FRANCESCO PETRARCA

CANZONIERE

RERUM VULGARIUM FRAGMENTA
codice Vaticano 3195

In vita di Madonna Laura

I
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono

      Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
di quei sospiri ond’io nudriva ’l core
in sul mio primo giovenile errore,
quand’era in parte altr’uom da quel, ch’i’ sono;
      del vario stile in ch’io piango e ragiono
fra le vane speranze, e ’l van dolore;
ove sia chi per prova intenda amore,
spero trovar pietà, non che perdono.
      Ma ben veggio or sì come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;
      e del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto,
e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.      
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

II
Per far una leggiadra sua vendetta

      Per far una leggiadra sua vendetta,
e punir in un dì ben mille offese,
celatamente Amor l’arco riprese,
come uom ch’a nocer luogo e tempo aspetta.
      Era la mia virtute al cor ristretta
per far ivi, e ne gli occhi sue difese,
quando ’l colpo mortal là giù discese,
ove solea spuntarsi ogni saetta.
      Però turbata nel primiero assalto,
non ebbe tanto nè vigor, nè spazio
che potesse al bisogno prender l’arme,
      o vero al poggio faticoso ed alto
ritrarmi accortamente da lo strazio;
del quale oggi vorrebbe, e non può aitarme.      
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

III 
Era ’l giorno ch’al sol si scoloraro

      Era ’l giorno ch’al sol si scoloraro
per la pietà del suo Fattore i rai,
quando i’ fui preso, e non me ne guardai,
che i be’ vostr’occhi, Donna, mi legaro.
      Tempo non mi parea da far riparo
contr’a’ colpi d’Amor; però n’andai
secur, senza sospetto: onde i mei guai
nel comune dolor s’incominciaro.
      Trovommi Amor del tutto disarmato,
ed aperta la via per gli occhi al core,
che di lacrime son fatti uscio e varco.
      Però, al mio parer, non li fu onore
ferir me di saetta in quello stato,
ed a voi armata non mostrar pur l’arco.      
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

IV
Quel ch’infinita provvidenza, ed arte

      Quel ch’infinita provvidenza, ed arte
mostrò nel suo mirabil magistero:
che criò questo, e quell’altro emispero,
e mansueto più Giove che Marte,
      venendo in terra a illuminar le carte
ch’avean molt’anni già celato il vero,
tolse Giovanni da la rete, e Piero,
e nel regno del Ciel fece lor parte.
      Di sé, nascendo, a Roma non fe’ grazia,
a Giudea sì, tanto sovr’ogni stato
umiltate esaltar sempre gli piacque;
      ed or di picciol borgo un sol n’ha dato,
tal, che natura, e ’l luogo si ringrazia,
onde sì bella Donna al mondo nacque.      
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

V
Quand’io movo i sospiri a chiamar voi

      Quand’io movo i sospiri a chiamar voi,
e ’l nome, che nel cor mi scrisse Amore,
LAUdando s’incomincia udir di fore
il suon de’ primi dolci accenti suoi.
      Vostro stato REal, che ’ncontro poi,
raddoppia all’alta impresa il mio valore;
ma, - TAci, - grida il fin: - che farle onore
è d’altri omeri soma, che da’ tuoi -.
      Così LAUdare, e Reverire insegna
la voce stessa, pur ch’altri vi chiami,
o d’ogni reverenza, e d’onor degna;
      sé non che forse Apollo si disdegna,
ch’a parlar de’ suoi sempre verdi rami
lingua morTAl presuntüosa vegna.
      
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

VI
Sì traviato è ’l folle mio desio

      Sì traviato è ’l folle mio desio
a seguitar costei, che ’n fuga è volta,
e de’ lacci d’Amor leggiera e sciolta
vola dinanzi al lento correr mio;
      che quanto richiamando più l’envio
per la secura strada men m’ascolta:
né mi vale spronarlo, o dargli volta;
ch’Amor per sua natura il fa restio.
      E poi che ’l fren per forza a sé raccoglie,
i’ mi rimango in signoria di lui,
che mal mio grado a morte mi trasporta;
      sol per venir al Lauro, onde si coglie
acerbo frutto, che le piaghe altrui,
gustando, affligge più, che non conforta.      
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

VII
La gola e ’l sonno e l’oziose piume

      La gola e ’l sonno e l’oziose piume
hanno del mondo ogni vertù sbandita,
ond’è dal corso suo quasi smarrita
nostra natura vinta dal costume;
      et è sì spento ogni benigno lume
del ciel, per cui s’informa umana vita,
che per cosa mirabile s’addita
che vòl far d’Elicona nascer fiume.
      Qual vaghezza di lauro? qual di mirto?
- Povera e nuda vai, Filosofia -
dice la turba al vil guadagno intesa.
      Pochi compagni avrai per l’altra via;
tanto ti prego più, gentile spirto,
non lassar la magnanima tua impresa.      
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

VIII
A piè de’ colli ove la bella vesta

      A piè de’ colli ove la bella vesta
prese de le terrene membra pria
la donna che colui ch’a te n’envia
spesso dal sonno lagrimando desta,
      libere in pace passavan per questa
vita mortal, ch’ogni animal desia,
senza sospetto di trovar fra via
cosa ch’al nostr’andar fosse molesta.
      Ma del misero stato ove noi semo
condotte da la vita altra serena,
un sol conforto, e de la morte, avemo:
      che vendetta è di lui ch’a ciò ne mena,
lo qual in forza altrui, presso a l’estremo,
riman legato con maggior catena.
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

IX
Quando ’l pianeta che distingue l’ore

      Quando ’l pianeta che distingue l’ore
ad albergar col Tauro si ritorna,
cade vertù da l’infiammate corna
che veste ’l mondo di novel colore;
      e non pur quel che s’apre a noi di fòre,
le rive e i colli di fioretti adorna,
ma dentro, dove già mai non s’aggiorna,
gravido fa di sè il terrestro umore,
      onde tal frutto e simile si colga.
Così costei, ch’è tra le donne un sole,
in me, movendo de’ begli occhi i rai,
      cria d’amor penseri, atti e parole;
ma, come ch’ella gli governi o volga,
primavera per me pur non è mai.
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

X
Gloriosa columna, in cui s’appoggia

      Gloriosa Columna, in cui s’appoggia
nostra speranza e ’l gran nome latino,
ch’ancor non torse del vero camino
l’ira di Giove per ventosa pioggia,
      qui non palazzi, non teatro o loggia,
ma ’n lor vece un abete, un faggio, un pino,
tra l’erba verde e ’l bel monte vicino,
onde si scende poetando e poggia,
      levan di terra al ciel nostr’intelletto,
e ’l rosigniuol che dolcemente all’ombra
tutte le notti si lamenta e piagne,
      d’amorosi penseri il cor ne ’ngombra:
ma tanto ben sol tronchi e fai imperfetto
tu che da noi, signor mio, ti scompagne.
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

XI
Lassare il velo o per sole o per ombra

      Lassare il velo o per sole o per ombra,
donna, non vi vid’io,
poi che in me conosceste il gran desio
ch’ogni altra voglia dentr’al cor mi sgombra.
      Mentr’io portava i be’ pensier celati,
c’hanno la mente desiando morta,
vidivi di pietate ornare il vólto;
ma poi ch’Amor di me vi fece accorta,
fuôr i biondi capelli allor velati
e l’amoroso sguardo in sé raccolto.
Quel ch’i’ più desiava in voi m’è tolto;
sì mi governa il velo,
che per mia morte, et al caldo et al gielo,
de’ bei vostr’occhi il dolce lume adombra.      
 
 
 
 
5
 
 
 
 
10
 
 
 

XII
Se la mia vita da l’aspro tormento

      Se la mia vita da l’aspro tormento
si può tanto schermire, e dagli affanni,
ch’i’ veggia per vertù degli ultimi anni,
donna, de’ be’ vostr’occhi il lume spento,
      e i cape’ d’oro fin farsi d’argento,
e lassar le ghirlande e i verdi panni,
e ’l viso scolorir, che ne’ miei danni
a llamentar mi fa pauroso e lento,
      pur mi darà tanta baldanza Amore,
ch’i’ vi discovrirò de’ miei martìri
qua’ sono stati gli anni e i giorni e l’ore;
      e se ’l tempo è contrario a i be’ desiri,
non fia ch’almen non giunga al mio dolore
alcun soccorso di tardi sospiri.      
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

XIII
Quando fra l’altre donne ad ora ad ora

      Quando fra l’altre donne ad ora ad ora
Amor vien nel bel viso di costei,
quanto ciascuna è men bella di lei
tanto cresce ’l desio che m’innamora.
      I’ benedico il loco e ’l tempo e l’ora
che sì alto miraron gli occhi mei,
e dico: - Anima, assai ringraziar dêi,
che fosti a tanto onor degnata allora:
      da lei ti vèn l’amoroso pensero,
che, mentre ’l segui, al sommo ben t’invia,
poco prezando quel ch’ogni uom desia;
      da lei vien l’animosa leggiadria
ch’al ciel ti scorge per destro sentero;
sì ch’i’ vo già de la speranza altèro. -
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

XIV
Occhi miei lassi, mentre ch’io vi giro

      Occhi miei lassi, mentre ch’io vi giro
nel bel viso di quella che v’ha morti,
pregovi siate accorti,
ché già vi sfida Amore, ond’io sospiro.
      Morte pò chiuder sola a’ miei penseri
l’amoroso camin che gli conduce
al dolce porto de la lor salute;
ma puossi a voi celar la vostra luce
per meno obgetto, perché meni interi
siete formati, e di minor virtute. Però dolenti, anzi che sian venute
l’ore del pianto, che son già vicine,
prendete or a la fine
breve conforto a sì lungo martìro.
 
 
 
 
5
 
 
 
 
10
 
 
 

XV
Io mi rivolgo in dietro a ciascun passo

      Io mi rivolgo in dietro a ciascun passo
col corpo stanco ch’a gran pena porto,
e prendo allor dal vostr’aere conforto
che ’l fa gir oltra, dicendo: - Oimè lasso! -
      Poi ripensando al dolce ben ch’io lasso,
al camin lungo et al mio viver corto,
fermo le plante sbigottito e smorto,
e gli occhi in terra lagrimando abasso.
      Talor m’assale in mezzo a’ tristi pianti
un dubbio: come posson queste membra
da lo spirito lor viver lontane?
      Ma rispondemi Amor: - Non ti rimembra
che questo è privilegio degli amanti,
sciolti da tutte qualitati umane? -
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

XVI
Movesi il vecchierel canuto e bianco

      Movesi il vecchierel canuto e bianco
del dolce loco ov’ha sua età fornita,
e da la famigliuola sbigottita
che vede il caro padre venir manco;
      indi traendo poi l’antiquo fianco
per l’estreme giornate di sua vita,
quanto più pò col buon voler s’aita,
rotto da gli anni e dal camino stanco;
      e viene a Roma, seguendo ’l desio,
per mirar la sembianza di colui
ch’ancor lassù nel ciel vedere spera.
      Così, lasso!, talor vo cercand’io,
donna, quanto è possibile, in altrui
la disïata vostra forma vera.
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

XVII
Piòvommi amare lagrime dal viso

      Piòvommi amare lagrime dal viso
con un vento angoscioso di sospiri,
quando in voi adiven che gli occhi giri,
per cui sola dal mondo i’ son diviso.
      Vero è che ’l dolce mansueto riso
pur acqueta gli ardenti miei desiri
e mi sottragge al foco de’ martìri,
mentr’io son a mirarvi intento e fiso;
      ma gli spiriti miei s’agghiaccian poi
ch’i’ veggio, al departir, gli atti soavi
torcer da me le mie fatali stelle;
      largata al fin co l’amorose chiavi
l’anima esce del cor, per seguir voi,
e con molto pensiero indi si svelle.
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

XVIII
Quand’io son tutto vòlto in quella parte

      Quand’io son tutto vòlto in quella parte
ove ’l bel viso di madonna luce,
e m’è rimasa nel pensier la luce
che m’arde e strugge dentro a parte a parte,4
      i’, che temo del cor che mi si parte
e veggio presso il fin de la mia luce,
vommene in guisa d’orbo, senza luce,
che non sa ove si vada e pur si parte.
      Così davanti a i colpi de la morte
fuggo; ma non sì ratto che ’l desio
meco non venga, come venir sòle.
      Tacito vo, ché le parole morte
farian pianger la gente, et i’ desio
che le lagrime mie si spargan sole.
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

XIX
Son animali al mondo de sì altèra

      Son animali al mondo de sì altèra
vista che ’n contr’al sol pur si difende;
altri, però che ’l gran lume gli offende,
non escon fuor sé non verso la sera;
      et altri, col desio folle che spera
gioir forse nel foco, perché splende,
provan l’altra vertù, quella che ’ncende.
Lasso!, el mio loco è ’n questa ultima schera; ch’i’ non son forte ad aspettar la luce
di questa donna, e non so fare schermi
di luoghi tenebrosi o d’ore tarde.
      Però con gli occhi lagrimosi e ’nfermi
mio destìno a vederla mi conduce;
e son ben ch’i’ vo dietro a quel che m’arde.
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

XX
Vergognando talor ch’ancor si taccia

      Vergognando talor ch’ancor si taccia,
donna, per me vostra bellezza in rima,
ricorro al tempo ch’i’ vi vidi prima,
tal che null’altra fia mai che mi piaccia.
      Ma trovo peso non da le mie braccia,
né ovra da polir co la mia lima;
però l’ingnegno, che sua forza estima,
ne l’operazion tutto s’agghiaccia.
      Più volte già per dir le labbra apersi;
poi rimase la voce in mezzo ’l petto.
Ma qual sòn porìa mai salir tant’alto?
      Più volte incominciai di scriver versi;
ma la penna e la mano e l’intelletto
rimaser vinti nel primier assalto.
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

XXI
Mille fiate, o dolce mia guerrera

      Mille fiate, o dolce mia guerrera,
per aver co’ begli occhi vostri pace
v’aggio proferto il cor; m’a voi non piace
mirar sì basso colla mente altèra.
      E sé di lui fors’altra donna spera,
vive in speranza debile e fallace:
mio, perché sdegno ciò ch’a voi dispiace,
esser non può già mai così com’era.
      Or s’io lo scaccio, et e’ non trova in voi
ne l’essilio infelice alcun soccorso,
nè sa star sol, né gire ov’altri il chiama,
      porìa smarrire il suo natural corso;
che grave colpa fia d’ambeduo noi,
e tanto più de voi, quanto più v’ama.
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

XXII
A qualunque animale alberga in terra

      A qualunque animale alberga in terra,
sé non sé alquanti c’hanno in odio il sole,
tempo da travagliare è quanto è ’l giorno;
ma poi che ’l ciel accende le sue stelle,
qual torna a casa e qual s’anida in selva
per aver posa almeno in fin a l’alba.

      Et io, da che comincia la bella alba
a scuoter l’ombra intorno de la terra
svegliando gli animali in ogni selva,
non ho mai triegua di sospir col sole;
poi, quand’io veggio fiammeggiar le stelle,
vo lagrimando e disiando il giorno.

      Quando la sera scaccia il chiaro giorno,
e le tenebre nostre altrui fanno alba,
miro pensoso le crudeli stelle,
che m’hanno fatto di sensibil terra,
e maledico il dì ch’i’ vidi ’l sole,
che mi fa in vista un uom nudrito in selva.

      Non credo che pascesse mai per selva
sì aspra fera, o di notte o di giorno,
come costei ch’i’ piango a l’ombra e al sole,
e non mi stanca primo sonno od alba;
ché, ben ch’i’ sia mortal corpo di terra,
lo mio fermo desir vien da le stelle.

      Prima ch’i torni a voi, lucenti stelle,
o tomi giù ne l’amorosa selva,
lassando il corpo che fia trita terra,
vedess’io in lei pietà, che ’n un sol giorno
può ristorar molt’anni, e nanzi l’alba
puommi arichir dal tramontar del sole!

      Con lei foss’io da che si parte il sole,
e non ci vedess’altri che le stelle,
sol una notte, e mai non fosse l’alba,
e non sé transformasse in verde selva
per uscirmi di braccia, come il giorno
ch’Apollo la seguia qua giù per terra!

      Ma io sarò sotterra in secca selva,
e ’l giorno andrà pien di minute stelle,
prima ch’a sì dolce alba arrivi il sole.

 
 
 
 
 
6
 
 
 
 
 
 
12
 
 
 
 
 
 
18
 
 
 
 
 
 
24
 
 
 
 
 
 
30
 
 
 
 
 
 
36
 

XXIII
Nel dolce tempo de la prima etade

      Nel dolce tempo de la prima etade,
che nascer vide et ancor quasi in erba
la fèra voglia che per mio mal sì crebbe,
perché cantando il duol si disacerba,
canterò com’io vissi in libertade,
mentre Amor nel mio albergo a sdegno s’ebbe;
poi seguirò sì come a lui ne ’ncrebbe
troppo altamente, e che di ciò m’avenne,
di ch’io son fatto a molta gente essempio;
ben che ’l mio duro scempio
sia scritto altrove, sì che mille penne
ne son già stanche, e quasi in ogni valle
rimbombi il suon de’ miei gravi sospiri,
ch’acquistan fede a la penosa vita.
E sé qui la memoria non m’aita,
come suol fare, iscusilla i martìri,
et un penser, che solo angoscia dàlle,
tal ch’ad ogni altro fa voltar le spalle
e mi face obliar me stesso a forza,
ch’e’ tèn di me quel dentro, et io la scorza.

      I’ dico che dal dì che ’l primo assalto
mi diede Amor, molt’anni eran passati,
sì ch’io cangiava il giovenil aspetto;
e d’intorno al mio cor pensier gelati
fatto avean quasi adamantino smalto
ch’allentar non lassava il duro affetto:
lagrima ancor non mi bagnava il petto
né rompea il sonno, e quel che in me non era
mi pareva un miracolo in altrui.
Lasso, che son! che fui!
La vita el fin, e ’l dì loda la sera.
Ché, sentendo il crudel, di ch’io ragiono,
in fin allor percossa di suo strale
non essermi passato oltra la gonna,
prese in sua scorta una possente donna,
vèr’cui poco già mai mi valse o vale
ingegno o forza o dimandar perdòno.
Ei duo mi trasformaro in quel ch’i’ sono,
facendomi d’uom vivo un lauro verde,
che per fredda stagion foglia non perde.

      Qual mi fec’io quando primer m’accorsi
de la trasfigurata mia persona,
e i capei vidi far di quella fronde
di che sperato avea già lor corona,
e i piedi in ch’io mi stetti, e mossi, e corsi,
(com’ogni membro a l’anima risponde)
diventar due radici sovra l’onde,
non di Peneo, ma d’un più altèro fiume,
e ’n duo rami mutarsi ambe le braccia!
Né meno ancor m’agghiaccia
l’esser coverto poi di bianche piume,
allor che folminato e morto giacque
il mio sperar, che tropp’alto montava.
Ché, perch’io non sapea dove né quando
mel ritrovasse, solo, lagrimando,
là ’ve tolto mi fu, dì e notte andava,
ricercando dallato e dentro a l’acque,
e già mai poi la mia lingua non tacque,
mentre poteo, del suo cader maligno
ond’io presi col suon color d’un cigno.

      Così lungo l’amate rive andai,
che volendo parlar, cantava sempre,
mercé chiamando con estrania voce;
né mai in sì dolci o in sì soavi tempre
risonar seppi gli amorosi guai,
che ’l cor s’umiliasse aspro e feroce.
Qual fu a sentir, ché ’l ricordar mi coce?
Ma molto più di quel che per inanzi
de la dolce et acerba mia nemica
è bisogno ch’io dia;
ben che sia tal ch’ogni parlare avanzi.
Questa, che col mirar gli animi fura,
m’aperse il petto, e ’l cor prese con mano,
dicendo a me: - Di ciò non far parola. -
Poi la rividi in altro abito sola,
tal ch’i’ non la conobbi, o senso umano!,
anzi le dissi ’l ver pien di paura;
et ella ne l’usata sua figura
tosto tornando, fecemi, oimè lasso!,
d’un quasi vivo e sbigottito sasso.

      Ella parlava sì turbata in vista,
che tremar mi fea dentro a quella petra,
udendo: - I’ non son forse chi tu credi. -
E dicea meco: - sé costei mi spetra,
nulla vita mi fia noiosa e trista:
a farmi lagrimar signor mio riedi. -
Come, non so; pur io mossi indi i piedi,
non altrui incolpando che me stesso,
mezzo, tutto quel dì, tra vivo e morto.
Ma, perché ’l tempo è corto,
la penna al buon voler non po’ gir presso;
onde più cose ne la mente scritte
vo trapassando, e sol d’alcune parlo,
che meraviglia fanno a chi l’ascolta.
Morte mi s’era intorno al cor avolta,
nè tacendo potea di sua man trarlo,
o dar soccorso a le vertuti afflitte:
le vive voci m’erano interditte;
ond’io gridai con carta e con incostro:
- Non son mio, no; s’io moro, il danno è vostro. -

      Ben mi credea dinanzi a gli occhi suoi
d’indegno far così di mercé degno;
e questa spene m’avea fatto ardito:
ma talora umiltà spegne il disdegno,
talor l’enfiamma; e ciò sepp’io da poi,
lunga stagion di tenebre vestito;
ch’a quei preghi il mio lume era sparito.
Ed io non ritrovando intorno intorno
ombra di lei, né pur de’ suoi piedi orma,
come uom che tra via dorma,
gittaimi stanco sovra l’erba un giorno.
Ivi, accusando il fugitivo raggio,
a le lagrime triste allargai ’l freno,
e lasciaile cader come a lor parve;
né già mai neve sotto al sol disparve,
com’io senti’ me tutto venir meno,
e farmi una fontana a piè d’un faggio.
Gran tempo umido tenni quel viaggio.
Chi udì mai d’uom vero nascer fonte?
E parlo cose manifeste e conte.  

      L’alma, ch’è sol da Dio fatta gentile,
ché già d’altrui non po’ venir tal grazia,
simile al suo fattor stato ritene;
però di perdonar mai non è sazia
a chi col core e col sembiante umìle,
dopo quantunque offese, a mercé vène.
E sé contra suo stile ella sostene
d’esser molto pregata, in lui si specchia,
e fal perché ’l peccar più si pavente;
ché non ben si ripente
de l’un mal chi de l’altro s’apparecchia.
Poi che madonna da pietà commossa
degnò mirarne, e ricognovve e vide
gir di pari la pena col peccato,
benigna mi redusse al primo stato.
Ma nulla ha ’l mondo in ch’uom saggio si fide;
ch’ancor poi ripregando, i nervi e l’ossa
mi volse in dura selce; e così scossa
voce rimasi de l’antiche some,
chiamando Morte, e lei sola per nome.

      Spirto doglioso errante (mi rimembra)
per spelunche deserte e pellegrine
piansi molt’anni il mio sfrenato ardire;
et ancor poi trovai di quel mal fine,
e ritornai ne le terrene membra,
credo, per più dolore ivi sentire.
I’ segui’ tanto avanti il mio desire
ch’un dì cacciando, sì com’io solea,
mi mossi; e quella fera bella e cruda
in una fonte ignuda
si stava, quando ’l sol più forte ardea.
Io, perché d’altra vista non m’appago,  
stetti a mirarla; ond’ella ebbe vergogna;
e, per farne vendetta, o per celarse,
l’acqua nel viso co le man mi sparse.
Vero dirò (forse e’ parrà menzogna)
ch’i’ senti’ trarmi de la propria imago,
et in un cervo solitario e vago
di selva in selva ratto mi trasformo;
et ancor de’ miei can fuggo lo stormo.

      Canzon, i’ non fu’ mai quel nuvol d’oro
che poi discese in preziosa pioggia,
s’che ’l foco di Giove in parte spense;
ma fui ben fiamma ch’un bel guardo accense,
e fui l’uccel che più per l’aere poggia,
alzando lei, che ne’ miei detti onoro;
né per nova figura il primo alloro
seppi lassar, ché pur la sua dolce ombra
ogni men bel piacer del cor mi sgombra.

 
 
 
 
5
 
 
 
 
10
 
 
 
 
15
 
 
 
 
20
 
 
 
 
 
25
 
 
 
 
30
 
 
 
 
35
 
 
 
 
40
 
 
 
 
 
45
 
 
 
 
50
 
 
 
 
55
 
 
 
 
60
 
 
 
 
 
65
 
 
 
 
70
 
 
 
 
75
 
 
 
 
80
 
 
 
 
 
85
 
 
 
 
90
 
 
 
 
95
 
 
 
 
100
 
 
 
 
 
105
 
 
 
 
110
 
 
 
 
115
 
 
 
 
120
 
 
 
 
 
125
 
 
 
 
130
 
 
 
 
135
 
 
 
 
140
 
 
 
 
 
145
 
 
 
 
150
 
 
 
 
155
 
 
 
 
160
 
 
 
 
 
165
 
 

XXIV
Se l’onorata fronde che prescrive

      Se l’onorata fronde che prescrive
l’ira del ciel quando ’l gran Giove tona,
non m’avesse disdetta la corona
che suole ornar chi poetando scrive,
      i’ era amico a queste vostre dive,
le qua’ vilmente il secolo abandona;
ma quella ingiuria già lunge mi sprona
da l’inventrice delle prime olive;
      ché non bolle la polver d’Etiopia,
sotto ’l più ardente sol, com’io sfavillo,
perdendo tanto amata cosa propia.
      Cercate dunque fonte più tranquillo;
ché ’l mio d’ogni liquor sostene inopia,
salvo di quel che lagrimando stillo.
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

XXV
Amor piangeva, et io con lui tal volta

      Amor piangeva, et io con lui tal volta,
dal qual miei passi non fûr mai lontani,
mirando per gli affetti acerbi e strani
l’anima vostra de’ suoi nodi sciolta.
      Or ch’al dritto camin l’ha Dio rivolta,
col cor levando al ciel ambe le mani,
ringrazio lui, che ’ giusti preghi umani
benignamente, sua mercede, ascolta.
      E sé, tornando a l’amorosa vita,
per farvi al bel desio volger le spalle,
trovaste per la via fossati e poggi,
      fu per mostrar quanto è spinoso calle,
e quanto alpestra e dura la salita,
onde al vero valor conven ch’uom poggi.
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

XXVI
Più di me lieta non si vede a terra

      Più di me lieta non si vede a terra
nave da l’onde combattuta e vinta,
quando la gente di pietà depinta
su per la riva a ringraziar s’atterra;
      né lieto più del carcer si diserra
chi ’ntorno al collo ebbe la corda avinta,
di me, veggendo quella spada scinta
che fece al segnor mio sì lunga guerra,
      E tutti voi ch’Amor laudate in rima,
al buon testor de gli amorosi detti
rendete onor, ch’era smarrito in prima;
      ché più gloria è nel regno de gli eletti
d’un spirito converso, e più s’estima,
che di novanta nove altri perfetti.
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

XXVII
Il successor di Carlo, che la chioma

      Il successor di Carlo, che la chioma
co la corona del suo antiquo adorna,
prese ha già l’arme per fiaccar le corna
a Babilonia, e chi da lei si noma;
      e ’l vicario de Cristo colla soma
de le chiavi e del manto al nido torna,
sì che s’altro accidente no ’l distorna,
vedrà Bologna, e poi la nobil Roma.
      La mansueta vostra e gentil agna
abbatte i fieri lupi: e così vada
chiunque amor legittimo scompagna.
      Consolate lei dunque ch’ancor bada;
e Roma che del suo sposo si lagna;
e per Iesù cingete omai la spada.
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

XXVIII
O aspettata in ciel beata e bella

      O aspettata in ciel beata e bella
anima, che di nostra umanitade
vestita vai, non come l’altre carca,
perché ti sian men dure omai le strade,
a Dio diletta, obediente ancella,
onde al suo regno di qua giù si varca,
ecco novellamente a la tua barca,
ch’al cieco mondo ha già volte le spalle
per gir al miglior porto,
d’un vento occidental dolce conforto;
lo qual per mezzo questa oscura valle,
ove piangiamo il nostro e l’altrui torto,
la condurrà de’ lacci antichi sciolta
per drittissimo calle
al verace oriente, ov’ella è volta.

      Forse i devoti e gli amorosi preghi
e le lagrime sante de’ mortali
son giunti inanzi a la pietà superna;
e forse non fûr mai tante nè tali
che per merito lor punto si pieghi
fuor de suo corso la giustizia la giustizia eterna;
ma quel benigno re che ’l ciel governa,
al sacro loco ove fo posto in croce,
gli occhi per grazia gira;
onde nel petto al novo Carlo spira
la vendetta ch’a noi tardata nòce,
sì che nolt’anni Europa ne sospira.
Così soccorre a la sua amata sposa
tal che sol de la voce
fa tremar Babilonia e star pensosa.

      Chiunque alberga tra Garona e ’l monte
e ’ntra ’l Rodano e ’l Reno e l’onde salse,
le ’nsegne cristianissime accompagna;
et a cui mai di vero pregio calse,
dal Pireneo a l’ultimo orizonte,
con Aragon lassarà vòta Ispagna;
Inghilterra con l’isole che bagna
l’Oceano intra ’l Carro e le Colonne
in fin là dove sona
dottrina del santissimo Elicona,
varie di lingua e d’arme e de le gonne
a l’alta impresa caritate sprona.
Deh! qual amor sì licito, o sì degno,
qua’ figli mai, qua’ donne
furon materia a sì giusto disdegno?

      Una parte del mondo è che si giace
mai sempre in ghiaccio et in gelate nevi,
tutta lontana dal camin del sole:
là, sotto i giorni nubilosi e brevi,
nemica naturalmente di pace,
nasce una gente a cui il morir non dole:
questa sé più devota che non sòle
col tedesco furor la spada cigne,
turchi, arabi e caldei,
con tutti quei che speran nelli dèi
di qua dal mar che fa l’onde sanguigne,
quanto sian da prezzar conoscer dèi:
popolo ignudo, paventoso e lento,
che ferro mai non strigne,
ma tutt’i colpi suoi commette al vento.

      Dunque ora è ’l tempo da ritrare il collo
dal giogo antico, e da squarciare il velo
ch’è stato avolto intorno a gli occhi nostri;
e che ’l nobile ingegno che dal cielo
per grazia tien’de l’immortale Apollo,
e l’eloquenzia sua vertù qui mostri
or con la lingua, or co’ laudati incostri:
perché d’Orfeo leggendo e d’Amfione
sé non ti meravigli,
assai men fia ch’Italia co’ suoi figli
si desti al suon del tuo chiaro sermone,
tanto che per Iesù la lancia pigli;
che s’al ver mira questa antica madre,
in nulla sua tenzione
fûr mai cagion sì belle e sì leggiadre.

      Tu, c’hai per arricchir d’un bel tesauro
volte l’antiche e le moderne carte,
volando al ciel colla terrena soma,
sai, da l’imperio del figliuol di Marte
al grande Augusto che di verde Lauro
tre volte trïumfando ornò la chioma,
ne l’altrui ingiurie del suo sangue Roma
spesse fïate quanto fu cortese:
et or perché non fia,
cortese no, ma conoscente e pia,
a vendicar le dispietate offese,
col figliuol glorioso di Maria?
Che dunque la nemica parte spera
ne l’umane difese,
sé Cristo sta da la contraria schiera?

      Pon mente al temerario ardir di Serse,
che fece per calcar i nostri liti
di novi ponti oltraggio a la marina;
e vedrai ne la morte de’ mariti
tutte vestite a brun le donne perse,
e tinto in rosso il mar di Salamina.
E non pur questa misera ruina
del popolo infelice d’orïente
vittoria t’empromette,
ma Maratona, e le mortali strette,
che difese il leon con poca gente,
et altre mille c’hai ascoltate e lette.
Per che inchinare a Dio molto convene
le ginocchia e la mente,
che gli anni tuoi riserva a tanto bene.

      Tu vedrai l’Italia e l’onorata riva,
canzon, ch’a gli occhi miei cela e contende
non mar, non poggio o fiume,
ma solo Amor che del suo altèro lume
più m’invaghisce dove più m’incende;
né natura può star contr’al costume.
Or movi, non smarrir l’altre compagne;
ché non pur sotto bende
alberga Amor, per cui si ride e piagne.

 
 
 
 
5
 
 
 
 
10
 
 
 
 
15
 
 
 
 
 
20
 
 
 
 
25
 
 
 
 
30
 
 
 
 
 
35
 
 
 
 
40
 
 
 
 
45
 
 
 
 
 
50
 
 
 
 
55
 
 
 
 
60
 
 
 
 
 
65
 
 
 
 
70
 
 
 
 
75
 
 
 
 
 
80
 
 
 
 
85
 
 
 
 
90
 
 
 
 
 
95
 
 
 
 
100
 
 
 
 
105
 
 
 
 
 
110
 
 
 
    

XXIX
Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi

      Verdi panni, sanguigni, oscuri o persi
non vestì donna unquanco
né d’or capelli in bionda treccia attorse
sì bella, come questa che mi spoglia
d’arbitrio, e dal camin de libertade
seco mi tira, sì ch’io non sostegno
alcun giogo men grave.

      E pur s’arma talor a dolersi
l’anima, a cui vien manco
consiglio, ove ’l martìr l’adduce in forse,
rappella lei da la sfrenata voglia
sùbito vista; ché del cor mi rade
ogni delira impresa, et ogni sdegno
fa ’l veder lei soave.

      Di quanto per Amor già mai soffersi,
at aggio a soffrir anco,
fin che mi sani ’l cor colei che ’l morse,
rubella di mercè, che pur l’envoglia,
vendetta fia; sol che contra umiltade
orgoglio et ira il bel passo ond’io vegno
non chiuda e non inchiave.

      Ma l’ora e ’l giorno ch’io le luci apersi
nel bel nero e nel bianco
che mi scacciâr di là dove Amor corse,
novella, d’esta vita che m’addoglia,
furon radice, e quella in cui l’etade
nostra si mira, la qual piombo o legno
vedendo è chi non pave.

      Lagrima dunque che da gli occhi versi
per quelle, che nel manco
lato mi bagna chi primier s’accorse,
quadrella, dal voler mio non mi svoglia,
ché ’n giusta parte la sentenzia cade:
per lei sospira l’alma; et ella è degno
che le sue piaghe lave.

      Da me son fatti i miei pensier diversi:
tal già, qual io mi stanco,
l’amata spada in sé stessa contorse;
né quella prego che però mi scioglia,
ché men son dritte al ciel tutt’altre strade,
e non s’aspira al glorioso regno
certo in più salda nave.

      Benigne stelle che compagne fêrsi
al fortunato fianco,
quando ’l bel parto giù nel mondo scorse!
ch’è stella in terra, e come in lauro foglia
conserva verde il pregio d’onestade,
ove non spira folgore né indegno
vento mai che l’aggrave.

      So io ben ch’a voler chiuder in versi
suo laudi fôra stanco
chi più degna la mano a scriver porse:
qual cella è di memoria in cui s’accoglia
quanta vede vertù, quanta beltade,
chi gli occhi mira d’ogni valor segno,
dolce del mio cor chiave?

      Quanto il sol gira, Amor più caro pegno,
donna, di voi non have.

 
 
 
 
5
 
 
 
 
 
10
 
 
 
 
 
15
 
 
 
 
20
 
 
 
 
 
25
 
 
 
 
 
30
 
 
 
 
35
 
 
 
 
 
40
 
 
 
 
 
45
 
 
 
 
 
50
 
 
 
 
55
 

XXX
Giovene donna sotto un verde lauro

      Giovene donna sotto un verde lauro
vidi, più bianca e più fredda che neve
non percossa dal sol molti e molt’anni;
e ’l suo parlare, e ’l bel viso, e le chiome
mi piacquen sì, ch’io l’ho dinanzi a gli occhi
ed avrò sempre, ov’io sia, in poggio o ’n riva.

      Allora saranno i miei pensier a riva
che foglia verde non si trovi in lauro;
quando avrò queto il core, asciutti gli occhi,
vedrem ghiacciare il foco, arder la neve.
Non ho tanti capelli in queste chiome
quanti vorrei quel giorno attender anni.

      Ma perché vola il tempo e fuggon gli anni,
sì ch’a la morte in un punto s’arriva,
o colle brune o colle bianche chiome,
seguirò l’ombra di quel dolce lauro,
per lo più ardente sole e per la neve,
fin che l’ultimo dì chiuda quest’occhi.

      Non fûr già mai veduti sì begli occhi
o ne la nostra etade o ne’ prim’anni,
che mi struggon così come ’l sol neve;
onde procede lagrimosa riva,
ch’Amor conduce a piè del duro lauro
c’ha i rami di diamante e d’òr le chiome.

      I’ temo di cangiar pria vólto e chiome
che con vera pietà mi mostri gli occhi
l’idolo mio scolpito in vivo lauro;
ché, s’al contar non erro, oggi ha sett’anni
che sospirando vo di riva in riva
la notte e ’l giorno, al caldo ed a la neve.

      Dentro pur foco e fòr candida neve,
sol con questi pensier, con altre chiome,
sempre piangendo andrò per ogni riva,
per far forse pietà venir ne gli occhi
di tal che nascerà dopo mill’anni,
sé tanto viver po’ ben cólto lauro.

      L’auro e i topazii al sol sopra la neve
vincon le bionde chiome presso a gli occhi
che menan gli anni miei sì tosto a riva.

 
 
 
 
 
6
 
 
 
 
 
 
12
 
 
 
 
 
 
18
 
 
 
 
 
 
24
 
 
 
 
 
 
30
 
 
 
 
 
 
36
 

XXXI
Questa anima gentil che si diparte

      Questa anima gentil che si diparte,
anzi tempo chiamata a l’altra vita,
sé lassuso è quanto esser de’ gradita,
terrà del ciel la più beata parte.
      S’ella riman fra ’l terzo lume e Marte,
fia la vista del sole scolorita,
poi ch’a mirar sua bellezza infinita l’anime degne intorno a lei fien sparte;
      sé si posasse sotto al quarto nido,
ciascuna de le tre saria men bella,
et essa sola avria la fama e ’l grido;
      nel quinto giro non abitrebbe ella;
ma sé vola più alto, assai mi fido
che con Giove sia vinta ogni altra stella.
 
 
 
 
5
 
 
 
 
10
 

XXXII
Quanto più m’avicino al giorno estremo

      Quanto più m’avicino al giorno estremo
che l’umana miseria suol far breve,
più veggio il tempo andar veloce e leve,
e ’l mio di lui sperar fallace e scemo.
      I’ dico a’ miei pensier: - Non molto andremo
d’amor parlando omai, ché ’l duro e greve
terreno incarco come fresca neve
si va struggendo; onde noi pace avremo:
      perché co llui cadrà quella speranza
che ne fe’ vaneggiar sì lungamente,
e ’l riso e il pianto, e la paura e l’ira.
      Sì vedrem chiaro poi come sovente
per le cose dubbiose altri s’avanza,
e come spesso indarno si sospira. -
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

XXXIII
Già fiammeggiava l’amorosa stella

      Già fiammeggiava l’amorosa stella
per l’orïente, e l’altra che Giunone
suol far gelosa nel Settentrïone
rotava i raggi suoi lucente e bella;
      levata era a filar la vecchiarella,
discinta e scalza, e desto avea ’l carbone,
e gli amanti pungea quella stagione
che per usanza a lagrimar gli appella;
      quando mia speme già condutta al verde
giunse nel cor, non per l’usata via,
che ’l sonno tenea chiusa, e ’l dolor molle;
      quanto cangiata, oimè, da quel di pria!
e parea dir: - Perché tuo valor perde?
Veder quest’occhi ancor non ti si tolle. -
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

XXXIV
Apollo, s’ancor vive il bel desïo

      Apollo, s’ancor vive il bel desïo
che t’infiammava a te le tesaliche onde,
e sé non hai l’amate chiome bionde,
volgendo gli anni, già poste in oblio,
      dal pigro gielo e dal tempo aspro e rio,
che dura quanto ’l tuo viso s’asconde,
difendo or l’onorata e sacra fronde,
ove tu prima, e poi fu’ invescato io;
      e per vertù de l’amorosa speme
che ti sostenne ne la vita acerba,
di queste impression l’aëre disgombra:
      sì vedrem poi per meraviglia inseme
seder la donna nostra sopra l’erba
e far de le sue braccia a sé stessa ombra.
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

XXXV
Solo e pensoso i più deserti campi

      Solo e pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi e lenti,
e gli occhi porto per fuggire intenti
ove vestigio uman l’arena stampi.
      Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti;
perché ne gli atti d’alegrezza spenti
di fuor si legge com’io dentro avampi;
      sì ch’io mi credo omai che monti e piagge
e fiumi e selve sappian di che tempre
sia la mia vita, ch’è celata altrui.
      Ma pur sì aspre vie né si selvagge
cercar non so ch’Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io co llui.
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14

XXXVI
S’io credesse per morte essere scarco

      S’io credesse per morte essere scarco
del pensiero amoroso che m’atterra
colle mie mani avrei già posto in terra
queste membra noiose e quello incarco;
      ma perch’io temo che sarrebbe un varco
di pianto in pianto e d’una in altra guerra,
di qua dal passo ancor che mi si serra
mezzo rimango, lasso!, e mezzo il varco.
      Tempo ben fôra omai d’avere spinto
l’ultimo stral la dispietata corda,
ne l’altrui sangue già bagnato e tinto.
      Et io ne prego Amore, e quella sorda
che mi lassò de’ suoi color depinto,
e di chiamarmi a sè non le ricorda.
 
 
 
4
 
 
 
8
 
 
11
 
 
14


Biblioteca

Indice

Biografia

Fausernet

© 30/04/1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it

Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998