Alessandro Manzoni
I Promessi Sposi
Capitolo XXVII
Già più d'una
volta c'è occorso di far menzione della guerra che allora bolliva, per la successione
agli stati del duca Vincenzo Gonzaga, secondo di quel nome; ma c'è occorso sempre in
momenti di gran fretta: sicché non abbiam mai potuto darne più che un cenno alla
sfuggita. Ora però, all'intelligenza del nostro racconto si richiede proprio d'averne
qualche notizia più particolare. Son cose che chi conosce la storia le deve sapere; ma
siccome, per un giusto sentimento di noi medesimi, dobbiam supporre che quest'opera non
possa esser letta se non da ignoranti, così non sarà male che ne diciamo qui quanto
basti per infarinarne chi n'avesse bisogno.
Abbiam detto che, alla morte di quel
duca, il primo chiamato in linea di successione, Carlo Gonzaga, capo d'un ramo cadetto
trapiantato in Francia, dove possedeva i ducati di Nevers e di Rhetel, era entrato al
possesso di Mantova; e ora aggiungiamo, del Monferrato: che la fretta appunto ce l'aveva
fatto lasciar nella penna. La corte di Madrid, che voleva a ogni patto (abbiam detto anche
questo) escludere da que' due feudi il nuovo principe, e per escluderlo aveva bisogno
d'una ragione (perché le guerre fatte senza una ragione sarebbero ingiuste), s'era
dichiarata sostenitrice di quella che pretendevano avere, su Mantova un altro Gonzaga,
Ferrante, principe di Guastalla; sul Monferrato Carlo Emanuele I, duca di Savoia, e
Margherita Gonzaga, duchessa vedova di Lorena. Don Gonzalo, ch'era della casa del gran
capitano, e ne portava il nome, e che aveva già fatto la guerra in Fiandra, voglioso
oltremodo di condurne una in Italia, era forse quello che faceva più fuoco, perché
questa si dichiarasse; e intanto, interpretando l'intenzioni e precorrendo gli ordini
della corte suddetta, aveva concluso col duca di Savoia un trattato d'invasione e di
divisione del Monferrato; e n'aveva poi ottenuta facilmente la ratificazione dal conte
duca, facendogli creder molto agevole l'acquisto di Casale, ch'era il punto più difeso
della parte pattuita al re di Spagna. Protestava però, in nome di questo, di non volere
occupar paese, se non a titolo di deposito, fino alla sentenza dell'imperatore; il quale,
in parte per gli ufizi altrui, in parte per suoi propri motivi, aveva intanto negata
l'investitura al nuovo duca, e intimatogli che rilasciasse a lui in sequestro gli stati
controversi: lui poi, sentite le parti, li rimetterebbe a chi fosse di dovere. Cosa alla
quale il Nevers non s'era voluto piegare.
Aveva anche lui amici d'importanza:
il cardinale di Richelieu, i signori veneziani, e il papa, ch'era, come abbiam detto,
Urbano VIII. Ma il primo, impegnato allora nell'assedio della Roccella e in una guerra con
l'Inghilterra, attraversato dal partito della regina madre, Maria de' Medici, contraria,
per certi suoi motivi, alla casa di Nevers, non poteva dare che delle speranze. I
veneziani non volevan moversi, e nemmeno dichiararsi, se prima un esercito francese non
fosse calato in Italia; e, aiutando il duca sotto mano, come potevano, con la corte di
Madrid e col governatore di Milano stavano sulle proteste, sulle proposte,
sull'esortazioni, placide o minacciose, secondo i momenti. Il papa raccomandava il Nevers
agli amici, intercedeva in suo favore presso gli avversari, faceva progetti
d'accomodamento; di metter gente in campo non ne voleva saper nulla.
Così i due alleati alle offese
poterono, tanto più sicuramente, cominciar l'impresa concertata. Il duca di Savoia era
entrato, dalla sua parte, nel Monferrato; don Gonzalo aveva messo, con gran voglia,
l'assedio a Casale; ma non ci trovava tutta quella soddisfazione che s'era immaginato: che
non credeste che nella guerra sia tutto rose. La corte non l'aiutava a seconda de' suoi
desidèri, anzi gli lasciava mancare i mezzi più necessari; l'alleato l'aiutava troppo:
voglio dire che, dopo aver presa la sua porzione, andava spilluzzicando quella assegnata
al re di Spagna. Don Gonzalo se ne rodeva quanto mai si possa dire; ma temendo, se faceva
appena un po' di rumore, che quel Carlo Emanuele, così attivo ne' maneggi e mobile ne'
trattati, come prode nell'armi, si voltasse alla Francia, doveva chiudere un occhio,
mandarla giù, e stare zitto. L'assedio poi andava male, in lungo, ogni tanto
all'indietro, e per il contegno saldo, vigilante, risoluto degli assediati, e per aver lui
poca gente, e, al dire di qualche storico, per i molti spropositi che faceva. Su questo
noi lasciamo la verità a suo luogo, disposti anche, quando la cosa fosse realmente così,
a trovarla bellissima, se fu cagione che in quell'impresa sia restato morto, smozzicato,
storpiato qualche uomo di meno, e, ceteris paribus, anche soltanto un po' meno
danneggiati i tegoli di Casale. In questi frangenti ricevette la nuova della sedizione di
Milano, e ci accorse in persona.
Qui, nel ragguaglio che gli si
diede, fu fatta anche menzione della fuga ribelle e clamorosa di Renzo, de' fatti veri e
supposti ch'erano stati cagione del suo arresto; e gli si seppe anche dire che questo tale
s'era rifugiato sul territorio di Bergamo. Questa circostanza fermò l'attenzione di don
Gonzalo. Era informato da tutt'altra parte, che a Venezia avevano alzata la cresta, per la
sommossa di Milano; che da principio avevan creduto che sarebbe costretto a levar
l'assedio da Casale, e pensavan tuttavia che ne fosse ancora sbalordito, e in gran
pensiero: tanto più che, subito dopo quell'avvenimento, era arrivata la notizia,
sospirata da que' signori e temuta da lui, della resa della Roccella. E scottandogli
molto, e come uomo e come politico, che que' signori avessero un tal concetto de' fatti
suoi, spiava ogni occasione di persuaderli, per via d'induzione, che non aveva perso nulla
dell'antica sicurezza; giacché il dire espressamente: non ho paura, è come non dir
nulla. Un buon mezzo è di fare il disgustato, di querelarsi, di reclamare: e perciò,
essendo venuto il residente di Venezia a fargli un complimento, e ad esplorare insieme,
nella sua faccia e nel suo contegno, come stesse dentro di sé (notate tutto; ché questa
è politica di quella vecchia fine), don Gonzalo, dopo aver parlato del tumulto,
leggermente e da uomo che ha già messo riparo a tutto; fece quel fracasso che sapete a
proposito di Renzo; come sapete anche quel che ne venne in conseguenza. Dopo, non
s'occupò più d'un affare così minuto e, in quanto a lui, terminato; e quando poi, che
fu un pezzo dopo, gli arrivò la risposta, al campo sopra Casale, dov'era tornato, e dove
aveva tutt'altri pensieri, alzò e dimenò la testa, come un baco da seta che cerchi la
foglia; stette lì un momento, per farsi tornar vivo nella memoria quel fatto, di cui non
ci rimaneva più che un'ombra; si rammentò della cosa, ebbe un'idea fugace e confusa del
personaggio; passò ad altro, e non ci pensò più.
Ma Renzo, il quale, da quel poco che
gli s'era fatto veder per aria, doveva supporre tutt'altro che una così benigna
noncuranza, stette un pezzo senz'altro pensiero o, per dir meglio, senz'altro studio, che
di viver nascosto. Pensate se si struggeva di mandar le sue nuove alle donne, e d'aver le
loro; ma c'eran due gran difficoltà. Una, che avrebbe dovuto anche lui confidarsi a un
segretario, perché il poverino non sapeva scrivere, e neppur leggere, nel senso esteso
della parola; e se, interrogato di ciò, come forse vi ricorderete, dal dottor
Azzecca-garbugli, aveva risposto di sì, non fu un vanto, una sparata, come si dice; ma
era la verità che lo stampato lo sapeva leggere, mettendoci il suo tempo: lo scritto è
un altro par di maniche. Era dunque costretto a mettere un terzo a parte de' suoi
interessi, d'un segreto così geloso: e un uomo che sapesse tener la penna in mano, e di
cui uno si potesse fidare, a que' tempi non si trovava così facilmente; tanto più in un
paese dove non s'avesse nessuna antica conoscenza. L'altra difficoltà era d'avere anche
un corriere; un uomo che andasse appunto da quelle parti, che volesse incaricarsi della
lettera, e darsi davvero il pensiero di recapitarla; tutte cose, anche queste, difficili a
trovarsi in un uomo solo.
Finalmente, cerca e ricerca, trovò
chi scrivesse per lui. Ma, non sapendo se le donne fossero ancora a Monza, o dove, credé
bene di fare accluder la lettera per Agnese in un'altra diretta al padre Cristoforo. Lo
scrivano prese anche l'incarico di far recapitare il plico; lo consegnò a uno che doveva
passare non lontano da Pescarenico; costui lo lasciò, con molte raccomandazioni, in
un'osteria sulla strada, al punto più vicino; trattandosi che il plico era indirizzato a
un convento, ci arrivò; ma cosa n'avvenisse dopo, non s'è mai saputo. Renzo, non vedendo
comparir risposta, fece stendere un'altra lettera, a un di presso come la prima, e
accluderla in un'altra a un suo amico di Lecco, o parente che fosse. Si cercò un altro
latore, si trovò; questa volta la lettera arrivò a chi era diretta. Agnese trottò a
Maggianico, se la fece leggere e spiegare da quell'Alessio suo cugino: concertò con lui
una risposta, che questo mise in carta; si trovò il mezzo di mandarla ad Antonio Rivolta
nel luogo del suo domicilio: tutto questo però non così presto come noi lo raccontiamo.
Renzo ebbe la risposta, e fece riscrivere. In somma, s'avviò tra le due parti un
carteggio, né rapido né regolare, ma pure, a balzi e ad intervalli, continuato.
Ma per avere un'idea di quel
carteggio, bisogna sapere un poco come andassero allora tali cose, anzi come vadano;
perché, in questo particolare, credo che ci sia poco o nulla di cambiato.
Il contadino che non sa scrivere, e
che avrebbe bisogno di scrivere, si rivolge a uno che conosca quell'arte, scegliendolo,
per quanto può, tra quelli della sua condizione, perché degli altri si perita, o si fida
poco; l'informa, con più o meno ordine e chiarezza, degli antecedenti: e gli espone,
nella stessa maniera, la cosa da mettere in carta. Il letterato, parte intende, parte
frantende, dà qualche consiglio, propone qualche cambiamento, dice: lasciate fare a me;
piglia la penna, mette come può in forma letteraria i pensieri dell'altro, li corregge,
li migliora, carica la mano, oppure smorza, lascia anche fuori, secondo gli pare che torni
meglio alla cosa: perché, non c'è rimedio, chi ne sa più degli altri non vuol essere
strumento materiale nelle loro mani; e quando entra negli affari altrui, vuol anche fargli
andare un po' a modo suo. Con tutto ciò, al letterato suddetto non gli riesce sempre di
dire tutto quel che vorrebbe; qualche volta gli accade di dire tutt'altro: accade anche a
noi altri, che scriviamo per la stampa. Quando la lettera così composta arriva alle mani
del corrispondente, che anche lui non abbia pratica dell'abbiccì, la porta a un altro
dotto di quel calibro, il quale gliela legge e gliela spiega. Nascono delle questioni sul
modo d'intendere; perché l'interessato, fondandosi sulla cognizione de' fatti
antecedenti, pretende che certe parole voglian dire una cosa; il lettore, stando alla
pratica che ha della composizione, pretende che ne vogliano dire un'altra. Finalmente
bisogna che chi non sa si metta nelle mani di chi sa, e dia a lui l'incarico della
risposta: la quale, fatta sul gusto della proposta, va poi soggetta a un'interpretazione
simile. Che se, per di più, il soggetto della corrispondenza è un po' geloso; se
c'entrano affari segreti, che non si vorrebbero lasciar capire a un terzo, caso mai che la
lettera andasse persa; se, per questo riguardo, c'è stata anche l'intenzione positiva di
non dir le cose affatto chiare; allora, per poco che la corrispondenza duri, le parti
finiscono a intendersi tra di loro come altre volte due scolastici che da quattr'ore
disputassero sull'entelechia: per non prendere una similitudine da cose vive; che ci
avesse poi a toccare qualche scappellotto.
Ora, il caso de' nostri due
corrispondenti era appunto quello che abbiam detto. La prima lettera scritta in nome di
Renzo conteneva molte materie. Da principio, oltre un racconto della fuga, molto più
conciso, ma anche più arruffato di quello che avete letto, un ragguaglio delle sue
circostanze attuali; dal quale, tanto Agnese quanto il suo turcimanno furono ben lontani
di ricavare un costrutto chiaro e intero: avviso segreto, cambiamento di nome, esser
sicuro, ma dovere star nascosto; cose per sé non troppo famigliari a' loro intelletti, e
nella lettera dette anche un po' in cifra. C'era poi delle domande affannose,
appassionate, su' casi di Lucia, con de' cenni oscuri e dolenti, intorno alle voci che
n'erano arrivate fino a Renzo. C'erano finalmente speranze incerte, e lontane, disegni
lanciati nell'avvenire, e intanto promesse e preghiere di mantener la fede data, di non
perder la pazienza né il coraggio, d'aspettar migliori circostanze.
Dopo un po' di tempo, Agnese trovò
un mezzo fidato di far pervenire nelle mani di Renzo una risposta, co' cinquanta scudi
assegnatigli da Lucia. Al veder tant'oro, Renzo non sapeva cosa si pensare; e con l'animo
agitato da una maraviglia e da una sospensione che non davan luogo a contentezza, corse in
cerca del segretario, per farsi interpretar la lettera, e aver la chiave d'un così strano
mistero.
Nella lettera, il segretario
d'Agnese, dopo qualche lamento sulla poca chiarezza della proposta, passava a descrivere,
con chiarezza a un di presso uguale, la tremenda storia di quella persona (così diceva);
e qui rendeva ragione de' cinquanta scudi; poi veniva a parlar del voto, ma per via di
perifrasi, aggiungendo, con parole più dirette e aperte, il consiglio di mettere il cuore
in pace, e di non pensarci più.
Renzo, poco mancò che non se la
prendesse col lettore interprete: tremava, inorridiva, s'infuriava, di quel che aveva
capito, e di quel che non aveva potuto capire. Tre o quattro volte si fece rileggere il
terribile scritto, ora parendogli d'intender meglio, ora divenendogli buio ciò che prima
gli era parso chiaro. E in quella febbre di passioni, volle che il segretario mettesse
subito mano alla penna, e rispondesse. Dopo l'espressioni più forti che si possano
immaginare di pietà e di terrore per i casi di Lucia, - scrivete, - proseguiva dettando,
- che io il cuore in pace non lo voglio mettere, e non lo metterò mai; e che non son
pareri da darsi a un figliuolo par mio; e che i danari non li toccherò; che li ripongo, e
li tengo in deposito, per la dote della giovine; che già la giovine dev'esser mia; che io
non so di promessa; e che ho ben sempre sentito dire che la Madonna c'entra per aiutare i
tribolati, e per ottener delle grazie, ma per far dispetto e per mancar di parola, non
l'ho sentito mai; e che codesto non può stare; e che, con questi danari, abbiamo a metter
su casa qui; e che, se ora sono un po' imbrogliato, l'è una burrasca che passerà presto
-; e cose simili.
Agnese ricevé poi quella lettera, e
fece riscrivere; e il carteggio continuò, nella maniera che abbiam detto.
Lucia, quando la madre ebbe potuto,
non so per qual mezzo, farle sapere che quel tale era vivo e in salvo e avvertito, sentì
un gran sollievo, e non desiderava più altro, se non che si dimenticasse di lei; o, per
dir la cosa proprio a un puntino, che pensasse a dimenticarla. Dal canto suo, faceva cento
volte al giorno una risoluzione simile riguardo a lui; e adoprava anche ogni mezzo, per
mandarla ad effetto. Stava assidua al lavoro, cercava d'occuparsi tutta in quello: quando
l'immagine di Renzo le si presentava, e lei a dire o a cantare orazioni a mente. Ma
quell'immagine, proprio come se avesse avuto malizia, non veniva per lo più, così alla
scoperta; s'introduceva di soppiatto dietro all'altre, in modo che la mente non
s'accorgesse d'averla ricevuta, se non dopo qualche tempo che la c'era. Il pensiero di
Lucia stava spesso con la madre: come non ci sarebbe stato? e il Renzo ideale veniva pian
piano a mettersi in terzo, come il reale aveva fatto tante volte. Così con tutte le
persone, in tutti i luoghi, in tutte le memorie del passato, colui si veniva a ficcare. E
se la poverina si lasciava andar qualche volta a fantasticar sul suo avvenire, anche lì
compariva colui, per dire, se non altro: io a buon conto non ci sarò. Però, se il non
pensare a lui era impresa disperata, a pensarci meno, e meno intensamente che il cuore
avrebbe voluto, Lucia ci riusciva fino a un certo segno: ci sarebbe anche riuscita meglio,
se fosse stata sola a volerlo. Ma c'era donna Prassede, la quale, tutta impegnata dal
canto suo a levarle dall'animo colui, non aveva trovato miglior espediente che di
parlargliene spesso. - Ebbene? - le diceva: - non ci pensiam più a colui ?
- Io non penso a nessuno, -
rispondeva Lucia.
Donna Prassede non s'appagava d'una
risposta simile; replicava che ci volevan fatti e non parole; si diffondeva a parlare sul
costume delle giovani, le quali, diceva, - quando hanno nel cuore uno scapestrato (ed è
lì che inclinano sempre), non se lo staccan più. Un partito onesto, ragionevole, d'un
galantuomo, d'un uomo assestato, che, per qualche accidente, vada a monte, son subito
rassegnate; ma un rompicollo, è piaga incurabile -. E allora principiava il panegirico
del povero assente, del birbante venuto a Milano, per rubare e scannare; e voleva far
confessare a Lucia le bricconate che colui doveva aver fatte, sicuramente anche al suo
paese.
Lucia, con la voce tremante di
vergogna, di dolore, e di quello sdegno che poteva aver luogo nel suo animo dolce e nella
sua umile fortuna, assicurava e attestava, che, al suo paese, quel poveretto non aveva mai
fatto parlar di sé, altro che in bene; avrebbe voluto, diceva, che fosse presente
qualcheduno di là, per fargli far testimonianza. Anche sull'avventure di Milano, delle
quali non era ben informata, lo difendeva, appunto con la cognizione che aveva di lui e
de' suoi portamenti fino dalla fanciullezza. Lo difendeva o si proponeva di difenderlo,
per puro dovere di carità, per amore del vero, e, a dir proprio la parola con la quale
spiegava a se stessa il suo sentimento, come prossimo. Ma da queste apologie donna
Prassede ricavava nuovi argomenti per convincer Lucia, che il suo cuore era ancora perso
dietro a colui. E per verità, in que' momenti, non saprei ben dire come la cosa stesse.
L'indegno ritratto che la vecchia faceva del poverino, risvegliava, per opposizione, più
viva e più distinta che mai, nella mente della giovine l'idea che vi s'era formata in una
così lunga consuetudine; le rimembranze compresse a forza, si svolgevano in folla;
l'avversione e il disprezzo richiamavano tanti antichi motivi di stima; l'odio cieco e
violento faceva sorger più forte la pietà: e con questi affetti, chi sa quanto ci
potesse essere o non essere di quell'altro che dietro ad essi s'introduce così facilmente
negli animi; figuriamoci cosa farà in quelli, donde si tratti di scacciarlo per forza.
Sia come si sia, il discorso, per la parte di Lucia, non sarebbe mai andato molto in
lungo; ché le parole finivan presto in pianto.
Se donna Prassede fosse stata spinta
a trattarla in quella maniera da qualche odio inveterato contro di lei, forse quelle
lacrime l'avrebbero, tocca e fatta smettere; ma parlando a fin di bene, tirava avanti,
senza lasciarsi smovere: come i gemiti, i gridi supplichevoli, potranno ben trattenere
l'arme d'un nemico, ma non il ferro d'un chirurgo. Fatto però bene il suo dovere per
quella volta, dalle stoccate e da' rabbuffi veniva all'esortazioni, ai consigli, conditi
anche di qualche lode, per temperar così l'agro col dolce, e ottener meglio l'effetto,
operando sull'animo in tutti i versi. Certo, di quelle baruffe (che avevan sempre a un di
presso lo stesso principio, mezzo e fine), non rimaneva alla buona Lucia propriamente
astio contro l'acerba predicatrice, la quale poi nel resto la trattava con gran dolcezza;
e anche in questo, si vedeva una buona intenzione. Le rimaneva bensì un ribollimento, una
sollevazione di pensieri e d'affetti tale, che ci voleva molto tempo e molta fatica per
tornare a quella qualunque calma di prima.
Buon per lei, che non era la sola a
cui donna Prassede avesse a far del bene; sicché le baruffe non potevano esser così
frequenti. Oltre il resto della servitù, tutti cervelli che avevan bisogno, più o meno,
d'esser raddirizzati e guidati; oltre tutte l'altre occasioni di prestar lo stesso ufizio,
per buon cuore, a molti con cui non era obbligata a niente: occasioni che cercava, se non
s'offrivan da sé; aveva anche cinque figlie; nessuna in casa, ma che le davan più da
pensare, che se ci fossero state. Tre eran monache, due maritate; e donna Prassede si
trovava naturalmente aver tre monasteri e due case a cui soprintendere: impresa vasta e
complicata, e tanto più faticosa, che due mariti, spalleggiati da padri, da madri, da
fratelli, e tre badesse, fiancheggiate da altre dignità e da molte monache, non volevano
accettare la sua soprintendenza. Era una guerra, anzi cinque guerre, coperte, gentili,
fino a un certo segno, ma vive e senza tregua: era in tutti que' luoghi un'attenzione
continua a scansare la sua premura, a chiuder l'adito a' suoi pareri, a eludere le sue
richieste, a far che fosse al buio, più che si poteva, d'ogni affare. Non parlo de'
contrasti, delle difficoltà che incontrava nel maneggio d'altri affari anche più
estranei: si sa che agli uomini il bene bisogna, le più volte, farlo per forza. Dove il
suo zelo poteva esercitarsi liberamente, era in casa: lì ogni persona era soggetta, in
tutto e per tutto, alla sua autorità, fuorché don Ferrante, col quale le cose andavano
in un modo affatto particolare.
Uomo di studio, non gli piaceva né
di comandare né d'ubbidire. Che, in tutte le cose di casa, la signora moglie fosse la
padrona, alla buon'ora; ma lui servo, no. E se, pregato, le prestava a un'occorrenza
l'ufizio della penna, era perché ci aveva il suo genio; del rimanente, anche in questo
sapeva dir di no, quando non fosse persuaso di ciò che lei voleva fargli scrivere. - La
s'ingegni, - diceva in que' casi; - faccia da sé, giacché la cosa le par tanto chiara -.
Donna Prassede, dopo aver tentato per qualche tempo, e inutilmente, di tirarlo dal lasciar
fare al fare, s'era ristretta a brontolare spesso contro di lui, a nominarlo uno
schivafatiche, un uomo fisso nelle sue idee, un letterato; titolo nel quale, insieme con
la stizza, c'entrava anche un po' di compiacenza.
Don Ferrante passava di grand'ore
nel suo studio, dove aveva una raccolta di libri considerabile, poco meno di trecento
volumi: tutta roba scelta, tutte opere delle più riputate, in varie materie; in ognuna
delle quali era più o meno versato. Nell'astrologia, era tenuto, e con ragione, per più
che un dilettante; perché non ne possedeva soltanto quelle nozioni generiche, e quel
vocabolario comune, d'influssi, d'aspetti, di congiunzioni; ma sapeva parlare a proposito,
e come dalla cattedra, delle dodici case del cielo, de' circoli massimi, de' gradi lucidi
e tenebrosi, d'esaltazione e di deiezione, di transiti e di rivoluzioni, de' princìpi in
somma più certi e più reconditi della scienza. Ed eran forse vent'anni che, in dispute
frequenti e lunghe, sosteneva la domificazione del Cardano contro un altro dotto attaccato
ferocemente a quella dell'Alcabizio, per mera ostinazione, diceva don Ferrante; il quale,
riconoscendo volentieri la superiorità degli antichi, non poteva però soffrire quel non
voler dar ragione a' moderni, anche dove l'hanno chiara che la vedrebbe ognuno. Conosceva
anche, più che mediocremente, la storia della scienza; sapeva a un bisogno citare le più
celebri predizioni avverate, e ragionar sottilmente ed eruditamente sopra altre celebri
predizioni andate a vòto, per dimostrar che la colpa non era della scienza, ma di chi non
l'aveva saputa adoprar bene.
Della filosofia antica aveva
imparato quanto poteva bastare, e n'andava di continuo imparando di più, dalla lettura di
Diogene Laerzio. Siccome però que' sistemi, per quanto sian belli, non si può adottarli
tutti; e, a voler esser filosofo, bisogna scegliere un autore, così don Ferrante aveva
scelto Aristotile, il quale, come diceva lui, non è né antico né moderno; è il
filosofo. Aveva anche varie opere de' più savi e sottili seguaci di lui, tra i moderni:
quelle de' suoi impugnatori non aveva mai voluto leggerle, per non buttar via il tempo,
diceva; né comprarle, per non buttar via i danari. Per eccezione però, dava luogo nella
sua libreria a que' celebri ventidue libri De subtilitate, e a qualche altr'opera
antiperipatetica del Cardano, in grazia del suo valore in astrologia; dicendo che chi
aveva potuto scrivere il trattato De restitutione temporum et motuum coelestium, e
il libro Duodecim geniturarum, meritava d'essere ascoltato, anche quando
spropositava; e che il gran difetto di quell'uomo era stato d'aver troppo ingegno; e che
nessuno si può immaginare dove sarebbe arrivato, anche in filosofia, se fosse stato
sempre nella strada retta. Del rimanente, quantunque, nel giudizio de' dotti, don Ferrante
passasse per un peripatetico consumato, non ostante a lui non pareva di saperne
abbastanza; e più d'una volta disse, con gran modestia, che l'essenza, gli universali,
l'anima del mondo, e la natura delle cose non eran cose tanto chiare, quanto si potrebbe
credere.
Della filosofia naturale s'era fatto
più un passatempo che uno studio; l'opere stesse d'Aristotile su questa materia, e quelle
di Plinio le aveva piùttosto lette che studiate: non di meno, con questa lettura, con le
notizie raccolte incidentemente da' trattati di filosofia generale, con qualche scorsa
data alla Magia naturale del Porta, alle tre storie lapidum, animalium, plantarum,
del Cardano, al Trattato dell'erbe, delle piante, degli animali, d'Alberto Magno, a
qualche altr'opera di minor conto, sapeva a tempo trattenere una conversazione ragionando
delle virtù più mirabili e delle curiosità più singolari di molti semplici;
descrivendo esattamente le forme e l'abitudini delle sirene e dell'unica fenice; spiegando
come la salamandra stia nel fuoco senza bruciare: come la remora, quel pesciolino, abbia
la forza e l'abilità di fermare di punto in bianco, in alto mare, qualunque gran nave;
come le gocciole della rugiada diventin perle in seno delle conchiglie; come il cameleonte
si cibi d'aria; come dal ghiaccio lentamente indurato, con l'andar de' secoli, si formi il
cristallo; e altri de' più maravigliosi segreti della natura.
In quelli della magia e della
stregoneria s'era internato di più, trattandosi, dice il nostro anonimo, di scienza molto
più in voga e più necessaria, e nella quale i fatti sono di molto maggiore importanza, e
più a mano, da poterli verificare. Non c'è bisogno di dire che, in un tale studio, non
aveva mai avuta altra mira che d'istruirsi e di conoscere a fondo le pessime arti de'
maliardi, per potersene guardare, e difendere. E, con la scorta principalmente del gran
Martino Delrio (l'uomo della scienza), era in grado di discorrere ex professo del
maleficio amatorio, del maleficio sonnifero, del maleficio ostile, e dell'infinite specie
che, pur troppo, dice ancora l'anonimo, si vedono in pratica alla giornata, di questi tre
generi capitali di malìe, con effetti così dolorosi. Ugualmente vaste e fondate eran le
cognizioni di don Ferrante in fatto di storia, specialmente universale: nella quale i suoi
autori erano il Tarcagnota, il Dolce, il Bugatti, il Campana, il Guazzo, i più riputati
in somma.
Ma cos'è mai la storia, diceva
spesso don Ferrante, senza la politica? Una guida che cammina, cammina, con nessuno dietro
che impari la strada, e per conseguenza butta via i suoi passi; come la politica senza la
storia è uno che cammina senza guida. C'era dunque ne' suoi scaffali un palchetto
assegnato agli statisti; dove, tra molti di piccola mole, e di fama secondaria, spiccavano
il Bodino, il Cavalcanti, il Sansovino, il Paruta, il Boccalini. Due però erano i libri
che don Ferrante anteponeva a tutti, e di gran lunga, in questa materia; due che, fino a
un certo tempo, fu solito di chiamare i primi, senza mai potersi risolvere a qual de' due
convenisse unicamente quel grado: l'uno, il Principe e i Discorsi del
celebre segretario fiorentino; mariolo sì, diceva don Ferrante, ma profondo: l'altro, la Ragion
di Stato del non men celebre Giovanni Botero; galantuomo sì, diceva pure, ma acuto.
Ma, poco prima del tempo nel quale è circoscritta la nostra storia, era venuto fuori il
libro che terminò la questione del primato, passando avanti anche all'opere di que' due matadori,
diceva don Ferrante; il libro in cui si trovan racchiuse e come stillate tutte le malizie,
per poterle conoscere, e tutte le virtù, per poterle praticare; quel libro piccino, ma
tutto d'oro; in una parola, lo Statista Regnante di don Valeriano Castiglione, di
quell'uomo celeberrimo, di cui si può dire, che i più gran letterati lo esaltavano a
gara, e i più gran personaggi facevano a rubarselo; di quell'uomo, che il papa Urbano
VIII onorò, come è noto, di magnifiche lodi; che il cardinal Borghese e il viceré di
Napoli, don Pietro di Toledo, sollecitarono a descrivere, il primo i fatti di papa Paolo
V, l'altro le guerre del re cattolico in Italia, l'uno e l'altro invano; di quell'uomo,
che Luigi XIII, re di Francia, per suggerimento del cardinal di Richelieu, nominò suo
istoriografo; a cui il duca Carlo Emanuele di Savoia conferì la stessa carica; in lode di
cui, per tralasciare altre gloriose testimonianze, la duchessa Cristina, figlia del
cristianissimo re Enrico IV, poté in un diploma, con molti altri titoli, annoverare «la
certezza della fama ch'egli ottiene in Italia, di primo scrittore de' nostri tempi».
Ma se, in tutte le scienze suddette,
don Ferrante poteva dirsi addottrinato, una ce n'era in cui meritava e godeva il titolo di
professore: la scienza cavalleresca. Non solo ne ragionava con vero possesso, ma pregato
frequentemente d'intervenire in affari d'onore, dava sempre qualche decisione. Aveva nella
sua libreria, e si può dire in testa, le opere degli scrittori più riputati in tal
materia: Paride dal Pozzo, Fausto da Longiano, l'Urrea, il Muzio, il Romei, l'Albergato,
il Forno primo e il Forno secondo di Torquato Tasso, di cui aveva anche in pronto, e a un
bisogno sapeva citare a memoria tutti i passi così della Gerusalemme Liberata, come della
Conquistata, che possono far testo in materia di cavalleria. L'autore però degli autori,
nel suo concetto, era il nostro celebre Francesco Birago, con cui si trovò anche, più
d'una volta, a dar giudizio sopra casi d'onore; e il quale, dal canto suo, parlava di don
Ferrante in termini di stima particolare. E fin da quando venner fuori i Discorsi
Cavallereschi di quell'insigne scrittore, don Ferrante pronosticò, senza esitazione,
che quest'opera avrebbe rovinata l'autorità dell'Olevano, e sarebbe rimasta, insieme con
l'altre sue nobili sorelle, come codice di primaria autorità presso ai posteri: profezia,
dice l'anonimo, che ognun può vedere come si sia avverata.
Da questo passa poi alle lettere
amene; ma noi cominciamo a dubitare se veramente il lettore abbia una gran voglia d'andar
avanti con lui in questa rassegna, anzi a temere di non aver già buscato il titolo di
copiator servile per noi, e quello di seccatore da dividersi con l'anonimo sullodato, per
averlo bonariamente seguito fin qui, in cosa estranea al racconto principale, e nella
quale probabilmente non s'è tanto disteso, che per isfoggiar dottrina, e far vedere che
non era indietro del suo secolo. Però, lasciando scritto quel che è scritto, per non
perder la nostra fatica, ometteremo il rimanente, per rimetterci in istrada: tanto più
che ne abbiamo un bel pezzo da percorrere, senza incontrare alcun de' nostri personaggi, e
uno più lungo ancora, prima di trovar quelli ai fatti de' quali certamente il lettore
s'interessa di più, se a qualche cosa s'interessa in tutto questo.
Fino all'autunno del seguente anno
1629, rimasero tutti, chi per volontà, chi per forza, nello stato a un di presso in cui
gli abbiam lasciati, senza che ad alcuno accadesse, né che alcun altro potesse far cosa
degna d'esser riferita. Venne l'autunno, in cui Agnese e Lucia avevan fatto conto di
ritrovarsi insieme: ma un grande avvenimento pubblico mandò quel conto all'aria: e fu
questo certamente uno de' suoi più piccoli effetti. Seguiron poi altri grandi
avvenimenti, che pero non portarono nessun cambiamento notabile nella sorte de' nostri
personaggi. Finalmente nuovi casi, più generali, più forti, più estremi, arrivarono
anche fino a loro, fino agli infimi di loro, secondo la scala del mondo: come un turbine
vasto, incalzante, vagabondo, scoscendendo e sbarbando alberi, arruffando tetti, scoprendo
campanili, abbattendo muraglie, e sbattendone qua e là i rottami, solleva anche i
fuscelli nascosti tra l'erba, va a cercare negli angoli le foglie passe e leggieri, che un
minor vento vi aveva confinate, e le porta in giro involte nella sua rapina.
Ora, perché i fatti privati che ci
rimangon da raccontare, riescan chiari, dobbiamo assolutamente premettere un racconto alla
meglio di quei pubblici, prendendola anche un po' da lontano.
© 1997 - prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe.Bonghi@fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 15 novembre 2000