FRANCESCO PETRARCA
CANZONIERE
CXI-CXL
RERUM VULGARIUM FRAGMENTA
codice Vaticano 3195
In vita di Madonna Laura
CXI
La donna che l mio cor nel viso porta
La donna che l mio cor nel viso
porta, là dove sol fra bei pensier damore sedea, mapparve; et io per farle onore mossi con fronte reverente e smorta. Tosto che del mio stato fussi accorta, a me si volse in sì novo calore chavrebbe a Giove nel maggior furore tolto larme di mano, e lira morta. I mi riscossi; et ella oltra, parlando, passò, che la parola i non soffersi, né l dolce sfavillar degli occhi suoi. Or mi ritrovo pien di sì diversi piaceri, in quel saluto ripensando, che duol non sento, né sentì ma poi. |
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CXII
Sennuccio, i vo che sappi in qual manera
Sennuccio, i vo che sappi
in qual manera trattato sono, e qual vita è la mia: ardomi e struggo ancor comio solia; laura mi volve; e son pur quel chi mera. Qui tutta umile, e qui la vidi altèra, or aspra, or piana, or dispietata, or pia; or vestirsi onestate, or leggiadria, or mansueta, or disdegnosa e fera; qui cantò dolcemente, e qui sassise; qui si rivolse, e qui rattenne il passo; qui co begli occhi mi trafisse il core; qui disse una parola, e qui sorrise; qui cangiò l viso. In questi pensier, lasso!, notte e dì tiemmi il signor nostro Amore. |
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CXIII
Qui, dove mezzo son, Sennuccio mio
Qui, dove mezzo son, Sennuccio mio, (così ci fossio intero, e voi contento) venni fuggendo la tempesta e l vento channo sùbito fatto il tempo rio. Qui son securo: e vo vi dir perchio non, come soglio, il folgorar pavento, e perché mitigato, non che spento, né mica trovo il mio ardente desio. Tosto che giunto a lamorosa reggia vidi onde nacque laura dolce e pura, chacqueta laere e mette i tuoni in bando, Amor ne lalma, ovella signoreggia, raccese l foco, e spense la paura: che farrei dunque gli occhi suoi guardando? |
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CXIV
De lempia Babilonia, ondè fuggita
De lempia Babilonia, ondè
fuggita ogni vergogna, ondogni bene è fòri, albergo di dolor, madre derrori, son fuggito io per allungar la vita. Qui mi sto solo; e, come Amor minvita, or rime e versi, or colgo erbette e fiori, seco parlando, et a tempi migliori sempre pensando: e questo sol maita. Né del vulgo mi cal, né di fortuna, né di me molto, né di cosa vile, né dentro sento né di fuor gran caldo. Sol due persone cheggio; e vorrei luna col cor vèr me pacificato umìle, laltro col pie, sì come mai fu, saldo. |
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CXV
In mezzo di duo amanti onesta altèra
In mezzo di duo amanti onesta altèra vidi una donna, e quel signor co lei che fra gli uomini regna, e fra li dèi; e da lun lato il Sole, io da laltro era. Poi che saccorse chiusa da la spera de lamico più bello, a gli occhi miei tutta lieta si volse; e ben vorrei, che mai non fosse in vèr di me più fera. Sùbito in allegrezza si converse la gelosia che n su la prima vista per sì alto adversario, al cor mi nacque. A lui la faccia lagrimosa e trista un nuviletto intorno ricoverse; cotanto lesser vinto li dispiacque. |
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CXVI
Pien di quella ineffabile dolcezza
Pien di quella ineffabile dolcezza che del bel viso trassen gli occhi miei nel dì che volentier chiusi gli avrei per non mirar già mai minor bellezza, lassai quel chi più bramo; et ho sì avezza la mente a contemplar solo costei chaltro non vede, e ciò che non è lei già per antica usanza odia e disprezza. In una valle chiusa dogni ntorno, chè refrigerio de sospir miei lassi, giunsi sol con Amor, pensoso e tardo. Ivi non donne, ma fontane e sassi, e limagine trovo di quel giorno che l pensier mio figura ovunque io sguardo. |
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CXVII
Se l sasso, ondè più chiusa questa valle
Se l sasso, ondè più
chiusa questa valle, di che l suo proprio nome si deriva, tenesse vòlto, per natura schiva, a Roma il viso et a Babel le spalle, i miei sospiri più benigno calle avrian per gire ove lor spene è viva: or vanno sparsi, e pur ciascuno arriva là dovio il mando, che sol un non falle; e son di là sì dolcemente accolti, comio maccorgo, che nessun mai torna, con tal diletto in quelle parti stanno. De gli occhi è duol; che tosto che saggiorna per gran desio de be luoghi a lor tolti, dànno a me pianto, et a pie lassi affanno. |
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CXVIII
Rimansi a dietro al sestodecimo anno
Rimansi a dietro al sestodecimo anno de miei sospiri, et io trapasso inanzi verso lestremo; e parmi che pur dianzi fosse l principio di cotanto affanno. Lamar mè dolce, et util il mio danno, e l viver grave; e prego chegli avanzi lempia fortuna; e temo non chiuda anzi morte i begli occhi che parlar mi fanno. Or qui son, lasso!, e voglio esser altrove; e vorrei più volere, e più non voglio; e per più non poter fo quantio posso; e dantichi desir lagrime nove provan comio son pur quel chi mi soglio, né per mille rivolte ancor son mosso. |
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CXIX
Una donna più bella assai che l sole
Una donna più bella assai che l
sole, e più lucente, e daltrettanta etade, con famosa beltade, acerbo ancor, mi trasse a la sua schiera. Questa in penseri, in opre et in parole (però chè de le cose al mondo rade), questa per mille strade sempre inanzi mi fu leggiadra, altèra. Solo per lei tornai da quel chi era, poi chi soffersi gli occhi suoi da presso; per suo amor merio messo a faticosa impresa assai per tempo; tal che si arrivo al disiato porto, spero per lei gran tempo viver, quandaltri mi terrà per morto. Questa
mia donna mi menò moltanni Ma non mel tolse la paura o l gielo, - Rado fu al mondo, fra così gran turba, I volea dir - questè impossibil cosa - Rùppesi in tanto di vergogna il nodo - Sì come piacque al nostro eterno padre, Canzon, chi tua ragion chiamasse obscura, |
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CXX
Quelle pietose rime, in chio maccorsi
Quelle pietose rime, in chio
maccorsi di vostro ingegno, e del cortese affetto, èbben tanto vigor nel mio conspetto che ratto a questa penna la man porsi, per far voi certo che gli estremi morsi di quella chio con tutto l mondo aspetto, mai non sentì, ma pur, senza sospetto, in fin a luscio del suo albergo corsi; poi tornai in dietro, perchio vidi scritto, di sopra l limitar, che l tempo ancúra non era giunto al mio viver prescritto; ben chio non vi legessi il dì né lora. Dunque sacqueti omai l cor vostro afflitto, e cerchi uom degno, quando sì lonora. |
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CXXI
Or vedi, Amor, che giovenetta donna
Or vedi, Amor, che giovenetta donna tuo regno sprezza e del mio mal non cura, e tra duo ta nemici è sì secura. Tu se armato, et ella in treccie e n gonna si siede, e scalza, in mezzo i fiori e lerba, vèr me spietata, e n contra te superba. I son pregion; ma se pietà ancor serba larco tuo saldo, e qualcuna saetta, fa di te, e di me, signor, vendetta. |
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CXXII
Dicesette anni ha già rivolto il cielo
Dicesette anni ha già rivolto il
cielo poi che mprima arsi, e già mai non mi spensi; ma quando avèn chal mio stato ripensi, sento nel mezzo de le fiamme un gielo. Vero è l proverbio, chaltri cangia il pelo anzi che l vezzo; e per lentar i sensi, gli umani affetti non son meno intensi: ciò ne fa lombra ria del grave velo. Oi me lasso!, e quando fia quel giorno che mirando il fuggir de gli anni miei, èsca del foco, e di sì lunghe pene? Vedrò mai il dì che pur quantio vorrei quelaria dolce del bel viso adorno piaccia a questocchi, e quanto si convene? |
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CXXIII
Quel vago impallidir che l dolce riso
Quel vago impallidir che l dolce
riso dunamorosa nebbia ricoperse, con tanta maiestade al cor sofferse che li si fece incontr a mezzo l viso. Conobbi allor sì come in paradiso vede lun laltro; in tal guisa saperse quel pietoso penser chaltri non scerse; ma vidil io, chaltrove non maffiso. Ogni angelica vista, ogni atto umìle che già mai in donna, ovamor fosse, apparve, fôra uno sdegno a lato a quel chi odo. Chinava a terra il bel guardo gentile, e tacendo dicea, come a me parve: - Chi mallontana il mio felice amico? - |
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CXXIV
Amor, Fortuna, e la mia mente schiva
Amor, Fortuna, e la mia mente schiva di quel che vede, e nel passato volta maffliggon sì, chio porto alcuna volta invidia a quei che son su laltra riva. Amor mi strugge l cor; Fortuna il priva dogni conforto; onde la mente stolta sadira e piange: e così in pena molta sempre conven che combattendo viva. Né spero i dolci dì tornino in dietro, ma pur di male in peggio quel chavanza; e di mio corso ho già passato l mezzo. Lasso!, non di diamante, ma dun vetro veggio di man cadermi ogni speranza, e tutti i miei pensier romper nel mezzo. |
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CXXV
Se l pensier che mi strugge
Se l pensier che mi strugge, comè pungente e saldo, così vestisse dun color conforme, forse tal marde e fugge, chavria parte del caldo, e desteriasi Amor là dovor dorme; men solitarie lorme fôran de miei pie lassi per campagne e per colli, men gli occhi ad ognor molli, ardendo lei come un ghiaccio stassi, e non lascia in me dramma che non sia foco e fiamma. Però chAmor mi
sforza Dolci rime leggiadre Come fanciul cha pena Ben sai che sì bel piede Ovunque gli occhi volgo O poverella mia, come se rozza! |
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CXXVI
Chiare, fresce, dolci acque
Chiare, fresce, dolci acque, ove le belle membra pose colei che sola a me par donna; gentil ramo, ove piacque (con sospir mi rimembra) a lei di fare al bel fianco colonna; erba e fior, che la gonna leggiadra ricoverse co langelico seno; aere sacro, sereno, ove Amor co begli occhi il cor maperse; date udienza insieme a le dolenti mie parole estreme. Segli è pur
mio destino Tempo verrà ancor forse Da be rami scendea Quante volte dissio Se tu avessi ornamenti, quanthai voglia, |
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CXXVII
In quella parte dove Amor mi sprona
In quella parte dove Amor mi sprona conven chio volga le dogliose rime, che son seguaci de la mente afflitta. Quai fien lultime, lasso!, e qua fien prime? Collui che del mio mal meco ragiona mi lascia in dubbio, sì confuso ditta. Ma pur quanto listoria trovo scritta in mezzo l cor, che sì spesso rincorro, co la sua propria man, de miei martìri, dirò; perché i sospiri parlando han triegua, et al dolor soccorro. Dico che, perchio miri mille cose diverse attento e fiso, sol una donna veggio, e l suo bel viso. Poi
che la dispietata mia ventura In ramo fronde, o ver viole in terra Qualor tenera neve per li colli Non vidi mai dopo notturna pioggia Se mai candide ròse con vermiglie Ad una ad una annoverar le stelle, Ben sai, canzon, che quantio parlo è nulla |
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CXXVIII
Italia mia, ben che l parlar sia indarno
Italia mia, ben che l parlar sia
indarno a le piaghe mortali che nel bel corpo tuo sì spesse veggio, piacemi almen che miei sospir sian quali spera l Tevero e lArno, e l Po, dove doglioso e grave or seggio. Rettor del cielo, io cheggio che la pietà che ti condusse in terra ti volga al tuo diletto almo paese: vedi, segnor cortese, di che lievi cagion che crudel guerra; e i cor, che ndura e serra Marte superbo e fero, apri tu, padre, e ntenerisci e snoda; ivi fa che l tuo vero, qual io mi sia, per la mia lingua soda. Voi,
cui fortuna ha posto in mano il freno Ben provide natura al nostro stato, Cesare taccio che per ogni piaggia Né vaccorgete ancor per tante prove Non è questo l terren chi toccai
pria? Signor, mirate come l tempo vola, Canzone, io tammonisco |
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CXXIX
Di pensier in pensier, di monte in monte
Di pensier in pensier, di monte in
monte mi guida Amor; chogni segnato calle provo contrario a la tranquilla vita. Se n solitaria piaggia, rivo, o fonte, se n fra duo poggi siede ombrosa valle, ivi sacqueta lalma sbigottita; e come Amor lenvita, or ride, or piange, or teme, or sassecura: e l volto che lei segue ovella il mena si turba e rasserena, et in un esser picciol tempo dura; onde a la vista uom di tal vita esperto diria: - Questo arde, e di suo stato è incerto, - Per
alti monti e per selve aspre trovo Ove porge ombra un pino alto od un colle I lho più volte (or chi fia che
mil creda?) Ove daltra montagna ombra non túcchi Canzone, oltra quellalpe, |
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CXXX
Poi che l camin mè chiuso di mercede
Poi che l camin mè chiuso
di mercede, per desperata via son dilungato da gli occhi overa (i non so per qual fato) riposto il guidardon dogni mia fede. Pasco l cor di sospir, chaltro non chiede, e di lagrime vivo, a pianger nato: né di ciò duolmi, perché in tale stato è dolce il pianto più chaltri non crede. E sol ad una imagine mattegno, che fe non Zeusi, o Prasitele, o Fidia, ma il miglior mastro, e di più alto ingegno. Qual Scizia massicura, o qual Numidia, sancor non sazia del mio essilio indegno, così nascosto mi ritrova invidia? |
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CXXXI
Io canterei damor sì novamente
Io canterei damor sì novamente chal duro fianco il dì mille sospiri trarrei per forza, e mille alti desiri raccenderei ne la gelata mente; e l bel viso vedrei cangiar sovente, e bagnar gli occhi, e più pietosi giri far, come suol chi de gli altrui martìri e del suo error quando non val si pente; e le ròse vermiglie in fra la neve mover da lôra, e discovrir lavorio che fa di marmo chi da presso l guarda; e tutto quel per che nel viver breve non rincresco a me stesso, anzi mi glorio desser servato a la stagion più tarda. |
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CXXXII
Samor non è, che dunque è quel chio sento?
Samor non è, che dunque è quel
chio sento? ma segli è amor, per Dio, che cosa e quale? se bona, ondè leffetto aspro e mortale? se ria, ondè sì dolce ogni tormento? Sa mia voglia ardo, ondè l pianto e lamento? sa mal miogrado, il lamentar che vale? O viva morte, o dilettoso male, come puoi tanto in me, sio no l consento? E sio l consento, a gran torto mi doglio. Fra sì contrari vènti in frale barca mi trovo in alto mar, senza governo, sì lieve di saver, derror sì carca, chi medesmo non so quel chio mi voglio, e tremo a mezza state, ardendo il verno. |
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CXXXIII
Amor mha posto come segno a strale
Amor mha posto come segno a
strale, come al sol neve, come cera al foco, e come nebbia al vento; e son già roco, donna, mercé chiamando, e voi non cale. Da gli occhi vostri uscìo l colpo mortale, contra cui non mi val tempo né loco; da voi sola procede, e parvi un gioco, il sole, e l foco, e l vento, ondio son tale. I pensier son saette, e l viso un sole, e l desir foco; e nseme con questarme mi punge Amor, mabbaglia, e mi distrugge: e langelico canto, e le parole, col dolce spirto, ondio non posso aitarme, son laura inanzi a cui mia vita fugge. |
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CXXXIV
Pace non trovo, e non ho da far guerra
Pace non trovo, e non ho da far
guerra; e temo, e spero; et ardo, e son un ghiaccio; e volo sopra l cielo, e ghiaccio in terra; e nulla stringo, e tutto l mondo abbraccio. Tal mha in pregion, che non mapre né serra, né per suo mi ritèn né scioglie il laccio; e non mancide Amore, e non mi sferra, né mi vuol vivo né mi trae impaccio. Veggio senza occhi, e non ho lingua, e grido; e bramo di perir, e cheggio aita; et ho in odio me stesso, et amo altrui. Pascomi di dolor, piangendo rido; egualmente mi spiace morte e vita: in questo stato son, donna, per vui. |
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CXXXV
Qual più diversa e nova
Qual più diversa e nova cosa fu mai in qualche stranio clima, quella, se ben sestima, più mi rasembra; a tal son giunto, Amore. Là, onde il dì vèn fòre, vola un augel, che sol, senza consorte, di volontaria morte rinasce, e tutto a viver si rinova. Così sol si ritrova lo mio voler, e così in su la cima de suoi alti pensieri al sol si volve, e così si rivolse, e così torna al suo stato di prima; arde, e more, e riprende i nervi suoi, e vive poi con la fenice a prova. Una
petra è sì ardita Ne lestremo occidente Surge nel mezzo giorno Unaltra fonte ha Epiro Fuor tutti i nostri lidi, Chi spiasse, canzone, |
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CXXXVI
Fiamma del ciel su le tue treccie piova
Fiamma del ciel su le tue treccie
piova, malvagia, che dal fiume e da le ghiande per laltrui impoverir se ricca e grande, poi che di mal oprar tanto ti giova: nido di tradimenti, in cui si cova quanto mal per lo mondo oggi si spande, de vin serva, di letti e di vivande, in cui lussuria fa lultima prova. Per le camere tue fanciulle e vecchi vanno trescando, e Belzebub in mezzo co mantici, e col foco, e co li specchi. Già non fostù nudrita in piume al rezzo, ma nuda al vento, e scalza fra gli stecchi: or vivi sì cha Dio ne venga il lezzo. |
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CXXXVII
LAvara Babilonia ha colmo il sacco
LAvara Babilonia ha colmo il
sacco dira di Dio, e di vizii empii e rei, tanto che scoppia, ed ha fatti suoi dèi, non Giove e Palla, ma Venere e Bacco. Aspettando ragion mi struggo e fiacco; ma pur novo soldan veggio per lei, lo qual farà, non già quandio vorrei, sol una sede; e quella fia in Baldacco. Glidoli suoi saranno in terra sparsi, e le túrre superbe, al ciel nemiche, e i suoi torrer di fòr come dentro arsi. Anime belle, e di virtute amiche, terranno il mondo; e poi vedrem lui farsi aureo tutto, e pien de lopre antiche. |
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CXXXVIII
Fontana di dolore, albergo dira
Fontana di dolore, albergo dira, scola derrori, e templo deresia, già Roma, or Babilonia falsa e ria, per cui tanto si piange e si sospira; o fucina dinganni, o pregion dira, ove l ben more, e l mal si nutre e cria, di vivi inferno, un gran miracol fia se Cristo teco al fin non sadira. Fondata in casta et umil povertate, contra tuoi fondatori alzi le corna, putta sfacciata: e dove hai posto spene? Ne gli adùlteri tuoi? ne le mal nate ricchezze tante? Or Costantin non torna; ma tolga il mondo tristo che l sostene. |
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CXXXIX
Quanto più disïose lali spando
Quanto più disïose lali spando verso di voi, o dolce schiera amica, tanto Fortuna con più visco intrica il mio volare, e gir mi face errando. Il cor, che mal suo grado a torno mando, è con voi sempre in quella valle aprica, ove l mar nostro più la terra implìca; laltrier da lui partimmi lagrimando. I da man manca, e tenne il camin dritto; i tratto a forza, et e dAmore scorto; egli in Ierusalem, et io in Egitto. Ma sofferenza è nel dolor conforto; ché per lungo uso, già fra noi prescritto, il nostro esser insieme è raro e corto. |
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CCXL
Amor che nel penser mio vive e regna
Amor che nel penser mio vive e regna e l suo seggio maggior nel mio tène, talor armato ne la fronte vène, ivi si loca, et ivi pon sua insegna. Quella chamare e sofferir ne nsegna e vòl che l gran desio, laccesa spene, ragion, vergogna e reverenza affrene, di nostro ardir fra sé stessa si sdegna. Onde Amor paventoso fugge al core, lasciando ogni sua impresa, e piange, e trema; ivi sasconde, e non appar più fòre. Che possio far, temendo il mio signore, se non star seco in fin a lora estrema? ché bel fin fa chi ben amando more. |
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© 30 aprile 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998