Alessandro Manzoni
I Promessi Sposi
Capitolo XXV
Il giorno
seguente, nel paesetto di Lucia e in tutto il territorio di Lecco, non si parlava che di
lei, dell'innominato, dell'arcivescovo e d'un altro tale, che, quantunque gli piacesse
molto d'andar per le bocche degli uomini, n'avrebbe, in quella congiuntura, fatto
volentieri di meno: vogliam dire il signor don Rodrigo.
Non già che prima d'allora non si
parlasse de' fatti suoi; ma eran discorsi rotti, segreti: bisognava che due si
conoscessero bene bene tra di loro, per aprirsi sur un tale argomento. E anche, non ci
mettevano tutto il sentimento di che sarebbero stati capaci: perché gli uomini,
generalmente parlando, quando l'indegnazione non si possa sfogare senza grave pericolo,
non solo dimostran meno, o tengono affatto in sé quella che sentono, ma ne senton meno in
effetto. Ma ora, chi si sarebbe tenuto d'informarsi, e di ragionare d'un fatto così
strepitoso, in cui s'era vista la mano del cielo, e dove facevan buona figura due
personaggi tali? uno, in cui un amore della giustizia tanto animoso andava unito a tanta
autorità; l'altro, con cui pareva che la prepotenza in persona si fosse umiliata, che la
braverìa fosse venuta, per dir così, a render l'armi, e a chiedere il riposo. A tali
paragoni, il signor don Rodrigo diveniva un po' piccino. Allora si capiva da tutti cosa
fosse tormentar l'innocenza per poterla disonorare, perseguitarla con un'insistenza così
sfacciata, con sì atroce violenza, con sì abbominevoli insidie. Si faceva, in
quell'occasione, una rivista di tant'altre prodezze di quel signore: e su tutto la dicevan
come la sentivano, incoraggiti ognuno dal trovarsi d'accordo con tutti. Era un susurro, un
fremito generale; alla larga però, per ragione di tutti que' bravi che colui aveva
d'intorno.
Una buona parte di quest'odio
pubblico cadeva ancora sui suoi amici e cortigiani. Si rosolava bene il signor podestà,
sempre sordo e cieco e muto sui fatti di quel tiranno; ma alla lontana, anche lui,
perché, se non aveva i bravi, aveva i birri. Col dottor Azzecca-garbugli, che non aveva
se non chiacchiere e cabale, e con altri cortigianelli suoi pari, non s'usava tanti
riguardi: eran mostrati a dito, e guardati con occhi torti; di maniera che, per qualche
tempo, stimaron bene di non farsi veder per le strade.
Don Rodrigo, fulminato da quella
notizia così impensata, così diversa dall'avviso che aspettava di giorno in giorno, di
momento in momento, stette rintanato nel suo palazzotto, solo co' suoi bravi, a rodersi,
per due giorni; il terzo, partì per Milano. Se non fosse stato altro che quel
mormoracchiare della gente, forse, poiché le cose erano andate tant'avanti, sarebbe
rimasto apposta per affrontarlo, anzi per cercar l'occasione di dare un esempio a tutti
sopra qualcheduno de' più arditi; ma chi lo cacciò, fu l'essersi saputo per certo, che
il cardinale veniva da quelle parti. Il conte zio, il quale di tutta quella storia non
sapeva se non quel che gli aveva detto Attilio, avrebbe certamente preteso che, in una
congiuntura simile, don Rodrigo facesse una gran figura, e avesse in pubblico dal
cardinale le più distinte accoglienze: ora, ognun vede come ci fosse incamminato.
L'avrebbe preteso, e se ne sarebbe fatto render conto minutamente; perché era
un'occasione importante di far vedere in che stima fosse tenuta la famiglia da una
primaria autorità. Per levarsi da un impiccio così noioso, don Rodrigo, alzatosi una
mattina prima del sole, si mise in una carrozza, col Griso e con altri bravi, di fuori,
davanti e di dietro; e, lasciato l'ordine che il resto della servitù venisse poi in
seguito, partì come un fuggitivo, come (ci sia un po' lecito di sollevare i nostri
personaggi con qualche illustre paragone), come Catilina da Roma, sbuffando, e giurando di
tornar ben presto, in altra comparsa, a far le sue vendette.
Intanto, il cardinale veniva
visitando, a una per giorno, le parrocchie del territorio di Lecco. Il giorno in cui
doveva arrivare a quella di Lucia, già una gran parte degli abitanti erano andati sulla
strada a incontrarlo. All'entrata del paese, proprio accanto alla casetta delle nostre due
donne, c'era un arco trionfale, costrutto di stili per il ritto, e di pali per il
traverso, rivestito di paglia e di borraccina, e ornato di rami verdi di pugnitopo e
d'agrifoglio, distinti di bacche scarlatte; la facciata della chiesa era parata di
tappezzerie; al davanzale d'ogni finestra pendevano coperte e lenzoli distesi, fasce di
bambini disposte a guisa di pendoni; tutto quel poco necessario che fosse atto a fare, o
bene o male, figura di superfluo. Verso le ventidue, ch'era l'ora in cui s'aspettava il
cardinale, quelli ch'eran rimasti in casa, vecchi, donne e fanciulli la più parte,
s'avviarono anche loro a incontrarlo, parte in fila, parte in truppa, preceduti da don
Abbondio, uggioso in mezzo a tanta festa, e per il fracasso che lo sbalordiva, e per il
brulicar della gente innanzi e indietro, che, come andava ripetendo, gli faceva girar la
testa, e per il rodìo segreto che le donne avesser potuto cicalare, e dovesse toccargli a
render conto del matrimonio.
Quand'ecco si vede spuntare il
cardinale, o per dir meglio, la turba in mezzo a cui si trovava nella sua lettiga, col suo
seguito d'intorno; perché di tutto questo non si vedeva altro che un indizio in aria, al
di sopra di tutte le teste, un pezzo della croce portata dal cappellano che cavalcava una
mula. La gente che andava con don Abbondio, s'affrettò alla rinfusa, a raggiunger
quell'altra: e lui, dopo aver detto, tre e quattro volte: - adagio; in fila; cosa fate? -
si voltò indispettito; e seguitando a borbottare: - è una babilonia, è una babilonia, -
entrò in chiesa, intanto ch'era vota; e stette lì ad aspettare.
Il cardinale veniva avanti, dando
benedizioni con la mano, e ricevendone dalle bocche della gente, che quelli del seguito
avevano un bel da fare a tenere un po' indietro. Per esser del paese di Lucia, avrebbe
voluto quella gente fare all'arcivescovo dimostrazioni straordinarie; ma la cosa non era
facile, perché era uso che, per tutto dove arrivava, tutti facevano più che potevano.
Già sul principio stesso del suo pontificato, nel primo solenne ingresso in duomo, la
calca e l'impeto della gente addosso a lui era stato tale, da far temere della sua vita; e
alcuni gentiluomini che gli eran più vicini, avevano sfoderate le spade, per atterrire e
respinger la folla. Tanto c'era in que' costumi di scomposto e di violento, che, anche nel
far dimostrazioni di benevolenza a un vescovo in chiesa, e nel moderarle, si dovesse andar
vicino all'ammazzare. E quella difesa non sarebbe forse bastata, se il maestro e il
sottomaestro delle cerimonie, un Clerici e un Picozzi, giovani preti che stavan bene di
corpo e d'animo, non l'avessero alzato sulle braccia, e portato di peso, dalla porta fino
all'altar maggiore. D'allora in poi, in tante visite episcopali ch'ebbe a fare, il primo
entrar nella chiesa si può senza scherzo contarlo tra le sue pastorali fatiche, e qualche
volta, tra i pericoli passati da lui.
Entrò anche in questa come poté;
andò all'altare e, dopo essere stato alquanto in orazione, fece, secondo il suo solito,
un piccol discorso al popolo, sul suo amore per loro, sul suo desiderio della loro
salvezza, e come dovessero disporsi alle funzioni del giorno dopo. Ritiratosi poi nella
casa del parroco, tra gli altri discorsi, gli domandò informazione di Renzo. Don Abbondio
disse ch'era un giovine un po' vivo, un po' testardo, un po' collerico. Ma, a più
particolari e precise domande, dovette rispondere ch'era un galantuomo, e che anche lui
non sapeva capire come, in Milano, avesse potuto fare tutte quelle diavolerie che avevan
detto.
- In quanto alla giovine, - riprese
il cardinale, - pare anche a voi che possa ora venir sicuramente a dimorare in casa sua?
- Per ora, - rispose don Abbondio, -
può venire e stare, come vuole: dico, per ora; ma, - soggiunse poi con un sospiro, -
bisognerebbe che vossignoria illustrissima fosse sempre qui, o almeno vicino.
- Il Signore è sempre vicino, -
disse il cardinale: - del resto, penserò io a metterla al sicuro -. E diede subito ordine
che, il giorno dopo, si spedisse di buon'ora la lettiga, con una scorta, a prender le due
donne.
Don Abbondio uscì di lì tutto
contento che il cardinale gli avesse parlato de' due giovani, senza chiedergli conto del
suo rifiuto di maritarli. «Dunque non sa niente, - diceva tra sé: - Agnese è stata
zitta: miracolo! È vero che s'hanno a tornare a vedere; ma le daremo un'altra istruzione,
le daremo». E non sapeva, il pover'uomo, che Federigo non era entrato in quell'argomento,
appunto perché intendeva di parlargliene a lungo, in tempo più libero; e, prima di
dargli ciò che gli era dovuto, voleva sentire anche le sue ragioni.
Ma i pensieri del buon prelato per
metter Lucia al sicuro eran divenuti inutili: dopo che l'aveva lasciata, eran nate delle
cose, che dobbiamo raccontare.
Le due donne, in que' pochi giorni
ch'ebbero a passare nella casuccia ospitale del sarto, avevan ripreso, per quanto avevan
potuto, ognuna il suo antico tenor di vita. Lucia aveva subito chiesto da lavorare; e,
come aveva fatto nel monastero, cuciva, cuciva, ritirata in una stanzina, lontano dagli
occhi della gente. Agnese andava un po' fuori, un po' lavorava in compagnia della figlia.
I loro discorsi eran tanto più tristi, quanto più affettuosi: tutt'e due eran preparate
a una separazione; giacché la pecora non poteva tornare a star così vicino alla tana del
lupo: e quando, quale, sarebbe il termine di questa separazione? L'avvenire era oscuro,
imbrogliato: per una di loro principalmente. Agnese tanto ci andava facendo dentro le sue
congetture allegre: che Renzo finalmente, se non gli era accaduto nulla di sinistro,
dovrebbe presto dar le sue nuove; e se aveva trovato da lavorare e da stabilirsi, se (e
come dubitarne?) stava fermo nelle sue promesse, perché non si potrebbe andare a star con
lui? E di tali speranze, ne parlava e ne riparlava alla figlia, per la quale non saprei
dire se fosse maggior dolore il sentire, o pena il rispondere. Il suo gran segreto l'aveva
sempre tenuto in sé; e, inquietata bensì dal dispiacere di fare a una madre così buona
un sotterfugio, che non era il primo; ma trattenuta, come invincibilmente, dalla vergogna
e da' vari timori che abbiam detto di sopra, andava d'oggi in domani, senza dir nulla. I
suoi disegni eran ben diversi da quelli della madre, o, per dir meglio, non n'aveva; s'era
abbandonata alla Provvidenza. Cercava dunque di lasciar cadere, o di stornare quel
discorso; o diceva, in termini generali, di non aver più speranza, né desiderio di cosa
di questo mondo, fuorché di poter presto riunirsi con sua madre; le più volte, il pianto
veniva opportunamente a troncar le parole.
- Sai perché ti par così? - diceva
Agnese: - perché hai tanto patito, e non ti par vero che la possa voltarsi in bene. Ma
lascia fare al Signore; e se... Lascia che si veda un barlume, appena un barlume di
speranza; e allora mi saprai dire se non pensi più a nulla -. Lucia baciava la madre, e
piangeva.
Del resto, tra loro e i loro ospiti
era nata subito una grand'amicizia: e dove nascerebbe, se non tra beneficati e
benefattori, quando gli uni e gli altri son buona gente? Agnese specialmente faceva di
gran chiacchiere con la padrona. Il sarto poi dava loro un po' di svago con delle storie,
e con de' discorsi morali: e, a desinare soprattutto, aveva sempre qualche bella cosa da
raccontare, di Bovo d'Antona o de' Padri del deserto.
Poco distante da quel paesetto,
villeggiava una coppia d'alto affare; don Ferrante e donna Prassede: il casato, al solito,
nella penna dell'anonimo. Era donna Prassede una vecchia gentildonna molto inclinata a far
del bene: mestiere certamente il più degno che l'uomo possa esercitare; ma che pur troppo
può anche guastare, come tutti gli altri. Per fare il bene, bisogna conoscerlo; e, al
pari d'ogni altra cosa, non possiamo conoscerlo che in mezzo alle nostre passioni, per
mezzo de' nostri giudizi, con le nostre idee; le quali bene spesso stanno come possono.
Con l'idee donna Prassede si regolava come dicono che si deve far con gli amici: n'aveva
poche; ma a quelle poche era molto affezionata. Tra le poche, ce n'era per disgrazia molte
delle storte; e non eran quelle che le fossero men care. Le accadeva quindi, o di proporsi
per bene ciò che non lo fosse, o di prender per mezzi, cose che potessero piùttosto far
riuscire dalla parte opposta, o di crederne leciti di quelli che non lo fossero punto, per
una certa supposizione in confuso, che chi fa più del suo dovere possa far più di quel
che avrebbe diritto; le accadeva di non vedere nel fatto ciò che c'era di reale, o di
vederci ciò che non c'era; e molte altre cose simili, che possono accadere, e che
accadono a tutti, senza eccettuarne i migliori; ma a donna Prassede, troppo spesso e, non
di rado, tutte in una volta.
Al sentire il gran caso di Lucia, e
tutto ciò che, in quell'occasione, si diceva della giovine, le venne la curiosità di
vederla; e mandò una carrozza, con un vecchio bracciere, a prender la madre e la figlia.
Questa si ristringeva nelle spalle, e pregava il sarto, il quale aveva fatta loro
l'imbasciata, che trovasse maniera di scusarla. Finché s'era trattato di gente alla buona
che cercava di conoscer la giovine del miracolo, il sarto le aveva reso volentieri un tal
servizio; ma in questo caso, il rifiuto gli pareva una specie di ribellione. Fece tanti
versi, tant'esclamazioni, disse tante cose: e che non si faceva così, e ch'era una casa
grande, e che ai signori non si dice di no, e che poteva esser la loro fortuna, e che la
signora donna Prassede, oltre il resto, era anche una santa; tante cose insomma, che Lucia
si dovette arrendere: molto più che Agnese confermava tutte quelle ragioni con
altrettanti - sicuro, sicuro.
Arrivate davanti alla signora, essa
fece loro grand'accoglienza, e molte congratulazioni; interrogò, consigliò: il tutto con
una certa superiorità quasi innata, ma corretta da tante espressioni umili, temperata da
tanta premura, condita di tanta spiritualità, che, Agnese quasi subito, Lucia poco dopo,
cominciarono a sentirsi sollevate dal rispetto opprimente che da principio aveva loro
incusso quella signorile presenza; anzi ci trovarono una certa attrattiva. E per venire
alle corte, donna Prassede, sentendo che il cardinale s'era incaricato di trovare a Lucia
un ricovero, punta dal desiderio di secondare e di prevenire a un tratto quella buona
intenzione, s'esibì di prender la giovine in casa, dove, senz'essere addetta ad alcun
servizio particolare, potrebbe, a piacer suo, aiutar l'altre donne ne' loro lavori. E
soggiunse che penserebbe lei a darne parte a monsignore.
Oltre il bene chiaro e immediato che
c'era in un'opera tale, donna Prassede ce ne vedeva, e se ne proponeva un altro, forse
più considerabile, secondo lei; di raddirizzare un cervello, di metter sulla buona strada
chi n'aveva gran bisogno. Perché, fin da quando aveva sentito la prima volta parlar di
Lucia, s'era subito persuasa che una giovine la quale aveva potuto promettersi a un poco
di buono, a un sedizioso, a uno scampaforca in somma, qualche magagna, qualche pecca
nascosta la doveva avere. Dimmi chi pratichi, e ti dirò chi sei. La vista di Lucia aveva
confermata quella persuasione. Non che, in fondo, come si dice, non le paresse una buona
giovine; ma c'era molto da ridire. Quella testina bassa, col mento inchiodato sulla
fontanella della gola, quel non rispondere, o risponder secco secco, come per forza,
potevano indicar verecondia; ma denotavano sicuramente molta caparbietà: non ci voleva
molto a indovinare che quella testina aveva le sue idee. E quell'arrossire ogni momento, e
quel rattenere i sospiri... Due occhioni poi, che a donna Prassede non piacevan punto.
Teneva essa per certo, come se lo sapesse di buon luogo, che tutte le sciagure di Lucia
erano una punizione del cielo per la sua amicizia con quel poco di buono, e un avviso per
far che se ne staccasse affatto; e stante questo, si proponeva di cooperare a un così
buon fine. Giacché, come diceva spesso agli altri e a se stessa, tutto il suo studio era
di secondare i voleri del cielo: ma faceva spesso uno sbaglio grosso, ch'era di prender
per cielo il suo cervello. Però, della seconda intenzione che abbiam detto, si guardò
bene di darne il minimo indizio. Era una delle sue massime questa, che, per riuscire a far
del bene alla gente, la prima cosa, nella maggior parte de' casi, è di non metterli a
parte del disegno.
La madre e la figlia si guardarono
in viso. Nella dolorosa necessità di dividersi, l'esibizione parve a tutt'e due da
accettarsi, se non altro per esser quella villa così vicina al loro paesetto: per cui,
alla peggio de' peggi, si ravvicinerebbero e potrebbero trovarsi insieme, alla prossima
villeggiatura. Visto, l'una negli occhi dell'altra, il consenso, si voltaron tutt'e due a
donna Prassede con quel ringraziare che accetta. Essa rinnovò le gentilezze e le
promesse, e disse che manderebbe subito una lettera da presentare a monsignore.
Partite le donne, la lettera se la
fece distendere da don Ferrante, di cui, per esser letterato, come diremo più in
particolare, si serviva per segretario, nell'occasioni d'importanza. Trattandosi d'una di
questa sorte, don Ferrante ci mise tutto il suo sapere, e, consegnando la minuta da
copiare alla consorte, le raccomandò caldamente l'ortografia; ch'era una delle molte cose
che aveva studiate, e delle poche sulle quali avesse lui il comando in casa. Donna
Prassede copiò diligentissimamente, e spedì la lettera alla casa del sarto. Questo fu
due o tre giorni prima che il cardinale mandasse la lettiga per ricondur le donne al loro
paese.
Arrivate, smontarono alla casa
parrocchiale, dove si trovava il cardinale. C'era ordine d'introdurle subito: il
cappellano, che fu il primo a vederle, l'eseguì, trattenendole solo quant'era necessario
per dar loro, in fretta in fretta, un po' d'istruzione sul cerimoniale da usarsi con
monsignore, e sui titoli da dargli; cosa che soleva fare, ogni volta che lo potesse di
nascosto a lui. Era per il pover'uomo un tormento continuo il vedere il poco ordine che
regnava intorno al cardinale, su quel particolare: - tutto, - diceva con gli altri della
famiglia, - per la troppa bontà di quel benedett'uomo; per quella gran famigliarità -. E
raccontava d'aver perfino sentito più d'una volta co' suoi orecchi, rispondergli: messer
sì, e messer no.
Stava in quel momento il cardinale
discorrendo con don Abbondio, sugli affari della parrocchia: dimodoché questo non ebbe
campo di dare anche lui, come avrebbe desiderato, le sue istruzioni alle donne. Solo, nel
passar loro accanto, mentre usciva, e quelle venivano avanti, poté dar loro d'occhio, per
accennare ch'era contento di loro, e che continuassero, da brave, a non dir nulla.
Dopo le prime accoglienze da una
parte, e i primi inchini dall'altra, Agnese si cavò di seno la lettera, e la presentò al
cardinale, dicendo: - è della signora donna Prassede, la quale dice che conosce molto
vossignoria illustrissima, monsignore; come naturalmente, tra loro signori grandi, si
devon conoscer tutti. Quand'avrà letto, vedrà.
- Bene, - disse Federigo, letto che
ebbe, e ricavato il sugo del senso da' fiori di don Ferrante. Conosceva quella casa quanto
bastasse per esser certo che Lucia c'era invitata con buona intenzione, e che lì sarebbe
sicura dall'insidie e dalla violenza del suo persecutore. Che concetto avesse della testa
di donna Prassede, non n'abbiam notizia positiva. Probabilmente, non era quella la persona
che avrebbe scelta a un tal intento; ma, come abbiam detto o fatto intendere altrove, non
era suo costume di disfar le cose che non toccavano a lui, per rifarle meglio.
- Prendete in pace anche questa
separazione, e l'incertezza in cui vi trovate, - soggiunse poi: - confidate che sia per
finir presto, e che il Signore voglia guidar le cose a quel termine a cui pare che le
avesse indirizzate; ma tenete per certo che quello che vorrà Lui, sarà il meglio per voi
-. Diede a Lucia in particolare qualche altro ricordo amorevole; qualche altro conforto a
tutt'e due; le benedisse, e le lasciò andare. Appena fuori, si trovarono addosso uno
sciame d'amici e d'amiche, tutto il comune, si può dire, che le aspettava, e le condusse
a casa, come in trionfo. Era tra tutte quelle donne una gara di congratularsi, di
compiangere, di domandare; e tutte esclamavano dal dispiacere, sentendo che Lucia se
n'anderebbe il giorno dopo. Gli uomini gareggiavano nell'offrir servizi; ognuno voleva
star quella notte a far la guardia alla casetta. Sul qual fatto, il nostro anonimo credé
bene di formare un proverbio: volete aver molti in aiuto? cercate di non averne bisogno.
Tante accoglienze confondevano e
sbalordivano Lucia: Agnese non s'imbrogliava così per poco. Ma in sostanza fecero bene
anche a Lucia, distraendola alquanto da' pensieri e dalle rimembranze che, pur troppo,
anche in mezzo al frastono, le si risvegliavano, su quell'uscio, in quelle stanzucce, alla
vista d'ogni oggetto.
Al tocco della campana che
annunziava vicino il cominciar delle funzioni, tutti si mossero verso la chiesa, e fu per
le nostre donne un'altra passeggiata trionfale.
Terminate le funzioni, don Abbondio,
ch'era corso a vedere se Perpetua aveva ben disposto ogni cosa per il desinare, fu
chiamato dal cardinale. Andò subito dal grand'ospite, il quale, lasciatolo venir vicino,
- signor curato, - cominciò; e quelle parole furon dette in maniera, da dover capire,
ch'erano il principio d'un discorso lungo e serio: - signor curato; perché non avete voi
unita in matrimonio quella povera Lucia col suo promesso sposo?
«Hanno votato il sacco stamattina
coloro», pensò don Abbondio; e rispose borbottando: - monsignore illustrissimo avrà ben
sentito parlare degli scompigli che son nati in quell'affare: è stata una confusione
tale, da non poter, neppure al giorno d'oggi, vederci chiaro: come anche vossignoria
illustrissima può argomentare da questo, che la giovine è qui, dopo tanti accidenti,
come per miracolo; e il giovine, dopo altri accidenti, non si sa dove sia.
- Domando, - riprese il cardinale, -
se è vero che, prima di tutti codesti casi, abbiate rifiutato di celebrare il matrimonio,
quando n'eravate richiesto, nel giorno fissato; e il perché.
- Veramente... se vossignoria
illustrissima sapesse... che intimazioni... che comandi terribili ho avuti di non
parlare... - E restò lì senza concludere, in un cert'atto, da far rispettosamente
intendere che sarebbe indiscrezione il voler saperne di più.
- Ma! - disse il cardinale, con voce
e con aria grave fuor del consueto: - è il vostro vescovo che, per suo dovere e per
vostra giustificazione, vuol saper da voi il perché non abbiate fatto ciò che, nella via
regolare, era obbligo vostro di fare.
- Monsignore, - disse don Abbondio,
facendosi piccino piccino, - non ho già voluto dire... Ma m'è parso che, essendo cose
intralciate, cose vecchie e senza rimedio, fosse inutile di rimestare... Però, per,
dico... so che vossignoria illustrissima non vuol tradire un suo povero parroco. Perché
vede bene, monsignore; vossignoria illustrissima non può esser per tutto; e io resto qui
esposto... Però, quando Lei me lo comanda, dirò, dirò tutto.
- Dite: io non vorrei altro che
trovarvi senza colpa.
Allora don Abbondio si mise a
raccontare la dolorosa storia; ma tacque il nome principale, e vi sostituì: un gran
signore; dando così alla prudenza tutto quel poco che si poteva, in una tale stretta.
- E non avete avuto altro motivo? -
domandò il cardinale, quando don Abbondio ebbe finito.
- Ma forse non mi sono spiegato
abbastanza, - rispose questo: - sotto pena della vita, m'hanno intimato di non far quel
matrimonio.
- E vi par codesta una ragion
bastante, per lasciar d'adempire un dovere preciso?
- Io ho sempre cercato di farlo, il
mio dovere, anche con mio grave incomodo, ma quando si tratta della vita...
- E quando vi siete presentato alla
Chiesa, - disse, con accento ancor più grave, Federigo, - per addossarvi codesto
ministero, v'ha essa fatto sicurtà della vita? V'ha detto che i doveri annessi al
ministero fossero liberi da ogni ostacolo, immuni da ogni pericolo? O v'ha detto forse che
dove cominciasse il pericolo, ivi cesserebbe il dovere? O non v'ha espressamente detto il
contrario? Non v'ha avvertito che vi mandava come un agnello tra i lupi? Non sapevate voi
che c'eran de' violenti, a cui potrebbe dispiacere ciò che a voi sarebbe comandato?
Quello da Cui abbiam la dottrina e l'esempio, ad imitazione di Cui ci lasciam nominare e
ci nominiamo pastori, venendo in terra a esercitarne l'ufizio, mise forse per condizione
d'aver salva la vita? E per salvarla, per conservarla, dico, qualche giorno di più sulla
terra, a spese della carità e del dovere, c'era bisogno dell'unzione santa,
dell'imposizion delle mani, della grazia del sacerdozio? Basta il mondo a dar questa
virtù, a insegnar questa dottrina. Che dico? oh vergogna! il mondo stesso la rifiuta: il
mondo fa anch'esso le sue leggi, che prescrivono il male come il bene; ha il suo vangelo
anch'esso, un vangelo di superbia e d'odio; e non vuol che si dica che l'amore della vita
sia una ragione per trasgredirne i comandamenti. Non lo vuole; ed è ubbidito. E noi! noi
figli e annunziatori della promessa! Che sarebbe la Chiesa, se codesto vostro linguaggio
fosse quello di tutti i vostri confratelli? Dove sarebbe, se fosse comparsa nel mondo con
codeste dottrine?
Don Abbondio stava a capo basso: il
suo spirito si trovava tra quegli argomenti, come un pulcino negli artigli del falco, che
lo tengono sollevato in una regione sconosciuta, in un'aria che non ha mai respirata.
Vedendo che qualcosa bisognava rispondere, disse, con una certa sommissione forzata: -
monsignore illustrissimo, avrò torto. Quando la vita non si deve contare, non so cosa mi
dire. Ma quando s'ha che fare con certa gente, con gente che ha la forza, e che non vuol
sentir ragioni, anche a voler fare il bravo, non saprei cosa ci si potesse guadagnare. È
un signore quello, con cui non si può né vincerla né impattarla.
- E non sapete voi che il soffrire
per la giustizia è il nostro vincere? E se non sapete questo, che cosa predicate? di che
siete maestro? qual è la buona nuova che annunziate a' poveri? Chi pretende da voi
che vinciate la forza con la forza? Certo non vi sarà domandato, un giorno, se abbiate
saputo fare stare a dovere i potenti; che a questo non vi fu dato né missione, né modo.
Ma vi sarà ben domandato se avrete adoprati i mezzi ch'erano in vostra mano per far ciò
che v'era prescritto, anche quando avessero la temerità di proibirvelo.
«Anche questi santi son curiosi, -
pensava intanto don Abbondio: - in sostanza, a spremerne il sugo, gli stanno più a cuore
gli amori di due giovani, che la vita d'un povero sacerdote». E, in quant'a lui, si
sarebbe volentieri contentato che il discorso finisse lì; ma vedeva il cardinale, a ogni
pausa, restare in atto di chi aspetti una risposta: una confessione, o un'apologia,
qualcosa in somma.
- Torno a dire, monsignore, -
rispose dunque, - che avrò torto io... Il coraggio, uno non se lo può dare.
- E perché dunque, potrei dirvi, vi
siete voi impegnato in un ministero che v'impone di stare in guerra con le passioni del
secolo? Ma come, vi dirò piùttosto, come non pensate che, se in codesto ministero,
comunque vi ci siate messo, v'è necessario il coraggio, per adempir le vostre
obbligazioni, c'è Chi ve lo darà infallibilmente, quando glielo chiediate? Credete voi
che tutti que' milioni di martiri avessero naturalmente coraggio? che non facessero
naturalmente nessun conto della vita? tanti giovinetti che cominciavano a gustarla, tanti
vecchi avvezzi a rammaricarsi che fosse già vicina a finire, tante donzelle, tante spose,
tante madri? Tutti hanno avuto coraggio; perché il coraggio era necessario, ed essi
confidavano. Conoscendo la vostra debolezza e i vostri doveri, avete voi pensato a
prepararvi ai passi difficili a cui potevate trovarvi, a cui vi siete trovato in effetto?
Ah! se per tant'anni d'ufizio pastorale, avete (e come non avreste?) amato il vostro
gregge, se avete riposto in esso il vostro cuore, le vostre cure, le vostre delizie, il
coraggio non doveva mancarvi al bisogno: l'amore è intrepido. Ebbene, se voi gli amavate,
quelli che sono affidati alle vostre cure spirituali, quelli che voi chiamate figliuoli;
quando vedeste due di loro minacciati insieme con voi, ah certo! come la debolezza della
carne v'ha fatto tremar per voi, così la carità v'avrà fatto tremar per loro. Vi sarete
umiliato di quel primo timore, perché era un effetto della vostra miseria; avrete
implorato la forza per vincerlo, per discacciarlo, perché era una tentazione: ma il timor
santo e nobile per gli altri, per i vostri figliuoli, quello l'avrete ascoltato, quello
non v'avrà dato pace, quello v'avrà eccitato, costretto, a pensare, a fare ciò che si
potesse, per riparare al pericolo che lor sovrastava... Cosa v'ha ispirato il timore,
l'amore? Cosa avete fatto per loro? Cosa avete pensato?
E tacque in atto di chi aspetta.
© 1997 - prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe.Bonghi@fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 15 novembre 2000