Niccolò Machiavelli
Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio
Capitolo 31
Le republiche forti e gli uomini eccellenti ritengono in
ogni fortuna il medesimo animo e la loro medesima dignità.
Intra l'altre
magnifiche cose che 'l nostro istorico fa dire e fare a Cammillo, per mostrare come debbe
essere fatto un uomo eccellente, gli mette in bocca queste parole: "Nec mihi
dictatura animos fecit, nec exilium ademit". Per le quali si vede, come gli uomini
grandi sono sempre in ogni fortuna quelli medesimi; e se la varia, ora con esaltarli, ora
con opprimerli, quegli non variano, ma tengono sempre lo animo fermo, ed in tale modo
congiunto con il modo del vivere loro, che facilmente si conosce per ciascuno, la fortuna
non avere potenza sopra di loro. Altrimenti si governano gli uomini deboli perché
invaniscono ed inebriano nella buona fortuna, attribuendo tutto il bene che gli hanno a
quella virtù che non conobbono mai. D'onde nasce che diventano insopportabili ed odiosi a
tutti coloro che gli hanno intorno. Da che poi depende la subita variazione della sorte;
la quale come veggono in viso, caggiono subito nell'altro difetto, e diventano vili ed
abietti. Di qui nasce che i principi così fatti pensano nelle avversità più a fuggirsi
che a difendersi, come quelli che, per avere male usata la buona fortuna, sono ad ogni
difesa impreparati. Questa virtù, e questo vizio, che io dico trovarsi in un uomo solo,
si truova ancora in una republica, ed in esemplo ci sono i Romani ed i Viniziani. Quelli
primi, nessuna cattiva sorte gli fece mai diventare abietti né nessuna buona fortuna gli
fece mai essere insolenti; come si vide manifestamente dopo la rotta ch'egli ebbero a
Canne, e dopo la vittoria ch'egli ebbero contro a Antioco; perché, per quella rotta,
ancora che gravissima per essere stata la terza, non invilirono mai; e mandarono fuori
eserciti; non vollono riscattare i loro prigioni contro agli ordini loro; non mandarono ad
Annibale o a Cartagine a chiedere pace: ma, lasciate stare tutte queste cose abiette
indietro, pensarono sempre alla guerra armando, per carestia di uomini, i vecchi ed i
servi loro. La quale cosa conosciuta da Annone cartaginese, come di sopra si disse,
mostrò a quel Senato quanto poco conto si aveva a tenere della rotta di Canne. E così si
vide come i tempi difficili non gli sbigottivono, né gli rendevono umili. Dall'altra
parte, i tempi prosperi non gli facevano insolenti: perché, mandando Antioco oratori a
Scipione, a chiedere accordo, avanti che fussono venuti alla giornata, e ch'egli avesse
perduto Scipione gli dette certe condizioni della pace; quali erano, che si ritirasse
dentro alla Soria, ed il resto lasciasse nello arbitrio del Popolo romano. Il quale
accordo recusando Antioco, e venendo alla giornata, e perdendola, rimandò imbasciadori a
Scipione, con commissione che pigliassero tutte quelle condizioni erano date loro dal
vincitore: alli quali non propose altri patti che quegli si avesse offerti innanzi che
vincesse; soggiugnendo queste parole: "Quod Romani, si vincuntur, non minuuntur
animis; nec, si vincunt, insolescere solent".
Al contrario appunto di questo si è
veduto fare ai Viniziani: i quali nella buona fortuna, parendo loro aversela guadagnata
con quella virtù che non avevano, erano venuti a tanta insolenza che chiamavano il re di
Francia figliuolo di San Marco; non stimavano la Chiesa; non capivano in modo alcuno in
Italia; ed eronsi presupposti nello animo di avere a fare una monarchia simile alla
romana. Dipoi, come la buona sorte gli abbandonò e ch'egli ebbono una mezza rotta a
Vailà, dal re di Francia, perderono non solamente tutto lo stato loro per ribellione, ma
buona parte ne dettero al papa ed al re di Spagna per viltà ed abiezione d'animo; ed in
tanto invilirono, che mandarono imbasciadori allo imperadore a farsi tributari, scrissono
al papa lettere piene di viltà e di sommissione per muoverlo a compassione. Alla quale
infelicità pervennono in quattro giorni, e dopo una mezza rotta: perché, avendo
combattuto il loro esercito, nel ritirarsi venne a combattere ed essere oppresso circa la
metà, in modo che, l'uno de' Provveditori, che si salvò, arrivò a Verona con più di
venticinquemila soldati, intr'a piè ed a cavallo. Talmenteché, se a Vinegia e negli
ordini loro fosse stata alcuna qualità di virtù, facilmente si potevano rifare, e
rimostrare di nuovo il viso alla fortuna, ed essere a tempo o a vincere o a perdere più
gloriosamente, o ad avere accordo più onorevole. Ma la viltà dello animo loro, causata
dalla qualità de' loro ordini non buoni nelle cose della guerra, gli fece ad un tratto
perdere lo stato e l'animo. E sempre interverrà così a qualunque si governa come loro.
Perché questo diventare insolente nella buona fortuna ed abietto nella cattiva, nasce dal
modo del procedere tuo, e dalla educazione nella quale ti se' nutrito: la quale, quando è
debole e vana, ti rende simile a sé; quando è stata altrimenti, ti rende anche
d'un'altra sorte; e, faccendoti migliore conoscitore del mondo, ti fa meno rallegrare del
bene, e meno rattristare del male. E quello che si dice d'uno solo, si dice di molti che
vivono in una republica medesima; i quali si fanno di quella perfezione, che ha il modo
del vivere di quella.
E benché altra volta si sia detto come
il fondamento di tutti gli stati è la buona milizia; e come, dove non è questa, non
possono essere né leggi buone né alcuna altra cosa buona, non mi pare superfluo
riplicarlo: perché ad ogni punto nel leggere questa istoria si vede apparire questa
necessità; e si vede come la milizia non puoté essere buona, se la non è esercitata; e
come la non si può esercitare, se la non è composta di tuoi sudditi. Perché sempre non
si sta in guerra, né si può starvi. Però conviene poterla esercitare a tempo di pace; e
con altri che con sudditi non si può fare questo esercizio, rispetto alla spesa. Era
Cammillo andato, come di sopra dicemo, con lo esercito contro ai Toscani; ed avendo i suoi
soldati veduto la grandezza dello esercito de' nimici, si erano tutti sbigottiti, parendo
loro essere tanto inferiori da non potere sostenere l'impeto di quegli. E pervenendo
questa mala disposizione del campo agli orecchi di Cammillo, si mostrò fuora, ed andando
parlando per il campo a questi e quelli soldati, trasse loro del capo questa opinione; e
nello ultimo, sanza ordinare altrimenti il campo, disse: "Quod quisque didicit, aut
consuevit, faciet". E chi considera bene questo termine, e le parole disse loro, per
inanimirli ad ire contro a' nimici, considerasi come e' non si poteva né dire né fare
fare alcuna di quelle cose a uno esercito che prima non fosse stato ordinato ed esercitato
ed in pace ed in guerra. Perché di quegli soldati che non hanno imparato a fare cosa
alcuna, non può uno capitano fidarsi, e credere che faccino alcuna cosa che stia bene; e
se gli comandasse uno nuovo Annibale, vi rovinerebbe sotto. Perché, non potendo uno
capitano essere, mentre si fa la giornata, in ogni parte; se non ha prima in ogni parte
ordinato di potere avere uomini che abbino lo spirito suo e bene gli ordini e modi del
procedere suo, conviene di necessità che ci rovini. Se, adunque, una città sarà armata
ed ordinata come Roma; e che ogni dì ai suoi cittadini, ed in particulare ed in publico,
tocchi a fare isperienza e della virtù loro, e della potenza della fortuna; interverrà
sempre che in ogni condizione di tempo ei fiano del medesimo animo, e manterranno la
medesima loro degnità: ma quando e' fiano disarmati, e che si appoggeranno solo
agl'impeti della fortuna e non alla propria virtù, varieranno col variare di quella, e
daranno sempre, di loro, esemplo tale che hanno dato i Viniziani.
Capitolo 32
Quali modi hanno tenuti alcuni a turbare una pace.
Essendosi ribellate dal Popolo romano Circei e Velitre, due sue colonie, sotto speranza di essere difese dai Latini, ed essendo di poi i Latini, vinti, e mancando di quella speranza, consigliavano assai cittadini che si dovesse mandare a Roma oratori a raccomandarsi al Senato: il quale partito fu turbato da coloro che erano stati autori della ribellione; i quali temevano che tutta la pena non si voltasse sopra le teste loro. E per tôrre via ogni ragionamento di pace, incitarono la moltitudine ad amarsi, ed a correre sopra i confini romani. E veramente, quando alcuno vuole o che uno popolo o uno principe lievi al tutto l'animo da uno accordo, non ci è altro rimedio più vero né più stabile, che farli usare qualche grave sceleratezza contro a colui con il quale tu non vuoi che l'accordo si faccia: perché sempre lo terrà discosto quella paura di quella pena che a lui parrà per lo errore commesso avere meritata. Dopo la prima guerra che i Cartaginesi ebbono con i Romani, quelli soldati che dai Cartaginesi erano stati adoperati in quella guerra in Sicilia ed in Sardigna, fatta che fu la pace, se ne andarono in Affrica; dove non essendo sodisfatti del loro stipendio, mossono l'armi contro ai Cartaginesi; e fatti, di loro, due capi, Mato e Spendio, occuparono molte terre ai Cartaginesi, e molte ne saccheggiarono. I Cartaginesi, per tentare prima ogni altra via che la zuffa, mandarono, a quelli, ambasciadore Asdrubale loro cittadino, il quale pensavano avesse alcuna autorità con quelli, essendo stato per lo adietro loro capitano. Ed arrivato costui, e volendo Spendio e Mato obligare tutti quelli soldati a non sperare di avere mai più pace con i Cartaginesi e per questo obligarli alla guerra; persuasono loro, ch'egli era meglio ammazzare costui, con tutti i cittadini cartaginesi, quali erano appresso loro prigioni. Donde, non solamente gli ammazzarono, ma con mille supplicii in prima gli straziorono; aggiugnendo a questa sceleratezza uno editto che tutti i Cartaginesi, che per lo avvenire si pigliassono, si dovessono in simile modo uccidere. La quale diliberazione ed esecuzione fece quello esercito crudele ed ostinato contro ai Cartaginesi.
Capitolo 33
Egli è necessario, a volere vincere una giornata,
fare lo esercito confidente ed infra loro e con il capitano.
A volere che uno
esercito vinca la giornata, è necessario farlo confidente, in modo che creda dovere in
ogni modo vincere. Le cose che lo fanno confidente sono: che sia armato ed ordinato bene;
conoschinsi l'uno l'altro. Né può nascere questa confidenza o questo ordine, se non in
quelli soldati che sono nati e vissuti insieme. Conviene che il capitano sia stimato di
qualità che confidino nella prudenza sua: e sempre confideranno, quando lo vegghino
ordinato, sollecito ed animoso, e che tenga bene e con riputazione la maestà del grado
suo: e sempre la manterrà, quando gli punisca degli errori, e non gli affatichi invano;
osservi loro le promesse; mostri facile la via del vincere; quelle cose che discosto
potessino mostrare i pericoli, le nasconda o le alleggerisca. Le quali cose, osservate
bene, sono cagione grande che lo esercito confida, e confidando vince. Usavano i Romani di
fare pigliare agli eserciti loro questa confidenza per via di religione: donde nasceva,
che con gli augurii ed auspicii creavano i Consoli, facevano il deletto, partivano con gli
eserciti, e venivano alla giornata. E sanza avere fatto alcuna di queste cose, non mai
arebbe uno buono capitano e savio tentata alcuna fazione, giudicando di averla potuta
perdere facilmente, s'e' suoi soldati non avessoro prima intesi gli Dii essere da parte
loro. E quando alcuno Consolo, o altro loro capitano, avesse combattuto, contro agli
auspicii, lo arebbero punito; come ei punirono Claudio Pulcro. E benché questa parte in
tutte le istorie romane si conosca, nondimeno si pruova più certo per le parole che Livio
usa nella bocca di Appio Claudio; il quale, dolendosi col popolo della insolenzia de'
Tribuni della plebe, e mostrando che, mediante quelli, gli auspicii e le altre cose
pertinenti alla religione si corrompevano, dice così: "Eludant nunc licet
religiones. Quid enim interest, si pulli non pascentur, si ex cavea tardius exiverint, si
occinuerit avis? Parva sunt haec; sed parva ista non contemnendo, maiores nostri maximam
hanc rempublicam fecerunt". Perché in queste cose piccole è quella forza di tenere
uniti e confidenti i soldati: la quale cosa è prima cagione d'ogni vittoria. Nonpertanto,
conviene con queste cose sia accompagnata la virtù: altrimenti, le non vagliano. I
Prenestini, avendo contro ai Romani fuori el loro esercito, se n'andarono ad alloggiare in
sul fiume d'Allia, il luogo dove i Romani furono vinti da i Franciosi; il che fecero per
mettere fiducia ne' loro soldati, e sbigottire i Romani per la fortuna del luogo. E
benché questo loro partito fusse probabile, per quelle ragioni che di sopra si sono
discorse; nientedimeno il fine della cosa mostrò che la vera virtù non teme ogni minimo
accidente. Il che lo istorico benissimo dice con queste parole, in bocca poste del
Dittatore, che parla così al suo Maestro de' cavagli: "Vides tu, fortuna illos
fretos ad Alliam consedisse; at tu, fretus armis animisque, invade mediam aciem".
Perché una vera virtù, un ordine buono, una sicurtà presa da tante vittorie, non si
può con cose di poco momento spegnere; né una cosa vana fa loro paura, né un disordine
gli offende: come si vede certo, che, essendo due Manlii consoli contro a' Volsci, per
avere mandato temerariamente parte del campo a predare, ne seguì che, in un tempo, e
quelli che erano iti e quelli che erano rimasti si trovavono assediati; dal quale
pericolo, non la prudenza de' Consoli, ma la virtù de' propri soldati gli liberò. Dove
Tito Livio dice queste parole: "Militum, etiam sine rectore, stabilis virtus tutata
est".
Non voglio lasciare indietro uno termine
usato da Fabio, sendo entrato di nuovo con lo esercito in Toscana, per farlo confidente,
giudicando quella tale fidanza essere più necessaria per averlo condotto in paese nuovo,
incontro a nimici nuovi: che, parlando avanti la zuffa a' soldati, e detto ch'ebbe molte
ragioni, mediante le quali ei potevono sperare la vittoria, disse che potrebbe ancora dire
loro certe cose buone, e dove ei vedrebbono la vittoria certa, se non fusse pericoloso il
manifestarle. Il quale modo, come e' fu saviamente usato, così merita di essere imitato.
Capitolo 34
Quale fama o voce o opinione fa che il popolo comincia
a favorire uno cittadino: e se ei distribuisce i magistrati con maggiore prudenza che un
principe.
Altra volta parlamo
come Tito Manlio, che fu poi detto Torquato, salvò Lucio Manlio suo padre da una accusa
che gli aveva fatta Marco Pomponio tribuno della plebe. E benché il modo del salvarlo
fosse alquanto violento ed istraordinario, nondimeno quella filiale piatà verso del padre
fu tanto grata allo universale, che, non solamente non ne fu ripreso, ma, avendosi a fare
i Tribuni delle legioni, fu fatto Tito Manlio nel secondo luogo. Per il quale successo,
credo che sia bene considerare il modo che tiene il popolo a giudicare gli uomini nelle
distribuzioni sue; e che, per quello noi veggiamo, s'egli è vero quanto di sopra si
conchiuse, che il popolo sia migliore distributore che uno principe.
Dico, adunque, come il popolo nel suo
distribuire va dietro a quello che si dice d'uno per publica voce e fama, quando per sue
opere note non lo conosce altrimenti, o per presunzione o opinione che si ha di lui. Le
quali due cose sono causate o da' padri di quelli tali che, per essere stati grandi uomini
e valenti nella città, si crede che i figliuoli debbeno essere simili a loro, infino a
tanto che per le opere di quegli non s'intenda il contrario; o la è causata dai modi che
tiene quello di chi si parla. I modi migliori che si possino tenere, sono: avere compagnia
di uomini gravi, di buoni costumi, e riputati savi da ciascuno. E perché nessuno indizio
si può avere maggiore d'un uomo, che le compagnie con quali egli usa; meritamente uno che
usa con compagnie oneste, acquista buono nome, perché è impossibile che non abbia
qualche similitudine di quelle. O veramente si acquista questa publica fama per qualche
azione istraordinaria e notabile ancora che privata, la quale ti sia riuscita
onorevolmente. E di tutte a tre queste cose che danno nel principio buona riputazione ad
uno, nessuna la dà maggiore che questa ultima: perché quella prima de' parenti e de'
padri è sì fallace, che gli uomini vi vanno a rilento; ed in poco si consuma, quando la
virtù propria di colui che ha a essere giudicato non l'accompagna. La seconda, che ti fa
conoscere per via delle pratiche tue, è meglio della prima, ma è molto inferiore alla
terza, perché, infino a tanto che non si vede qualche segno che nasca da te sta la
riputazione tua fondata in su l'opinione, la quale è facilissima a cancellarla. Ma quella
terza, essendo principiata e fondata in sul fatto ed in su la opera tua, ti dà nel
principio tanto nome, che bisogna bene che operi poi molte cose contrarie a questa,
volendo annullarla. Debbono, adunque, gli uomini che nascono in una republica pigliare
questo verso, ed ingegnarsi, con qualche operazione istraordinaria, cominciare a
rilevarsi. Il che molti a Roma in gioventù fecero o con il promulgare una legge che
venisse in comune utilità; o con accusare qualche potente cittadino come transgressore
delle leggi; o col fare simili cose notabili e nuove, di che si avesse a parlare. Né
solamente sono necessarie simili cose per cominciare a darsi la riputazione ma sono ancora
necessarie per mantenerla ed accrescerla. Ed a volere fare questo, bisogna rinnovarle;
come per tutto il tempo della sua vita fece Tito Manlio: perché, difeso ch'egli ebbe il
padre tanto virtuosamente e istraordinariamente, e per questa azione presa la prima
riputazione sua, dopo certi anni combatté con quel Francioso, e, morto, gli trasse quella
collana d'oro che gli dette il nome di Torquato. Non bastò questo, che dipoi, già in
età matura, ammazzò il figliuolo per avere combattuto sanza licenza, ancora ch'egli
avesse superato il nimico. Le quali tre azioni allora gli dettero più nome e per tutti i
secoli lo fanno più celebre, che non lo fece alcuno trionfo ed alcuna altra vittoria, di
che elli fu ornato quanto alcuno altro Romano. E la cagione è, perché in quelle vittorie
Manlio ebbe moltissimi simili; in queste particulari azioni n'ebbe o pochissimi o nessuno.
A Scipione maggiore non arrecarono tanta
gloria tutti i suoi trionfi, quanto gli dette lo avere, ancora giovinetto, in sul Tesino,
difeso il padre; e lo avere, dopo la rotta di Canne, animosamente con la spada sguainata
fatto giurare più giovani romani che ei non abbandonerebbero l'Italia, come di già infra
loro avevano diliberato: le quali due azioni furono principio alla riputazione sua, e gli
feciono scala ai trionfi della Spagna e dell'Affrica. La quale opinione da lui fu ancora
accresciuta, quando ei rimandò la sua figliuola al padre, e la moglie al marito, in
Ispagna. Questo modo del procedere non è necessario solamente a quelli cittadini che
vogliono acquistare fama per ottenere gli onori nella loro republica, ma è ancora
necessario ai principi per mantenersi la riputazione nel principato loro: perché nessuna
cosa gli fa tanto stimare, quanto dare di sé rari esempli con qualche fatto o detto rado,
conforme al bene comune, il quale mostri il signore o magnanimo o liberale o giusto, e che
sia tale che si riduca come in proverbio intra i suoi suggetti.
Ma, per tornare donde noi cominciamo
questo discorso, dico come il popolo, quando ei comincia a dare uno grado a uno suo
cittadino, fondandosi sopra quelle tre cagioni soprascritte, non si fonda male; ma poi,
quando gli assai esempli de' buoni portamenti d'uno lo fanno più noto, si fonda meglio,
perché in tale caso non può essere che quasi mai s'inganni. Io parlo solamente di quelli
gradi che si dànno agli uomini nel principio, avanti che per ferma isperienza siano
conosciuti, o che passino da un'azione a un'altra dissimile: dove, e quanto alla falsa
opinione, e quanto alla corrozione, sempre faranno minori errori che i principi. E perché
e' può essere che i popoli s'ingannerebbono della fama, della opinione e delle opere
d'uno uomo, stimandole maggiori che in verità non sono, il che non interverrebbe a uno
principe, perché gli sarebbe detto, e sarebbe avvertito da chi lo consigliasse; perché
ancora i popoli non manchino di questi consigli, i buoni ordinatori delle republiche hanno
ordinato, che, avendosi a creare i supremi gradi nelle città, dove fosse pericoloso
mettervi uomini insufficienti, e veggendosi la voga popolare essere diritta a creare
alcuno che fosse insufficiente, sia lecito a ogni cittadino, e gli sia imputato a gloria,
di publicare nelle concioni i difetti di quello, acciocché il popolo, non mancando della
sua conoscenza, possa meglio giudicare. E che questo si usasse a Roma, ne rende testimonio
l'orazione di Fabio Massimo, la quale ei fece al popolo nella seconda guerra punica,
quando nella creazione de' Consoli i favori si volgevano a creare Tito Ottacilio; e
giudicandolo Fabio insufficiente a governare in quelli tempi il consolato, gli parlò
contro, mostrando la insufficienza sua; tanto che gli tolse quel grado, e volse i favori
del popolo a chi più lo meritava che lui. Giudicano, adunque, i popoli, nella elezione a'
magistrati, secondo quelli contrassegni che degli uomini si possono avere più veri; e
quando ei possono essere consigliati come i principi, errano meno de' principi: e quel
cittadino che voglia cominciare a avere i favori del popolo, debbe con qualche fatto
notabile, come fece Tito Manlio, guadagnarseli.
Capitolo 35
Quali pericoli si portano nel farsi capo a consigliare
una cosa; e, quanto ella ha più dello istraordinario, maggiori pericoli vi si corrono.
Quanto sia cosa
pericolosa farsi capo d'una cosa nuova che appartenga a molti, e quanto sia difficile a
trattarla ed a condurla, e, condotta, a mantenerla, sarebbe troppo lunga e troppo alta
materia a discorrerla: però, riserbandola a luogo più conveniente, parlerò solo di
quegli pericoli che portano i cittadini, o quelli che consigliano uno principe a farsi
capo d'una diliberazione grave ed importante, in modo che tutto il consiglio di essa sia
imputato a lui. Perché, giudicando gli uomini le cose dal fine, tutto il male che ne
risulta s'imputa allo autore del consiglio; e, se ne risulta bene, ne è commendato: ma di
lunge il premio non contrappesa a il danno. Il presente Sultan Salì, detto Gran Turco,
essendosi preparato (secondo che ne riferiscono alcuni che vengono de' suoi paesi) di fare
la impresa di Soria e di Egitto, fu confortato da uno suo Bascià, quale ei teneva ai
confini di Persia, di andare contro al Sofì: dal quale consiglio mosso andò con esercito
grossissimo a quella impresa; e arrivando in uno paese larghissimo, dove sono assai
diserti e le fiumare rade, e trovandovi quelle difficultà che già fecero rovinare molti
eserciti romani, fu in modo oppressato da quelle, che vi perdé, per fame e per peste,
ancora che nella guerra fosse superiore, gran parte delle sue genti: talché, irato contro
allo autore del consiglio, lo ammazzò. Leggesi, assai cittadini stati confortatori d'una
impresa, e, per avere avuto quella tristo fine, essere stati mandati in esilio. Fecionsi
capi alcuni cittadini romani, che si facesse in Roma il Consule plebeio. Occorse che il
primo che uscì fuori con gli eserciti, fu rotto; onde a quegli consigliatori sarebbe
avvenuto qualche danno, se non fosse stata tanto gagliarda quella parte, in onore della
quale tale diliberazione era venuta.
È cosa adunque certissima, che quegli
che consigliano una republica, e quegli che consigliano uno principe, sono posti intra
queste angustie, che, se non consigliano le cose che paiono loro utili, o per la città o
per il principe, sanza rispetto, e' mancano dell'ufficio loro; se le consigliano, e' gli
entrano in pericolo della vita e dello stato: essendo tutti gli uomini in questo ciechi,
di giudicare i buoni e i cattivi consigli dal fine. E pensando in che modo ei potessono
fuggire o questa infamia o questo pericolo, non ci veggo altra via che pigliare le cose
moderatamente, e non ne prendere alcuna per sua impresa, e dire la opinione sua sanza
passione, e sanza passione con modestia difenderla: in modo che, se la città o il
principe la segue, che la segua voluntario, e non paia che vi venga tirato dalla tua
importunità. Quando tu faccia così, non è ragionevole che uno principe ed uno popolo
del tuo consiglio ti voglia male, non essendo seguito contro alla voglia di molti: perché
quivi si porta pericolo dove molti hanno contradetto, i quali poi nello infelice fine
concorrono a farti rovinare. E se in questo caso si manca di quella gloria che si acquista
nello essere solo contro a molti a consigliare una cosa, quando ella sortisce buono fine,
ci sono a rincontro due beni: il primo, del mancare di pericolo; il secondo, che, se tu
consigli una cosa modestamente, e per la contradizione il tuo consiglio non sia preso e
per il consiglio d'altrui ne seguiti qualche rovina, ne risulta a te gloria grandissima. E
benché la gloria che si acquista de' mali che abbia o la tua città o il tuo principe,
non si possa godere, nondimeno è da tenerne qualche conto.
Altro consiglio non credo si possa dare
agli uomini in questa parte: perché consigliandogli che tacessono, e che non dicessono
l'opinione loro, sarebbe cosa inutile alla republica o al loro principe, e non
fuggirebbono il pericolo; perché in poco tempo diventerebbono sospetti: ed ancora
potrebbe loro intervenire come a quegli amici di Perse re de' Macedoni, il quale essendo
stato rotto da Paulo Emilio, e fuggendosi con pochi amici, accadde che, nel replicare le
cose passate, uno di loro cominciò a dire a Perse molti errori fatti da lui, che erano
stati cagione della sua rovina; al quale Perse rivoltosi, disse: - Traditore, sì che tu
hai indugiato a dirmelo ora che io non ho più rimedio! - e sopra queste parole di sua
mano lo ammazzò. E così colui portò la pena d'essere stato cheto quando e' doveva
parlare, e di avere parlato quando e' doveva tacere; non fuggì il pericolo per non avere
dato il consiglio. Però credo che sia da tenere ed osservare i termini soprascritti.
Capitolo 36
Le cagioni perché i Franciosi siano stati e siano
ancora giudicati nelle zuffe, da principio più che uomini, e dipoi meno che femine.
La ferocità di quello
Francioso che provocava qualunque Romano, appresso al fiume Aniene, a combattere seco,
dipoi la zuffa fatta intra lui e Tito Manlio, mi fa ricordare di quello che Tito Livio
più volte dice, che i Franciosi sono nel principio della zuffa più che uomini, e nel
successo del combattere riescono poi meno che femine. E pensando donde questo nasca, si
crede per molti che sia la natura loro così fatta: il che credo sia vero; ma non è per
questo che questa loro natura, che gli fa feroci nel principio, non si potesse in modo con
l'arte ordinare, che la gli mantenesse feroci infino nello ultimo.
Ed a volere provare questo, dico come e'
sono di tre ragioni eserciti: l'uno dove è furore ed ordine; perché dall'ordine nasce il
furore e la virtù, come era quello de' Romani: perché si vede in tutte le istorie, che
in quello esercito era un ordine buono, che vi aveva introdotto una disciplina militare
per lungo tempo. Perché in uno esercito, bene ordinato nessuno debbe fare alcuna opera se
non regolarlo: e si troverrà, per questo, che nello esercito romano, dal quale, avendo
elli vinto il mondo, debbono prendere esemplo tutti gli altri eserciti, non si mangiava,
non si dormiva, non si meritricava, non si faceva alcuna azione o militare o domestica
sanza l'ordine del console. Perché quegli eserciti che fanno altrimenti, non sono veri
eserciti; e se fanno alcuna pruova, la fanno per furore e per impeto, e non per virtù. Ma
dove la virtù ordinata usa il furore suo con i modi e co' tempi, né difficultà veruna
lo invilisce, né li fa mancare l'animo: perché gli ordini buoni gli rinfrescono l'animo
ed il furore, nutriti dalla speranza del vincere; la quale mai non manca, infino a tanto
che gli ordini stanno saldi. Al contrario interviene in quelli eserciti dove è furore e
non ordine, come erano i Franciosi, i quali tuttavia nel combattere mancavano, perché,
non riuscendo loro con il primo impeto vincere, e non essendo sostenuto da una virtù
ordinata quello loro furore nel quale egli speravano né avendo fuori di quello cosa in la
quale ei cunfidassono come quello era raffreddo, mancavano. Al contrario i Romani,
dubitando meno de' pericoli per gli ordini loro buoni non diffidando della vittoria, fermi
ed ostinati combattevano col medesimo animo e con la medesima virtù nel fine che nel
principio: anzi, agitati dalle armi, sempre si accendevano. La terza qualità di eserciti
è dove non è furore naturale né ordine accidentale: come sono gli eserciti italiani de'
nostri tempi, i quali sono al tutto inutili; e se non si abbattano a uno esercito che per
qualche accidente si fugga, mai non vinceranno. E sanza addurre altri esempli, si vede,
ciascuno dì, come ei fanno pruove di non avere alcuna virtù. E perché, con il
testimonio di Tito Livio, ciascuno intenda come debbe essere fatta la buona milizia, e
come è fatta la rea; io voglio addurre le parole di Papirio Cursore, quando ei voleva
punire Fabio, Maestro de' cavalli, quando disse: "Nemo hominum, nemo Deorum,
verecundiam habeat; non edicta imperatorum, non auspicia observentur; sine commeatu vagi
milites in pacato, in hostico errent; immemores sacramenti, licentia sola se ubi velint
exauctorent; infrequentia deserant signa; neque conveniatur ad edictum, nec discernantur,
interdiu nocte; aequo iniquo loco, iussu iniussu imperatoris pugnent; et non signa, non
ordines servent: latrocinii modo, caeca et fortuita pro sollemni et sacrata militia
sit". E puossi per questo testo adunque, facilmente vedere se la milizia de' nostri
tempi è cieca e fortuita, o sacrata e solenne; e quanto le manca a essere simile a quella
che si può chiamare milizia; e quanto ella è discosto da essere furiosa ed ordinata,
come la romana, o furiosa solo, come la franciosa.
Capitolo 37
Se le piccole battaglie innanzi alla giornata sono
necessarie; e come si debbe fare a conoscere uno inimico nuovo, volendo fuggire quelle.
E' pare che nelle
azioni degli uomini, come altra volta abbiamo discorso, si truovi, oltre alle altre
difficultà, nel volere condurre la cosa alla sua perfezione, che sempre propinquo al bene
sia qualche male, il quale con quel bene sì facilmente nasca che pare impossibile potere
mancare dell'uno, volendo l'altro. E questo si vede in tutte le cose che gli uomini
operano. E però si acquista il bene con difficultà, se dalla fortuna tu non se' aiutato
in modo, che ella con la sua forza vinca questo ordinario e naturale inconveniente. Di
questo mi ha fatto ricordare la zuffa di Manlio e del Francioso, dove Tito Livio dice:
"Tanti ea dimicatio ad universi belli eventum momenti fuit, ut Gallorum exercitus,
relictis trepide Castris, in Tiburtem agrum mox in Campaniam transierit". Perché io
considero, dall'uno canto, che uno buono capitano debbe fuggire, al tutto, di operare
alcuna cosa, che, essendo di poco momento, possa fare cattivi effetti nel suo esercito:
perché cominciare una zuffa dove non si operino tutte le forze e vi si arrischi tutta la
fortuna, è cosa al tutto temeraria; come io dissi di sopra, quando io dannai il guardare
de' passi.
Dall'altra parte, io considero come i
capitani savi, quando vengono allo incontro d'uno nuovo nimico, e ch'e' sia riputato, ei
sono necessitati, prima che venghino alla giornata, fare provare, con leggieri zuffe, ai
loro soldati, tali nimici; acciocché, cominciandogli a conoscere e maneggiare, perdino
quel terrore che la fama e la riputazione aveva dato loro. E questa parte in uno capitano
è importantissima; perché ella ha in sé quasi una necessità che ti costringe a farla,
parendoti andare ad una manifesta perdita, sanza avere prima fatto, con piccole
isperienze, di tôrre ai tuoi soldati quello terrore che la riputazione del nimico aveva
messo negli animi loro.
Fu Valerio Corvino mandato dai Romani con
gli eserciti contro ai Sanniti nuovi inimici, e che per lo addietro mai non avevano
provate l'armi l'uno dell'altro, dove dice Tito Livio, che Valerio fece fare ai Romani con
i Sanniti alcune leggieri zuffe "ne eos novum bellum, ne novus hostis terreret".
Nondimeno è pericolo gravissimo, che, restando i tuoi soldati in quelle battaglie vinti,
la paura e la viltà non cresca loro, e ne conseguitino contrari effetti a' disegni tuoi:
cioè, che tu gli sbigottisca, avendo disegnato di assicurargli: tanto che questa è una
di quelle cose che ha il male sì propinquo al bene, e tanto sono congiunti insieme, che
gli è facil cosa prendere l'uno, credendo pigliare l'altro. Sopra che io dico, che uno
buono capitano debbe osservare con ogni diligenza, che non surga alcuna cosa che per
alcuno accidente possa tôrre l'animo allo esercito suo. Quello che gli può tôrre
l'animo è cominciare a perdere; e però si debbe guardare dalle zuffe piccole, e non le
permettere se non con grandissimo vantaggio, e con speranza di certa vittoria: non debbe
fare imprese di guardare passi, dove non possa tenere tutto lo esercito suo: non debbe
guardare terre, se non quelle che, perdendole, di necessità ne seguisse la rovina sua; e
quelle che guarda, ordinarsi in modo, e con le guardie di esse e con lo esercito, che,
trattandosi della ispugnazione di esse, ei possa adoperare tutte le forze sue; l'altre
debbe lasciare indifese. Perché ogni volta che si perde una cosa che si abbandoni, e lo
esercito sia ancora insieme, non si perde la riputazione della guerra né la speranza del
vincerla: ma quando si perde una cosa che tu hai disegnata difendere, e ciascuno crede che
tu la difenda, allora è il danno e la perdita; ed hai quasi, come i Franciosi, con una
cosa di piccolo momento perduta la guerra.
Filippo di Macedonia, padre di Perse,
uomo militare e di gran condizione ne' tempi suoi, essendo assaltato dai Romani, assai de'
suoi paesi, i quali elli giudicava non potere guardare, abbandonò e guastò: come quello
che, per essere prudente, giudicava più pernizioso perdere la riputazione col non potere
difendere quello che si metteva a difendere, che, lasciandolo in preda al nimico perderlo
come cosa negletta. I Romani, quando dopo la rotta di Canne le cose loro erano afflitte,
negarono a molti loro raccomandati e sudditi gli aiuti, commettendo loro che si
difendessono il meglio potessono. I quali partiti sono migliori assai, che pigliare difese
e poi non le difendere: perché in questo partito si perde amici e forze; in quello, amici
solo. Ma tornando alle piccole zuffe, dico che, se pure uno capitano è costretto per la
novità del nimico fare qualche zuffa, debbe farla con tanto suo vantaggio, che non vi sia
alcuno pericolo di perderla: o veramente fare come Mario (il che è migliore partito), il
quale, andando contro a' Cimbri, popoli ferocissimi, che venivano a predare Italia, e
venendo con uno spavento grande per la ferocità e moltitudine loro, e per avere di già
vinto uno esercito romano, giudicò Mario essere necessario, innanzi che venisse alla
zuffa, operare alcuna cosa per la quale lo esercito suo deponesse quel terrore che la
paura del nimico gli aveva dato; e, come prudentissimo capitano, più che una volta
collocò lo esercito suo in luogo donde i Cimbri con lo esercito loro dovessono passare. E
così, dentro alle fortezze del suo campo, volle che i suoi soldati gli vedessono, ed
assuefacessono li occhi alla vista di quello nimico; acciocché, vedendo una moltitudine
inordinata, piena d'impedimenti, con armi inutili, e parte disarmati, si rassicurassono, e
diventassono desiderosi della zuffa. Il quale partito, come fu da Mario saviamente preso,
così dagli altri debbe essere diligentemente imitato, per non incorrere in quelli
pericoli che io dico disopra, e non avere a fare come i Franciosi, "qui ob rem parvi
ponderis trepidi, in Tiburtem agrum et in Campaniam transierunt". E perché noi
abbiamo allegato in questo discorso Valerio Corvino, voglio, mediante le parole sue, nel
seguente capitolo, come debbe essere fatto uno capitano, dimostrare.
Capitolo 38
Come debbe essere fatto uno capitano nel quale lo
esercito suo possa confidare.
Era, come di sopra
dicemo, Valerio Corvino con lo esercito contro ai Sanniti, nuovi nimici del Popolo romano:
donde che, per assicurare i suoi soldati, e per farli conoscere i nimici, fece fare a'
suoi certe leggieri zuffe; e non gli bastando questo, volle, avanti alla giornata, parlare
loro, e mostrò, con ogni efficacia, quanto ei dovevano stimare poco tali nimici,
allegando la virtù de' suoi soldati, e la propria. Dove si può notare, per le parole che
Livio gli fa dire, come debbe essere fatto uno capitano in chi lo esercito abbia a
confidare; le quali parole sono queste: "Tum etiam intueri, cuius ductu auspicioque
ineunda pugna sit, utrum, qui audiendus dumtaxat magnificus adhortator sit, verbis tantum
ferox, operum militarium expers, an qui et ipse tela tractare, procedere ante signa,
versari media in mole pugnae sciat. Facta mea, non dicta, vos, milites, sequi volo; nec
disciplinam modo, sed exemplum etiam a me petere, qui hac dextra mihi tres consulatus,
summamque laudem peperi". Le quali parole, considerate bene, insegnano a qualunque,
come ei debbe procedere a volere tenere il grado del capitano: e quello che sarà fatto
altrimenti, troverrà, con il tempo, quel grado, quando per fortuna o per ambizione vi sia
condotto, torgli e non dargli riputazione; perché non i titoli illustrono gli uomini, ma
gli uomini i titoli. Debbesi ancora dal principio di questo discorso considerare che, se
gli capitani grandi hanno usati termini istraordinari a fermare gli animi d'uno esercito
veterano quando con i nimici inconsueti debbe affrontarsi; quanto maggiormente si abbia a
usare la industria quando si comandi uno esercito nuovo, che non abbia mai veduto il
nimico in viso! Perché, se lo inusitato inimico allo esercito vecchio dà terrore, tanto
maggiormente lo debbe dare ogni inimico a uno esercito nuovo. Pure, si è veduto molte
volte dai buoni capitani tutte queste difficultà con somma prudenza essere vinte: come
fece quel Gracco romano, ed Epaminonda tebano, de' quali altra volta abbiamo parlato, che
con eserciti nuovi vinsono eserciti veterani ed esercitatissimi.
I modi che ei tenevano, era: parecchi
mesi esercitargli in battaglie fitte e assuefargli alla ubbidienza ed allo ordine; e da
quelli poi, con massima confidenza, nella vera zuffa gli adoperavano. Non si debba,
adunque, diffidare alcuno uomo militare di non potere fare buoni eserciti, quando non gli
manchi uomini; perché quel principe, che abbonda di uomini e manca di soldati, debbe
solamente, non della viltà degli uomini, ma della sua pigrizia e poca prudenza, dolersi.
Capitolo 39
Che uno capitano debbe essere conoscitore de' siti.
Intra le altre cose
che sono necessarie a uno capitano di eserciti, è la cognizione de' siti e de' paesi;
perché, sanza questa cognizione generale e particulare, uno capitano di eserciti non può
bene operare alcuna cosa. E perché tutte le scienze vogliono pratica a volere
perfettamente possederle, questa è una che ricerca pratica grandissima. Questa pratica,
ovvero questa particulare cognizione, si acquista più mediante le cacce che per veruno
altro esercizio. Però gli antichi scrittori dicono che quelli eroi che governarono nel
loro tempo il mondo, si nutrirono nelle selve e nelle cacce; perché la caccia, oltre a
questa cognizione, c'insegna infinite cose che sono nella guerra necessarie. E Senofonte,
nella vita di Ciro, mostra che, andando Ciro ad assaltare il re d'Armenia, nel divisare
quella fazione, ricordò a quegli suoi, che questa non era altro che una di quelle cacce
le quali molte volte avevano fatte seco. E ricordava a quelli che mandava in agguato in su
e' monti, che gli erano simili a quelli che andavano a tendere le reti in su e' gioghi; ed
a quelli che scorrevano per il piano, erano simili a quegli che andavano a levare del suo
covile la fiera, acciocché, cacciata, desse nelle reti.
Questo si dice per mostrare come le
cacce, secondo che Senofonte appruova, sono una immagine d'una guerra: e per questo agli
uomini grandi tale esercizio è onorevole e necessario. Non si può ancora imparare questa
cognizione de' paesi in altro commodo modo, che per via di caccia, perché la caccia fa, a
colui che la usa sapere come sta particularmente quei paese dove elli la esercita. E fatto
che uno si è familiare bene una regione, con facilità comprende poi tutti i paesi nuovi;
perché ogni paese ed ogni membro di quelli hanno insieme qualche conformità, in modo che
dalla cognizione d'uno facilmente si passa alla cognizione dell'altro. Ma chi non ne ha
bene pratico uno, con difficultà, anzi non mai se non con un lungo tempo, può conoscere
l'altro. E chi ha questa pratica, in uno voltare d'occhio sa come giace quel piano, come
surge quel monte, dove arriva quella valle, e tutte le altre simili cose, di che elli ha
per lo addietro fatto una ferma scienza. E che questo sia vero, ce lo mostra Tito Livio
con lo esemplo di Publio Decio; il quale, essendo Tribuno de' soldati nello esercito che
Cornelio consolo conduceva contro ai Sanniti, ed essendosi il Consolo ridotto in una
valle, dove lo esercito de' Romani poteva dai Sanniti essere rinchiuso, e vedendosi in
tanto pericolo, disse al Consolo: "Vides tu, Aule Corneli, cacumen illud supra
hostem? arx illa est spei salutisque nostrae, si eam (quoniam caeci reliquere Samnites)
impigre capimus". Ed innanzi a queste parole, dette da Decio, Tito Livio dice:
"Publius Decius tribunus militum, conspicit unum editum in saltu collem, imminentem
hostium castris aditu arduum impedito agmini, expeditis haud difficilem". Donde,
essendo stato mandato sopra esso dal Consolo con tremila soldati, ed avendo salvo lo
esercito romano e disegnando, venente la notte, di partirsi, e salvare ancora sé ed i
suoi soldati, gli fa dire queste parole: "Ite mecum, ut, dum lucis aliquid superest,
quibus locis hostes praesidia ponant, qua pateat hinc exitus, exploremus. Haec omnia
sagulo militari amicus ne ducem circumire hostes notarent, perlustravit". Chi
considerrà, adunque, tutto questo testo, vedrà quanto sia utile e necessario a uno
capitano sapere la natura de' paesi: perché, se Decio non gli avesse saputi e conosciuti,
non arebbe potuto giudicare quale utile faceva pigliare quel colle, allo esercito Romano,
né arebbe potuto conoscere di discosto, se quel colle era accessibiie o no; e condotto
che si fu poi sopra esso, volendosene partire per ritornare al Consolo, avendo i nimici
intorno, non arebbe dal discosto potuto speculare le vie dello andarsene, e gli luoghi
guardati da' nimici. Tanto che, di necessità conveniva, che Decio avesse tale cognizione
perfetta: la quale fece che, con il pigliare quel colle, ei salvò lo esercito romano;
dipoi seppe, sendo assediato, trovare la via a salvare sé e quegli che erano stati seco.
Capitolo 40
Come usare la fraude nel maneggiare la guerra è cosa gloriosa.
Ancora che lo usare la
fraude in ogni azione sia detestabile, nondimanco nel maneggiare la guerra è cosa
laudabile e gloriosa; e, parimente è laudato colui che con fraude supera il nimico, come
quello che lo supera con le forze. E vedesi questo per il giudicio che ne fanno coloro che
scrivono le vite degli uomini grandi; i quali lodono Annibale e gli altri che sono stati
notabilissimi in simili modi di procedere. Di che per leggersi assai esempli, non ne
replicherò alcuno. Dirò solo questo, che io non intendo quella fraude essere gloriosa,
che ti fa rompere la fede data ed i patti fatti; perché questa, ancora che la ti
acquisti, qualche volta, stato e regno, come di sopra si discorse, la non ti acquisterà
mai gloria. Ma parlo di quella fraude che si usa con quel nimico che non si fida di te, e
che consiste proprio nel maneggiare la guerra; come fu quella di Annibale quando in sul
lago di Perugia simulò la fuga per rinchiudere il Consolo e lo esercito romano, e quando,
per uscire di mano di Fabio Massimo, accese le corna dello armento suo.
Alle quali fraudi fu simile questa che
usò Ponzio capitano dei Sanniti, per rinchiudere lo esercito romano dentro alle Forche
Caudine: il quale, avendo messo lo esercito suo a ridosso de' monti, mandò più suoi
soldati sotto veste di pastori con assai armento per il piano; i quali sendo presi dai
Romani, e domandati dove era lo esercito de' Sanniti, convennono tutti, secondo l'ordine
dato da Ponzio, a dire come egli era allo assedio di Nocera. La quale cosa, creduta dai
Consoli, fece che ei si rinchiusono dentro ai balzi caudini; dove entrati, furono subito
assediati dai Sanniti. E sarebbe stata questa vittoria, avuta per fraude, gloriosissima a
Ponzio, se egli avesse seguitati i consigli del padre il quale voleva che i Romani o ei si
salvassono liberamente o ei si ammazzassono tutti, e che non si pigliasse la via del
mezzo, "quae, neque amicos parat neque inimicos tollit". La quale via fu sempre
perniziosa nelle cose di stato come di sopra in altro luogo si discorse.