Niccolò Machiavelli
Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio
Capitolo 51
Una republica o uno principe debbe mostrare di fare per
liberalità quello a che la necessità lo constringe.
Gli uomini prudenti si fanno grado delle cose sempre e in ogni loro azione, ancora che la necessità gli constringesse a farle in ogni modo. Questa prudenza fu usata bene dal Senato romano, quando ei diliberò, che si desse il soldo del publico agli uomini che militavano, essendo consueti militare del loro proprio. Ma veggendo il Senato come in quel modo non si poteva fare lungamente guerra, e per questo non potendo né assediare terre né condurre gli eserciti discosto; e giudicando essere necessario potere fare l'uno e l'altro, deliberò che si dessono detti stipendi: ma lo feciono in modo che si fecero grado di quello a che la necessità gli constringeva. E fu tanto accetto alla plebe questo presente, che Roma andò sottosopra per l'allegrezza, parendole uno beneficio grande, quale mai speravono di avere, e quale mai per loro medesimi arebbono cerco. E benché i Tribuni s'ingegnassero di cancellare questo grado, mostrando come ella era cosa che aggravava, non alleggeriva, la plebe, sendo necessario porre i tributi per pagare questo soldo: nientedimeno non potevano fare tanto che la plebe non lo avesse accetto: il che fu ancora augumentato dal Senato per il modo che distribuivano i tributi, perché i più gravi e i maggiori furono quelli ch'ei posano alla Nobilità, e gli primi che furono pagati.
Capitolo 52
A reprimere la insolenzia d'uno che surga in una
republica potente, non vi e più sicuro e meno scandoloso modo, che preoccuparli quelle
vie per le quali viene a quella potenza.
Vedesi, per il
soprascritto discorso, quanto credito acquistasse la Nobilità con la plebe, per le
dimostrazioni lette in beneficio suo, sì del soldo ordinato, sì ancora del modo del
porre i tributi. Nel quale ordine se la Nobilità si fosse mantenuta, si sarebbe levato
via ogni tumulto in quella città, e sarebbesi tolto ai Tribuni quel credito che gli
avevano con la plebe, e, per consequente, quella autorità. E veramente, non si può in
una republica, e massime in quelle che sono corrotte, con miglior modo, meno scandoloso e
più facile, opporsi all'ambizione di alcuno cittadino, che preoccupandogli quelle vie,
per le quali si vede che esso cammina per arrivare al grado che disegna. Il quale modo se
fusse stato usato contro a Cosimo de' Medici, sarebbe stato miglior partito assai per gli
suoi avversari, che cacciarlo da Firenze: perché, se quegli cittadini che gareggiavano
seco avessero preso lo stile suo, di favorire il popolo, gli venivano, sanza tumulto e
sanza violenza, a trarre di mano quelle armi di che egli si valeva più. Piero Soderini si
aveva fatto riputazione nella città di Firenze con questo solo, di favorire l'universale;
il che nello universale gli dava riputazione, come amatore della libertà della città. E
veramente, a quegli cittadini che portavano invidia alla grandezza sua, era molto più
facile, ed era cosa molto più onesta, meno pericolosa, e meno dannosa per la republica,
preoccupargli quelle vie con le quali si faceva grande, che volere contrapporsegli,
acciocché con la rovina sua rovinassi tutto il restante della republica. Perché, se gli
avessero levato di mano quelle armi con le quali si faceva gagliardo (il che potevono fare
facilmente), arebbono potuto in tutti i consigli e in tutte le diliberazioni publiche
opporsegli sanza sospetto e sanza rispetto alcuno. E se alcuno replicasse che, se i
cittadini che odiavano Piero, feciono errore a non gli preoccupare le vie con le quali ei
si guadagnava riputazione nel popolo, Piero ancora venne a fare errore, a non preoccupare
quelle vie per le quali quelli suoi avversari lo facevono temere. Di che Piero merita
scusa, si perché gli era difficile il farlo, si perché le non erano oneste a lui;
imperocché le vie con le quali era offeso, erano il favorire i Medici; con li quali
favori essi lo battevano, ed alla fine lo rovinarono. Non poteva, pertanto, Piero
onestamente pigliare questa parte, per non potere distruggere con buona fama quella
libertà, alla quale egli era stato preposto guardia: dipoi, non potendo questi favori
farsi segreti e a un tratto, erano per Piero pericolosissimi; perché comunche ei si fusse
scoperto amico ai Medici, sarebbe diventato sospetto ed odioso al popolo: donde ai nimici
suoi nasceva molto più commodità di opprimerlo, che non avevano prima.
Debbono, pertanto, gli uomini in ogni
partito considerare i difetti ed i pericoli di quello, e non gli prendere, quando vi sia
più del pericoloso che dell'utile; nonostante che ne fussi stata data sentenzia conforme
alla diliberazione loro. Perché, faccendo altrimenti, in questo caso interverrebbe a
quelli come intervenne a Tullio; il quale, volendo tôrre i favori a Marc'Antonio, gliene
accrebbe. Perché, sendo Marc'Antonio stato giudicato inimico del Senato, ed avendo quello
grande esercito insieme adunato, in buona parte, de' soldati che avevano seguitato le
parte di Cesare; Tullio, per torgli questi soldati, confortò il Senato a dare riputazione
ad Ottaviano, e mandarlo con Irzio e Pansa consoli contro a Marc'Antonio: allegando, che,
subito che i soldati che seguivano Marc'Antonio, sentissero il nome di Ottaviano nipote di
Cesare, e che si faceva chiamare Cesare, lascerebbono quello, e si accosterebbono a
costui; e così restato Marc'Antonio ignudo di favori, sarebbe facile lo opprimerlo. La
quale cosa riuscì tutta al contrario; perché Marc'Antonio si guadagnò Ottaviano; e,
lasciato Tullio e il Senato, si accostò a lui. La quale cosa fu al tutto la distruzione
della parte degli ottimati. Il che era facile a conietturare: né si doveva credere quel
che si persuase Tullio, ma tener sempre conto di quel nome che con tanta gloria aveva
spenti i nimici suoi, ed acquistatosi il principato in Roma; né si doveva credere mai
potere, o da suoi eredi o da suoi fautori, avere cosa che fosse conforme al nome libero.
Capitolo 53
Il popolo molte volte disidera la rovina sua,
ingannato da una falsa spezie di beni: e come le grandi speranze e gagliarde promesse
facilmente lo muovono.
Espugnata che fu la
città de' Veienti, entrò nel popolo romano un'opinione, che fosse cosa utile per la
città di Roma, che la metà de' Romani andasse ad abitare a Veio; argomentando che, per
essere quella città ricca di contado, piena di edificii e propinqua a Roma, si poteva
arricchire la metà de' cittadini romani, e non turbare per la propinquità del sito
nessuna azione civile. La quale cosa parve al Senato ed a' più savi Romani tanto inutile
e tanto dannosa, che liberamente dicevano, essere più tosto per patire la morte che
consentire a una tale diliberazione. In modo che, venendo questa cosa in disputa, si
accese tanto la plebe contro al Senato, che si sarebbe venuto alle armi ed al sangue, se
il Senato non si fusse fatto scudo di alcuni vecchi ed estimati cittadini, la riverenza
de' quali frenò la plebe, che la non procedé più avanti con la sua insolenzia. Qui si
hanno a notare due cose. La prima che il popolo molte volte, ingannato da una falsa
immagine di bene, disidera la rovina sua; e se non gli è fatto capace, come quello sia
male, e quale sia il bene, da alcuno in chi esso abbia fede, si porta in le republiche
infiniti pericoli e danni. E quando la sorte fa che il popolo non abbi fede in alcuno,
come qualche volta occorre, sendo stato ingannato per lo addietro o dalle cose o dagli
uomini, si viene alla rovina, di necessità. E Dante dice a questo proposito, nel discorso
suo che fa De Monarchia, che il popolo molte volte grida Viva la sua morte! e Muoia la sua
vita! Da questa incredulità nasce che qualche volta in le republiche i buoni partiti non
si pigliono: come di sopra si disse de' Viniziani, quando, assaltati da tanti inimici, non
poterono prendere partito di guadagnarsene alcuno con la restituzione delle cose tolte ad
altri (per le quali era mosso loro la guerra, e fatta la congiura de' principi loro
contro), avanti che la rovina venisse.
Pertanto, considerando quello che è
facile o quello che è difficile persuadere a uno popolo, si può fare questa distinzione:
o quel che tu hai a persuadere rappresenta in prima fronte guadagno, o perdita; o
veramente ci pare partito animoso, o vile. E quando nelle cose che si mettono innanzi al
popolo, si vede guadagno, ancora che vi sia nascosto sotto perdita; e quando e' pare
animoso, ancora che vi sia nascosto sotto la rovina della republica, sempre sarà facile
persuaderlo alla moltitudine: e così fia sempre difficile persuadere quegli partiti dove
apparisse o viltà o perdita, ancora che vi fusse nascosto sotto salute e guadagno. Questo
che io ho detto, si conferma con infiniti esempli, romani e forestieri, moderni ed
antichi. Perché da questo nacque la malvagia opinione che surse, in Roma, di Fabio
Massimo, il quale non poteva persuadere al Popolo romano, che fusse utile a quella
Republica procedere lentamente in quella guerra, e sostenere sanza azzuffarsi l'impeto
d'Annibale; perché quel popolo giudicava questo partito vile, e non vi vedeva dentro
quella utilità vi era; né Fabio aveva ragioni bastanti a dimostrarla loro: e tanto sono
i popoli accecati in queste opinioni gagliarde, che, benché il Popolo romano avesse fatto
quello errore di dare autorità al Maestro de' cavagli di Fabio, di potersi azzuffare,
ancora che Fabio non volesse; e che per tale autorità il campo romano fusse per essere
rotto, se Fabio con la sua prudenza non vi rimediava, non gli bastò questa isperienza,
che fece di poi consule Varrone, non per altri suoi meriti che per avere, per tutte le
piazze e tutti i luoghi publici di Roma, promesso di rompere Annibale, qualunque volta
gliene fusse data autorità. Di che ne nacque la zuffa e la rotta di Canne, e presso che
la rovina di Roma. Io voglio addurre, a questo proposito, ancora uno altro esemplo romano.
Era stato Annibale in Italia otto o dieci anni, aveva ripieno di occisione de' Romani
tutta questa provincia, quando venne in Senato Marco Centenio Penula, uomo vilissimo (
nondimanco aveva avuto qualche grado nella milizia), ed offersesi, che, se gli davano
autorità di potere fare esercito d'uomini volontari in qualunque luogo volesse in Italia,
ei darebbe loro, in brevissimo tempo, preso o morto Annibale. Al Senato parve la domanda
di costui temeraria; nondimeno, ei, pensando, che s' ella se gli negasse e nel popolo si
fusse dipoi saputa la sua chiesta, che non ne nascesse qualche tumulto, invidia e mal
grado contro all'ordine senatorio, gliene concessono: volendo più tosto mettere a
pericolo tutti coloro che lo seguitassono, che fare surgere nuovi sdegni nel popolo;
sapendo quanto simile partito fusse per essere accetto, e quanto fusse difficile il
dissuaderlo. Andò, adunque, costui con una moltitudine inordinata ed inconposta a trovare
Annibale; e non gli fu prima giunto all'incontro, che fu, con tutti quegli che lo
seguitarono, rotto e morto.
In Grecia, nella città di Atene, non
potette mai Nicia, uomo gravissimo e prudentissimo, persuadere a quel Popolo che non fusse
bene andare a assaltare Sicilia; talché, presa quella diliberazione contro alla voglia
de' savi, ne seguì al tutto la rovina di Atene. Scipione, quando fu fatto consolo, e che
desiderava la provincia di Africa, promettendo al tutto la rovina di Cartagine, a che non
si accordando il Senato per la sentenzia di Fabio Massimo, minacciò di proporla nel
Popolo, come quello che conosceva benissimo quanto simili diliberazioni piaccino a'
popoli.
Potrebbesi a questo proposito dare
esempli della nostra città; come fu quando messere Ercole Bentivogli governatore delle
genti fiorentine, insieme con Antonio Giacomini, poiché ebbono rotto Bartolommeo
d'Alviano a San Vincenti andarono a campo a Pisa la quale impresa fu diliberata dal popolo
in su le promesse gagliarde di messere Ercole, ancora che molti savi cittadini la
biasimassero: nondimeno non vi ebbono rimedio, spinti da quella universale volontà, la
quale era fondata in su le promesse gagliarde del governatore. Dico, adunque, come e' non
è la più facile via a fare rovinare una republica dove il popolo abbia autorità, che
metterla in imprese gagliarde; perché, dove il popolo sia di alcuno momento, sempre fiano
accettate, né vi arà, chi sarà d'altra opinione, alcuno rimedio. Ma se di questo nasce
la rovina della città, ne nasce ancora, e più spesso, la rovina particulare de'
cittadini che sono preposti a simili imprese: perché, avendosi il popolo presupposto la
vittoria, come ei viene la perdita, non ne accusa né la fortuna né la impotenzia di chi
ha governato, ma la malvagità e ignoranza sua; e quello, il più delle volte, o ammazza o
imprigiona o confina: come intervenne a infiniti capitani Cartaginesi ed a molti Ateniesi.
Né giova loro alcuna vittoria che per lo addietro avessero avuta, perché tutto la
presente perdita cancella: come intervenne ad Antonio Giacomini nostro, il quale, non
avendo espugnata Pisa, come il popolo si aveva presupposto ed egli promesso, venne in
tanta disgrazia popolare, che, non ostante infinite sue buone opere passate, visse più
per umanità di coloro che ne avevano autorità, che per alcuna altra cagione che nel
popolo lo difendesse.
Capitolo 54
Quanta autorità abbi uno uomo grave a frenare una
moltitudine concitata.
Il secondo notabile sopra il testo nel superiore capitolo allegato, è, che veruna cosa è tanto atta a frenare una moltitudine concitata, quanto è la riverenzia di qualche uomo grave e di autorità, che se le faccia incontro; né sanza cagione dice Virgilio:
tum pietate gravem ac meritis si forte virum quem
conspexere, silent, arrectisque auribus adstant.
Per tanto, quello che è preposto a uno esercito, o quello che si trova in una città, dove nascesse tumulto debba rappresentarsi in su quello con maggiore grazia e più onorevolmente che può, mettendosi intorno le insegne di quello grado che tiene, per farsi più riverendo. Era, pochi anni sono, Firenze divisa in due fazioni, Fratesca ed Arrabbiata, che così si chiamavano; e venendo all'armi, ed essendo superati i Frateschi, intra i quali era Pagolantonio Soderini, assai in quegli tempi riputato cittadino, ed andandogli in quelli tumulti il popolo armato a casa per saccheggiarla; messere Francesco suo fratello, allora vescovo di Volterra, ed oggi cardinale, si trovava a sorte in casa; il quale, subito sentito il romore e veduta la turba, messosi i più onorevoli panni indosso, e di sopra il roccetto episcopale, si fece incontro a quegli armati, e con la presenzia e con le parole gli fermò; la quale cosa fu per tutta la città per molti giorni notata e celebrata. Conchiudo, adunque, come e' non è il più fermo né il più necessario rimedio a frenare una moltitudine concitata, che la presenzia d'uno uomo che per presenzia paia e sia riverendo. Vedesi, adunque, per tornare al preallegato testo, con quanta ostinazione la plebe romana accettava quel partito d'andare a Veio, perché lo giudicava utile, né vi conosceva, sotto, il danno vi era; e come, nascendone assai tumulti, ne sarebbe nati scandoli, se il Senato con uomini gravi e pieni di riverenza non avesse frenato il loro furore.
Capitolo 55
Quanto facilmente si conduchino le cose in quella
città dove la moltitudine non è corrotta: e che, dove è equalità, non si può fare
principato; e dove la non è, non si può fare republica.
Ancora che di sopra si
sia discorso assai quello è da temere o sperare delle cittadi corrotte, nondimeno non mi
pare fuori di proposito considerare una diliberazione del Senato circa il voto che
Cammillo aveva fatto di dare la decima parte a Apolline della preda de' Veienti: la quale
preda sendo venuta nelle mani della Plebe romana, né se ne potendo altrimenti rivedere
conto, fece il Senato uno editto, che ciascuno dovessi rappresentare in publico la decima
parte di quello ch'egli aveva predato. E benché tale diliberazione non avesse luogo,
avendo dipoi il Senato preso altro modo, e per altra via sodisfatto a Apolline, in
sodisfazione della plebe; nondimeno si vede per tale diliberazione quanto quel Senato
confidava nella bontà di quella, e come ei giudicava che nessuno fusse per non
rappresentare appunto tutto quello che per tale editto gli era comandato. E dall'altra
parte si vede come la plebe non pensò di fraudare in alcuna parte lo editto con il dare
meno che non doveva, ma di liberarsi di quello con il mostrarne aperte indegnazioni.
Questo esemplo, con molti altri che di sopra si sono addotti, mostrano quanta bontà e
quanta religione fusse in quel popolo, e quanto bene fusse da sperare di lui. E veramente,
dove non è questa bontà, non si può sperare nulla di bene; come non si può sperare
nelle provincie che in questi tempi si veggono corrotte: come è la Italia sopra tutte
l'altre, ed ancora la Francia e la Spagna di tale corrozione ritengono parte. E se in
quelle provincie non si vede tanti disordini quanti nascono in Italia ogni dì, diriva non
tanto dalla bontà de' popoli, la quale in buona parte è mancata, quanto dallo avere uno
re che gli mantiene uniti, non solamente per la virtù sua, ma per l'ordine di quegli
regni, che ancora non sono guasti. Vedesi bene, nella provincia della Magna, questa bontà
e questa religione ancora in quelli popoli essere grande; la quale fa che molte republiche
vi vivono libere, ed in modo osservono le loro leggi che nessuno di fuori né di dentro
ardisce occuparle. E che e' sia vero che, in loro, regni buona parte di quella antica
bontà, io ne voglio dare uno esemplo simile a questo, detto di sopra, del Senato e della
plebe romana. Usono quelle republiche, quando gli occorre loro bisogno di avere a spendere
alcuna quantità di danari per conto publico, che quegli magistrati o consigli che ne
hanno autorità, ponghino a tutti gli abitanti della città uno per cento, o due, di
quello che ciascuno ha di valsente. E fatta tale diliberazione, secondo l'ordine della
terra si rappresenta ciascuno dinanzi agli riscotitori di tale imposta; e, preso prima il
giuramento di pagare la conveniente somma, getta in una cassa a ciò diputata quello che
secondo la conscienza sua gli pare dovere pagare: del quale pagamento non è testimone
alcuno, se non quello che paga. Donde si può conietturare quanta bontà e quanta
religione sia ancora in quegli uomini. E debbesi stimare che ciascuno paghi la vera somma:
perché, quando la non si pagasse, non gitterebbe quella imposizione quella quantità che
loro disegnassero secondo le antiche che fossino usitate riscuotersi, e non gittando, si
conoscerebbe la fraude: e conoscendo si arebbe preso altro modo che questo. La quale
bontà è tanto più da ammirare in questi tempi, quanto ella è più rada: anzi si vede
essere rimasa solo in quella provincia.
Il che nasce da dua cose: l'una, non
avere avute conversazioni grandi con i vicini; perché né quelli sono iti a casa loro,
né essi sono iti a casa altrui, perché sono stati contenti di quelli beni, vivere di
quelli cibi, vestire di quelle lane, che dà il paese; d'onde è stata tolta via la
cagione d'ogni conversazione, ed il principio d'ogni corruttela; perché non hanno possuto
pigliare i costumi, né franciosi, né spagnuoli, né italiani; le quali nazioni tutte
insieme sono la corruttela del mondo. L'altra cagione è, che quelle republiche dove si è
mantenuto il vivere politico ed incorrotto, non sopportono che alcuno loro cittadino né
sia né viva a uso di gentiluomo: anzi mantengono intra loro una pari equalità, ed a
quelli signori e gentiluomini, che sono in quella provincia, sono inimicissimi; e se per
caso alcuni pervengono loro nelle mani, come principii di corruttele e cagione d'ogni
scandolo, gli ammazzono. E per chiarire questo nome di gentiluomini quale e' sia, dico che
gentiluomini sono chiamati quelli che oziosi vivono delle rendite delle loro possessioni
abbondantemente, sanza avere cura alcuna o di coltivazione o di altra necessaria fatica a
vivere. Questi tali sono perniziosi in ogni republica ed in ogni provincia, ma più
perniziosi sono quelli che, oltre alle predette fortune, comandano a castella, ed hanno
sudditi che ubbidiscono a loro. Di queste due spezie di uomini ne sono pieni il regno di
Napoli, Terra di Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non
è mai surta alcuna republica né alcuno vivere politico; perché tali generazioni di
uomini sono al tutto inimici d'ogni civilità. Ed a volere in provincie fatte in simil
modo introdurre una republica, non sarebbe possibile: ma a volerle riordinare, se alcuno
ne fusse arbitro, non arebbe altra via che farvi uno regno. La ragione è questa che, dove
è tanto la materia corrotta che le leggi non bastano a frenarla, vi bisogna ordinare
insieme con quelle maggior forza; la quale è una mano regia, che con la potenza assoluta
ed eccessiva ponga freno alla eccessiva ambizione e corruttela de' potenti. Verificasi
questa ragione con lo esemplo di Toscana: dove si vede in poco spazio di terreno state
lungamente tre republiche, Firenze, Siena e Lucca; e le altre città di quella provincia
essere in modo serve, che, con lo animo e con l'ordine, si vede o che le mantengono o che
le vorrebbono mantenere la loro libertà. Tutto è nato per non essere in quella provincia
alcuno signore di castella, e nessuno o pochissimi gentiluomini; ma esservi tanta
equalità, che facilmente da uno uomo prudente, e che delle antiche civilità avesse
cognizione, vi s'introdurrebbe uno vivere civile. Ma lo infortunio suo è stato tanto
grande, che infino a questi tempi non si è abattuta a alcuno uomo che lo abbia possuto o
saputo fare.
Trassi adunque di questo discorso questa
conclusione: che colui che vuole fare dove sono assai gentiluomini una republica, non la
può fare se prima non gli spegne tutti: e che colui che, dov'è assai equalità, vuole
fare uno regno o uno principato, non lo potrà mai fare se non trae di quella equalità
molti d'animo ambizioso ed inquieto, e quelli fa gentiluomini in fatto, e non in nome,
donando loro castella e possessioni, e dando loro favore di sustanze e di uomini;
acciocché, posto in mezzo di loro, mediante quegli mantenga la sua potenza; ed essi,
mediante quello, la loro ambizione; e gli altri siano constretti a sopportare quel giogo
che la forza, e non altro mai, può fare sopportare loro. Ed essendo per questa via
proporzione da chi sforza a chi è sforzato, stanno fermi gli uomini ciascuno negli ordini
loro. E perché il fare d'una provincia atta a essere regno una republica, e d'una atta a
essere republica farne uno regno, è materia da uno uomo che per cervello e per autorità
sia raro: sono stati molti che lo hanno voluto fare e pochi che lo abbino saputo condurre.
Perché la grandezza della cosa, parte sbigottisce gli uomini, parte in modo gl'impedisce,
che ne' principii primi mancano.
Credo che a questa mia opinione, che dove
sono gentiluomini non si possa ordinare republica, parrà contraria la esperienza della
Republica viniziana, nella quale non possono avere alcuno grado se non coloro che sono
gentiluomini. A che si risponde, come questo esemplo non ci fa alcuna oppugnazione,
perché i gentiluomini in quella Republica sono più in nome che in fatto; perché loro
non hanno grandi entrate di possessioni, sendo le loro ricchezze grandi fondate in sulla
mercanzia e cose mobili, e di più, nessuno di loro tiene castella, o ha alcuna
iurisdizione sopra gli uomini: ma quel nome di gentiluomo in loro è nome di degnità e di
riputazione, sanza essere fondato sopra alcuna di quelle cose che fa che nell'altre città
si chiamano i gentiluomini. E come le altre republiche hanno tutte le loro divisioni sotto
vari nomi, così Vinegia si divide in gentiluomini e popolari: e vogliono che quegli
abbino, ovvero possino avere, tutti gli onori; quelli altri ne siano al tutto esclusi. Il
che non fa disordine in quella terra, per le ragioni altra volta dette. Constituisca,
adunque, una republica colui dove è, o è fatta, una grande equalità; ed all'incontro
ordini un principato dove è grande inequalità: altrimenti farà cosa sanza proporzione e
poco durabile.
Capitolo 56
Innanzi che seguino i grandi accidenti in una città o
in una provincia, vengono segni che gli pronosticono, o uomini che gli predicano.
Donde ei si nasca io non so, ma ei si vede per gli antichi e per gli moderni esempli, che mai non venne alcuno grave accidente in una città o in una provincia, che non sia stato, o da indovini o da rivelazioni o da prodigi o da altri segni celesti, predetto. E per non mi discostare da casa nel provare questo, sa ciascuno quanto da frate Girolamo Savonerola fosse predetta innanzi la venuta del re Carlo VIII di Francia in Italia; e come, oltre a di questo, per tutta Toscana si disse essere sentite in aria e vedute genti d'armi, sopra Arezzo, che si azzuffavano insieme. Sa ciascuno, oltre a questo, come, avanti alla morte di Lorenzo de' Medici vecchio, fu percosso il duomo nella sua più alta parte con una saetta celeste, con rovina grandissima di quello edifizio. Sa ciascuno ancora, come, poco innanzi che Piero Soderini, quale era stato fatto gonfalonieri a vita dal popolo fiorentino, fosse cacciato e privo del suo grado, fu il palazzo medesimamente da uno fulgure percosso. Potrebbonsi, oltre a di questo, addurre più esempli i quali, per fuggire il tedio, lascerò. Narrerò solo quello che Tito Livio dice, innanzi alla venuta de' Franciosi a Roma: cioè, come uno Marco Cedicio plebeio riferì al Senato avere udito di mezza notte, passando per la Via nuova, una voce, maggiore che umana, la quale lo ammuniva che riferissi a' magistrati come e' Franciosi venivano a Roma. La cagione di questo credo sia da essere discorsa e interpretata da uomo che abbi notizia delle cose naturali e soprannaturali: il che non abbiamo noi. Pure, potrebbe essere che, sendo questo aere, come vuole alcuno filosofo, pieno di intelligenze, le quali per naturali virtù preveggendo le cose future, ed avendo compassione agli uomini, acciò si possino preparare alle difese, gli avvertiscono con simili segni. Pure, comunque e' si sia, si vede così essere la verità; e che sempre dopo tali accidenti sopravvengono cose istraordinarie e nuove alle provincie.
Capitolo 57
La plebe insieme è gagliarda, di per sé è debole.
Erano molti Romani, sendo seguita per la passata dei Franciosi la rovina della loro patria, andati ad abitare a Veio, contro la constituzione ed ordine del Senato: il quale, per rimediare a questo disordine, comandò per i suoi editti publici che ciascuno, infra certo tempo, e sotto certe pene, tornasse a abitare a Roma. De' quali editti, da prima per coloro contro a chi e' venivano, si fu fatto beffe; dipoi, quando si appressò il tempo dello ubbidire, tutti ubbidirono. E Tito Livio dice queste parole "Ex ferocibus universis singuli metu suo obedientes fuere". E veramente, non si può mostrare meglio la natura d'una moltitudine in questa parte, che si dimostri in questo testo. Perché la moltitudine è audace nel parlare, molte volte contro alle diliberazioni del loro principe; dipoi, come ei veggono la pena in viso, non si fidando l'uno dell'altro, corrono ad ubbidire. Talché si vede certo che, di quel che si dica uno popolo circa la buona o mala disposizione sua, si debba tenere non gran conto, quando tu sia ordinato in modo da poterlo mantenere, s'egli è bene disposto; s'egli è male disposto, da potere provedere che non ti offenda. Questo s'intende per quelle male disposizioni che hanno i popoli, nate da qualunque altra cagione che o per avere perduto la libertà o il loro principe stato amato da loro e che ancora sia vivo: imperocché le male disposizioni che nascono da queste cagioni sono sopra ogni cosa formidabili, e che hanno bisogno di grandi rimedi a frenarle: l'altre sue indisposizioni fiano facili, quando e' non abbia capi a chi rifuggire. Perché non ci è cosa, dall'un canto, più formidabile che una moltitudine sciolta e sanza capo; e, dall'altra parte, non è cosa più debole: perché, quantunque ella abbia l'armi in mano, fia facile ridurla, purché tu abbi ridotto da poter fuggire il primo empito; perché quando gli animi sono un poco raffreddi, e che ciascuno vede di aversi a tornare a casa sua, cominciano a dubitare di loro medesimi, e pensare alla salute loro o col fuggirsi o con l'accordarsi. Però una moltitudine così concitata, volendo fuggire questi pericoli, ha subito a fare infra sé medesima uno capo che la corregga, tenghila unita e pensi alla sua difesa; come fece la plebe romana, quando, dopo la morte di Virginia, si partì da Roma, e per salvarsi feciono infra loro venti Tribuni: e non faccendo questo, interviene loro sempre quel che dice Tito Livio nelle soprascritte parole che tutti insieme sono gagliardi, e, quando ciascuno poi comincia a pensare al proprio pericolo, diventa vile e debole.
Capitolo 58
La moltitudine è più savia e più costante che uno
principe.
Nessuna cosa essere
più vana e più incostante che la moltitudine, così Tito Livio nostro, come tutti gli
altri istorici, affermano. Perché spesso occorre, nel narrare le azioni degli uomini,
vedere la moltitudine avere condannato alcuno a morte, e quel medesimo dipoi pianto e
sommamente desiderato: come si vede aver fatto il popolo romano, di Manlio Capitolino, il
quale avendo condannato a morte, sommamente dipoi desiderava quello. E le parole dello
autore sono queste: "Populum brevi, posteaquam ab eo periculum nullum erat,
desiderium eius tenuit". Ed altrove, quando mostra gli accidenti che nacquono in
Siracusa dopo la morte di Girolamo nipote di Ierone, dice: "Haec natura multitudinis
est: aut humiliter servit, aut superbe dominatur". Io non so se io mi prenderò una
provincia dura e piena di tanta difficultà, che mi convenga o abbandonarla con vergogna,
o seguirla con carico; volendo difendere una cosa, la quale, come ho detto, da tutti gli
scrittori è accusata. Ma, comunque si sia, io non giudico né giudicherò mai essere
difetto difendere alcuna opinione con le ragioni, sanza volervi usare o l'autorità o la
forza. Dico, adunque, come di quello difetto di che accusano gli scrittori la moltitudine,
se ne possono accusare tutti gli uomini particularmente, e massime i principi; perché
ciascuno, che non sia regolato dalle leggi, farebbe quelli medesimi errori che la
moltitudine sciolta. E questo si può conoscere facilmente, perché ei sono e sono stati
assai principi, e de' buoni e de' savi ne sono stati pochi: io dico de' principi che hanno
potuto rompere quel freno che gli può correggere; intra i quali non sono quegli re che
nascevano in Egitto, quando, in quella antichissima antichità, si governava quella
provincia con le leggi; né quegli che nascevano in Sparta; né quegli che a' nostri tempi
nascano in Francia; il quale regno è moderato più dalle leggi che alcuno altro regno di
che ne' nostri tempi si abbia notizia. E questi re che nascono sotto tali constituzioni
non sono da mettere in quel numero, donde si abbia a considerare la natura di ciascuno
uomo per sé, e vedere s'egli è simile alla moltitudine; perché a rincontro si debbe
porre una moltitudine medesimamente regolata dalle leggi come sono loro; e si troverrà in
lei essere quella medesima bontà che noi vediamo essere in quelli, e vedrassi quella né
superbamente dominare né umilmente servire: come era il popolo romano, il quale, mentre
durò la Republica incorrotta, non servì mai umilmente né mai dominò superbamente; anzi
con li suoi ordini e magistrati tenne il suo grado onorevolmente. E quando era necessario
commuoversi contro a un potente, lo faceva; come si vide in Manlio, ne' Dieci ed in altri
che cercorono opprimerla: e quando era necessario ubbidire a' Dittatori ed a' Consoli per
la salute publica, lo faceva. E se il popolo romano desiderava Manlio Capitolino morto,
non è maraviglia, perché ei desiderava le sue virtù, le quali erano state tali, che la
memoria di esse recava compassione a ciascuno, ed arebbono avuto forza di fare quel
medesimo effetto in un principe, perché la è sentenzia di tutti gli scrittori, come la
virtù si lauda e si ammira ancora negli inimici suoi: e se Manlio, intra tanto desiderio,
fusse risuscitato, il popolo di Roma arebbe dato di lui il medesimo giudizio, come ei
fece, tratto che lo ebbe di prigione, che poco di poi lo condannò a morte; nonostante che
si vegga de' principi, tenuti savi, i quali hanno fatto morire qualche persona, e poi
sommamente desideratola: come Alessandro, Clito ed altri suoi amici; ed Erode, Marianne.
Ma quello che lo istorico nostro dice della natura della moltitudine, non dice di quella
che è regolata dalle leggi, come era la romana; ma della sciolta, come era la siragusana:
la quale fece quegli errori che fanno gli uomini infuriati e sciolti, come fece Alessandro
Magno, ed Erode, ne' casi detti. Però non è più da incolpare la natura della
moltitudine che de' principi, perché tutti equalmente errano, quando tutti sanza rispetto
possono errare. Di che, oltre a quel che ho detto, ci sono assai esempli, ed intra
gl'imperadori romani, ed intra gli altri tiranni e principi; dove si vede tanta
incostanzia e tanta variazione di vita, quanta mai non si trovasse in alcuna moltitudine.
Conchiudo adunque, contro alla commune
opinione; la quale dice come i popoli, quando sono principi, sono varii, mutabili ed
ingrati; affermando che in loro non sono altrimenti questi peccati che siano ne' principi
particulari. Ed accusando alcuno i popoli ed i principi insieme, potrebbe dire il vero; ma
traendone i principi, s'inganna: perché un popolo che comandi e sia bene ordinato, sarà
stabile, prudente e grato non altrimenti che un principe, o meglio che un principe,
eziandio stimato savio: e dall'altra parte, un principe, sciolto dalle leggi, sarà
ingrato, vario ed imprudente più che un popolo. E che la variazione del procedere loro
nasce non dalla natura diversa, perché in tutti è a un modo, e, se vi è vantaggio di
bene, è nel popolo; ma dallo avere più o meno rispetto alle leggi, dentro alle quali
l'uno e l'altro vive. E chi considererà il popolo romano, lo vedrà essere stato per
quattrocento anni inimico del nome regio, ed amatore della gloria e del bene commune della
sua patria; vedrà tanti esempli usati da lui, che testimoniano l'una cosa e l'altra. E se
alcuno mi allegasse la ingratitudine ch'egli usò contra a Scipione, rispondo quello che
di sopra lungamente si discorse in questa materia, dove si mostrò i popoli essere meno
ingrati de' principi. Ma quanto alla prudenzia ed alla stabilità, dico, come un popolo è
più prudente, più stabile e di migliore giudizio che un principe. E non sanza cagione si
assomiglia la voce d'un popolo a quella di Dio: perché si vede una opinione universale
fare effetti maravigliosi ne' pronostichi suoi; talché pare che per occulta virtù ei
prevegga il suo male ed il suo bene. Quanto al giudicare le cose, si vede radissime volte,
quando egli ode duo concionanti che tendino in diverse parti, quando ei sono di equale
virtù, che non pigli la opinione migliore, e che non sia capace di quella verità che
egli ode. E se nelle cose gagliarde, o che paiano utili, come di sopra si dice, egli erra;
molte volte erra ancora un principe nelle sue proprie passioni, le quali sono molte più
che quelle de' popoli. Vedesi ancora, nelle sue elezioni ai magistrati, fare, di lunga,
migliore elezione che un principe, né mai si persuaderà a un popolo, che sia bene tirare
alle degnità uno uomo infame e di corrotti costumi: il che facilmente e per mille vie si
persuade a un principe. Vedesi uno popolo cominciare ad avere in orrore una cosa, e molti
secoli stare in quella opinione: il che non si vede in un principe. E dell'una e
dell'altra di queste due cose voglio mi basti per testimone il popolo romano: il quale in
tante centinaia d'anni, in tante elezioni di Consoli e di Tribuni, non fece quattro
elezioni di che quello si avesse a pentire. Ed ebbe, come ho detto, tanto in odio il nome
regio, che nessuno obligo di alcuno suo cittadino, che tentasse quel nome, poté fargli
fuggire le debite pene. Vedesi, oltra di questo, le città, dove i popoli sono principi,
fare in brevissimo tempo augumenti eccessivi, e molto maggiori che quelle che sempre sono
state sotto uno principe: come fece Roma dopo la cacciata de' re, ed Atene da poi che la
si liberò da Pisistrato. Il che non può nascere da altro, se non che sono migliori
governi quegli de' popoli che quegli de' principi. Né voglio che si opponga a questa mia
opinione tutto quello che lo istorico nostro ne dice nel preallegato testo, ed in
qualunque altro; perché, se si discorreranno tutti i disordini de' popoli, tutti i
disordini de' principi, tutte le glorie de' popoli e tutte quelle de' principi, si vedrà
il popolo di bontà e di gloria essere, di lunga, superiore. E se i principi sono
superiori a' popoli nello ordinare leggi, formare vite civili, ordinare statuti ed ordini
nuovi; i popoli sono tanto superiori nel mantenere le cose ordinate, ch'egli aggiungono
sanza dubbio alla gloria di coloro che l'ordinano.
Ed insomma, per conchiudere questa
materia, dico come hanno durato assai gli stati de' principi, hanno durato assai gli stati
delle republiche, e l'uno e l'altro ha avuto bisogno d'essere regolato dalle leggi:
perché un principe che può fare ciò ch'ei vuole, è pazzo; un popolo che può fare cio
che vuole, non è savio. Se, adunque, si ragionerà d'un principe obligato alle leggi, e
d'un popolo incatenato da quelle, si vedrà più virtù nel popolo che nel principe: se si
ragionerà dell'uno e dell'altro sciolto, si vedrà meno errori nel popolo che nel
principe e quelli minori, ed aranno maggiori rimedi. Però che a un popolo licenzioso e
tumultuario, gli può da un uomo buono essere parlato, e facilmente può essere ridotto
nella via buona: a un principe cattivo non è alcuno che possa parlare né vi è altro
rimedio che il ferro. Da che si può fare coniettura della importanza della malattia
dell'uno e dell'altro: ché se a curare la malattia del popolo bastan le parole, ed a
quella del principe bisogna il ferro, non sarà mai alcuno che non giudichi, che, dove
bisogna maggior cura, siano maggiori errori. Quando un popolo è bene sciolto, non si
temano le pazzie che quello fa, né si ha paura del male presente, ma di quel che ne può
nascere, potendo nascere, infra tanta confusione, uno tiranno. Ma ne' principi cattivi
interviene il contrario: che si teme il male presente, e nel futuro si spera;
persuadendosi gli uomini che la sua cattiva vita possa fare surgere una libertà. Sì che
vedete la differenza dell'uno e dell'altro, la quale è quanto, dalle cose che sono, a
quelle che hanno a essere. Le crudeltà della moltitudine sono contro a chi ei temano che
occupi il bene commune: quelle d'un principe sono contro a chi ei temano che occupi il
bene proprio. Ma la opinione contro ai popoli nasce perché de' popoli ciascuno dice male
sanza paura e liberamente, ancora mentre che regnano: de' principi si parla sempre con
mille paure e mille rispetti. Né mi pare fuor di proposito, poiché questa materia mi vi
tira, disputare, nel seguente capitolo, di quali confederazioni altri si possa più
fidare; o di quelle fatte con una republica, o di quelle fatte con uno principe.
Capitolo 59
Di quale confederazione o lega altri si può più
fidare; o di quella fatta con una republica, o di quella fatta con uno principe.
Perché, ciascuno dì, occorre che l'uno principe con l'altro, o l'una republica con l'altra, fanno lega ed amicizia insieme: ed ancora similmente si contrae confederazione ed accordo intra una republica ed uno principe: mi pare da esaminare qual fede è più stabile, e di quale si debba tenere più conto, o di quella d'una republica, o di quella d'uno principe. Io, esaminando tutto, credo che in molti casi ei sieno simili ed in alcuni vi sia qualche disformità. Credo, per tanto, che gli accordi fatti per forza non ti saranno né da uno principe né da una republica osservati; credo che, quando la paura dello stato venga, l'uno e l'altro, per non lo perdere, ti romperà la fede, e ti userà ingratitudine. Demetrio, quel che fu chiamato espugnatore delle cittadi, aveva fatto agli Ateniesi infiniti beneficii: occorse dipoi, che, sendo rotto da' suoi inimici, e rifuggendosi in Atene come in città amica ed a lui obligata, non fu ricevuto da quella: il che gli dolse assai più che non aveva fatto la perdita delle genti e dello esercito suo. Pompeio, rotto che fu da Cesare in Tessaglia, si rifuggì in Egitto a Tolomeo, il quale era per lo adietro da lui stato rimesso nel regno; e fu da lui morto. Le quali cose si vede che ebbero le medesime cagioni: nondimeno fu più umanità usata e meno ingiuria dalla republica, che dal principe. Dove è, pertanto, la paura, si troverrà in fatto la medesima fede. E se si troverrà o una republica o uno principe, che, per osservarti la fede, aspetti di rovinare, può nascere questo ancora da simili cagioni. E quanto al principe, può molto bene occorrere che egli sia amico d'uno principe potente, che, se bene non ha occasione allora di difenderlo, ei può sperare che col tempo ei lo ristituisca nel principato suo; o veramente che, avendolo seguito come partigiano, ei non creda trovare né fede né accordi con il nimico di quello. Di questa sorte sono stati quegli principi del reame di Napoli, che hanno seguite le parti franciose. E quanto alle republiche, fu di questa sorte Sagunto in Ispagna, che aspettò la rovina per seguire le parti romane; e di questa Firenze, per seguire nel 1512 le parti franciose. E credo, computato ogni cosa, che in questi casi, dove è il pericolo urgente, si troverrà qualche stabilità più nelle republiche, che ne' principi. Perché, sebbene le republiche avessero quel medesimo animo e quella medesima voglia che uno principe, lo avere il moto loro tardo, farà che le perranno sempre più a risolversi che il principe, e per questo perranno più a rompere la fede di lui. Romponsi le confederazioni per lo utile. In questo le republiche sono, di lunga, più osservanti degli accordi, che i principi. E potrebbesi addurre esempli, dove uno minimo utile ha fatto rompere la fede a uno principe, e dove una grande utilità non ha fatto rompere la fede a una republica: come fu quello partito che propose Temistocle agli Ateniesi, a' quali nella concione disse che aveva uno consiglio da fare alla loro patria grande utilità, ma non lo poteva dire per non lo scoprire, perché, scoprendolo, si toglieva la occasione del farlo. Onde il popolo di Atene elesse Aristide, al quale si comunicasse la cosa, e secondo dipoi che paresse a lui se ne diliberasse: al quale Temistocle mostrò come l'armata di tutta Grecia, ancora che la stesse sotto la fede loro, era in lato che facilmente si poteva guadagnare o distruggere; il che faceva gli Ateniesi al tutto arbitri di quella provincia. Donde Aristide riferì al popolo, il partito di Temistocle essere utilissimo ma disonestissimo: per la quale cosa il popolo al tutto lo ricusò. Il che non arebbe fatto Filippo Macedone, e gli altri principi che più utile hanno cerco e guadagnato con il rompere la fede, che con alcuno altro modo. Quanto a rompere i patti per qualche cagione di inosservanzia, di questo io non parlo, come di cosa ordinaria; ma parlo di quelli che si rompono per cagioni istraordinarie: dove io credo, per le cose dette, che il popolo facci minori errori che il principe, e per questo si possa fidar più di lui che del principe.
Capitolo 60
Come il consolato e qualunque altro magistrato in Roma
si dava sanza rispetto di età.
Ei si vede per l'ordine della istoria, come la Republica romana, poiché il Consolato venne nella Plebe, concesse quello ai suoi cittadini sanza rispetto di età o di sangue; ancora che il rispetto della età mai non fusse in Roma, ma sempre si andò a trovare la virtù, o in giovane o in vecchio che la fusse. Il che si vede per il testimone di Valerio Corvino, che fu fatto Consolo in ventitré anni: e Valerio detto, parlando ai suoi soldati, disse come il Consolato era "praemium virtutis, non sanguinis". La quale cosa se fu bene considerata o no, sarebbe da disputare assai. E quanto al sangue, fu concesso questo per necessità; e quella necessità che fu in Roma, sarebbe in ogni città che volesse fare gli effetti che fece Roma, come altra volta si è detto: perché e' non si può dare agli uomini disagio sanza premio, né si può tôrre loro la speranza di conseguire il premio sanza pericolo. E però a buona ora convenne che la Plebe avessi speranza di avere il Consolato: e di questa speranza si nutrì un pezzo sanza averlo; dipoi non bastò la speranza, che e' convenne che si venisse allo effetto. Ma la città che non adopera la sua plebe a alcuna cosa gloriosa, la può trattare a suo modo come altrove si disputò: ma quella che vuol fare quel che fe' Roma, non ha a fare questa distinzione. E dato che così sia, quella del tempo non ha replica anzi è necessaria: perché nello eleggere uno giovane in un grado che abbi bisogno d'una prudenza di vecchio, conviene, avendovelo a eleggere la moltitudine, che a quel grado lo facci pervenire qualche sua notabilissima azione. E quando uno giovane è di tanta virtù, che si sia fatto in qualche cosa notabile conoscere; sarebbe cosa dannosissima che la città non se ne potessi valere allora, e che l'avesse a aspettare che fosse invecchiato con lui quel vigore dell'animo e quella prontezza, della quale in quella età la patria sua si poteva valere: come si valse Roma di Valerio Corvino, di Scipione e di Pompeio, e di molti altri, che trionfarono giovanissimi.