi, perché in tale stato
è dolce il pianto più ch’altri non crede.
      E sol ad una imagine m’attegno,
che fe’ non Zeusi, o Prasitele, o Fidia,
ma il miglior mastro, e di più alto ingegno.
      Qual Scizia m’assicura, o qual Numidia,
s’ancor non sazia del mio essilio indegno,
così nascosto mi ritrova invidia?
 
 
 
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 CXXXI
Io canterei d’amor sì novamente

      Io canterei d’amor sì novamente
ch’al duro fianco il dì mille sospiri
trarrei per forza, e mille alti desiri
raccenderei ne la gelata mente;
      e ’l bel viso vedrei cangiar sovente,
e bagnar gli occhi, e più pietosi giri
far, come suol chi de gli altrui martìri
e del suo error quando non val si pente;
      e le ròse vermiglie in fra la neve
mover da l’ôra, e discovrir l’avorio
che fa di marmo chi da presso ’l guarda;
      e tutto quel per che nel viver breve
non rincresco a me stesso, anzi mi glorio
d’esser servato a la stagion più tarda.
 
 
 
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 CXXXII
S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento?

      S’amor non è, che dunque è quel ch’io sento?
ma s’egli è amor, per Dio, che cosa e quale?
se bona, ond’è l’effetto aspro e mortale?
se ria, ond’è sì dolce ogni tormento?
      S’a mia voglia ardo, ond’è ’l pianto e lamento?
s’a mal miogrado, il lamentar che vale?
O viva morte, o dilettoso male,
come puoi tanto in me, s’io no ’l consento?
      E s’io ’l consento, a gran torto mi doglio.
Fra sì contrari vènti in frale barca
mi trovo in alto mar, senza governo,
      sì lieve di saver, d’error sì carca,
ch’i’ medesmo non so quel ch’io mi voglio,
e tremo a mezza state, ardendo il verno.
 
 
 
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 CXXXIII
Amor m’ha posto come segno a strale

      Amor m’ha posto come segno a strale,
come al sol neve, come cera al foco,
e come nebbia al vento; e son già roco,
donna, mercé chiamando, e voi non cale.
      Da gli occhi vostri uscìo ’l colpo mortale,
contra cui non mi val tempo né loco;
da voi sola procede, e parvi un gioco,
il sole, e ’l foco, e ’l vento, ond’io son tale.
      I pensier son saette, e ’l viso un sole,
e ’l desir foco; e ’nseme con quest’arme
mi punge Amor, m’abbaglia, e mi distrugge:
      e l’angelico canto, e le parole,
col dolce spirto, ond’io non posso aitarme,
son l’aura inanzi a cui mia vita fugge.
 
 
 
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CXXXIV
Pace non trovo, e non ho da far guerra

      Pace non trovo, e non ho da far guerra;
e temo, e spero; et ardo, e son un ghiaccio;
e volo sopra ’l cielo, e ghiaccio in terra;
e nulla stringo, e tutto ’l mondo abbraccio.
      Tal m’ha in pregion, che non m’apre né serra,
né per suo mi ritèn né scioglie il laccio;
e non m’ancide Amore, e non mi sferra,
né mi vuol vivo né mi trae impaccio.
      Veggio senza occhi, e non ho lingua, e grido;
e bramo di perir, e cheggio aita;
et ho in odio me stesso, et amo altrui.
      Pascomi di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte e vita:
in questo stato son, donna, per vui.
 
 
 
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 CXXXV
Qual più diversa e nova

      Qual più diversa e nova
cosa fu mai in qualche stranio clima,
quella, se ben s’estima,
più mi rasembra; a tal son giunto, Amore.
Là, onde il dì vèn fòre,
vola un augel, che sol, senza consorte,
di volontaria morte
rinasce, e tutto a viver si rinova.
Così sol si ritrova
lo mio voler, e così in su la cima
de’ suoi alti pensieri al sol si volve,
e così si rivolse,
e così torna al suo stato di prima;
arde, e more, e riprende i nervi suoi,
e vive poi      con la fenice a prova.

      Una petra è sì ardita
là per l’ìndico mar, che da natura
tragge a sé il ferro, e ’l fura,
dal legno, in guisa che ’ navigi affonde.
Questo prov’io fra l’onde
d’amaro pianto; ché quel bello scoglio
ha sul suo duro argoglio
condutta ove affondar conven mia vita:
così l’alm’ha sfornita
(furando ’l cor, che fu già cosa dura,
e me tenne un, ch’or son diviso e sparso)
un sasso a trar più scarso
carne che ferro. O cruda mia ventura,
che ’n carne essendo, veggio trarmi a riva
ad una viva      dolce calamita.

      Ne l’estremo occidente
una fera è soave e queta tanto
che nulla più; ma pianto
e doglia, e morte, dentro a gli occhi porta:
molto convene accorta
esser qual vista mai vèr’ lei si giri;
pur che gli occhi non miri,
l’altro puossi veder securamente.
Ma io incauto, dolente,
corro sempre al mio male; e so ben quanto
n’ho sofferto, e n’aspetto; ma l’engordo
voler, ch’è cieco e sordo,
sì mi trasporta, che ’l bel viso santo
e gli occhi vaghi, fìen cagion ch’io pèra,
di questa sfera      angelica innocente.

      Surge nel mezzo giorno
una fontana, e tien nome dal sole;
che per natura sòle
bollir le notti, e ’n sul giorno esser fredda;
e tanto si raffredda
quanto ’l Sol monta, e quanto è più da presso.
Così avèn a me stesso,
che son fonte di lagrime, e soggiorno:
quando ’l bel lume adorno,
ch’è ’l mio sol, s’allontana, e triste e sole
son le mie luci, e notte oscura è loro,
ardo allor; ma se l’oro
e i rai veggio apparir del vivo sole,
tutto dentro e di fòr sento cangiarme,
e ghiaccio farme;      così freddo torno.

      Un’altra fonte ha Epiro
di cui si scrive, ch’essendo fredda ella,
ogni spenta facella
accende, e spegne qual trovasse accesa.
L’anima mia, ch’offesa
ancor non era d’amoroso foco,
appressandosi un poco
a quella fredda, ch’io sempre sospiro,
arse tutta; e martìro
simil già mai né sol vide, né stella,
ch’ un cor di marmo a pietà mosso avrebbe:
poi che ’nfiammata l’ebbe,
rispensela vertù gelata e bella.
Così più volte ha ’l cor racceso e spento:
i’ ’l so che ’l sento,      e spesso me n’adiro.

      Fuor tutti i nostri lidi,
ne l’isole famose di Fortuna,
due fonti ha: chi de l’una
bee, mor ridendo; e chi de l’altra, scampa.
Simil fortuna stampa
mia vita, che morir porìa ridendo,
del gran piacer, ch’io prendo,
se no ’l temprassen dolorosi stridi.
Amor, ch’ancor mi guidi
pur a l’ombra di fama occulta e bruna,
tacerem questa fonte, ch’ogni or piena,
ma con più larga vena
veggiam, quando col Tauro il sol s’aduna:
così gli occhi miei piangon d’ogni tempo,
ma più nel tempo      che madonna vidi.

      Chi spiasse, canzone,
quel ch’i’ fo, tu pòi dir: sotto un gran sasso
in una chiusa valle, ond’esce Sorga,
si sta; né chi lo scorga
v’è, se no Amor, che mai no ’l lascia un passo,
e l’imagine d’una, che lo strugge;
ch’e’ per sé fugge      tutt’altre persone.

 
 
 
 
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CXXXVI
Fiamma del ciel su le tue treccie piova

      Fiamma del ciel su le tue treccie piova,
malvagia, che dal fiume e da le ghiande
per l’altrui impoverir se’ ricca e grande,
poi che di mal oprar tanto ti giova:
      nido di tradimenti, in cui si cova
quanto mal per lo mondo oggi si spande,
de vin serva, di letti e di vivande,
in cui lussuria fa l’ultima prova.
      Per le camere tue fanciulle e vecchi
vanno trescando, e Belzebub in mezzo
co’ mantici, e col foco, e co li specchi.
      Già non fostù nudrita in piume al rezzo,
ma nuda al vento, e scalza fra gli stecchi:
or vivi sì ch’a Dio ne venga il lezzo.
 
 
 
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CXXXVII
L’Avara Babilonia ha colmo il sacco

      L’Avara Babilonia ha colmo il sacco
d’ira di Dio, e di vizii empii e rei,
tanto che scoppia, ed ha fatti suoi dèi,
non Giove e Palla, ma Venere e Bacco.
      Aspettando ragion mi struggo e fiacco;
ma pur novo soldan veggio per lei,
lo qual farà, non già quand’io vorrei,
sol una sede; e quella fia in Baldacco.
      Gl’idoli suoi saranno in terra sparsi,
e le túrre superbe, al ciel nemiche,
e i suoi torrer di fòr come dentro arsi.
      Anime belle, e di virtute amiche,
terranno il mondo; e poi vedrem lui farsi
aureo tutto, e pien de l’opre antiche.
 
 
 
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CXXXVIII
Fontana di dolore, albergo d’ira

      Fontana di dolore, albergo d’ira,
scola d’errori, e templo d’eresia,
già Roma, or Babilonia falsa e ria,
per cui tanto si piange e si sospira;
      o fucina d’inganni, o pregion dira,
ove ’l ben more, e ’l mal si nutre e cria,
di vivi inferno, un gran miracol fia
se Cristo teco al fin non s’adira.
      Fondata in casta et umil povertate,
contr’a’ tuoi fondatori alzi le corna,
putta sfacciata: e dove hai posto spene?
      Ne gli adùlteri tuoi? ne le mal nate
ricchezze tante? Or Costantin non torna;
ma tolga il mondo tristo che ’l sostene.
 
 
 
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CXXXIX
Quanto più disïose l’ali spando

      Quanto più disïose l’ali spando
verso di voi, o dolce schiera amica,
tanto Fortuna con più visco intrica
il mio volare, e gir mi face errando.
      Il cor, che mal suo grado a torno mando,
è con voi sempre in quella valle aprica,
ove ’l mar nostro più la terra implìca;
l’altr’ier da lui partimmi lagrimando.
      I’ da man manca, e’ tenne il camin dritto;
i’ tratto a forza, et e’ d’Amore scorto;
egli in Ierusalem, et io in Egitto.
      Ma sofferenza è nel dolor conforto;
ché per lungo uso, già fra noi prescritto,
il nostro esser insieme è raro e corto.
 
 
 
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CCXL
Amor che nel penser mio vive e regna

      Amor che nel penser mio vive e regna
e ’l suo seggio maggior nel mio tène,
talor armato ne la fronte vène,
ivi si loca, et ivi pon sua insegna.
      Quella ch’amare e sofferir ne ’nsegna
e vòl che ’l gran desio, l’accesa spene,
ragion, vergogna e reverenza affrene,
di nostro ardir fra sé stessa si sdegna.
      Onde Amor paventoso fugge al core,
lasciando ogni sua impresa, e piange, e trema;
ivi s’asconde, e non appar più fòre.
      Che poss’io far, temendo il mio signore,
se non star seco in fin a l’ora estrema?
ché bel fin fa chi ben amando more.
 
 
 
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Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998