Niccolò Machiavelli

Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio


Capitolo 41
Saltare dalla umiltà alla superbia, dalla piatà alla crudeltà, sanza i debiti mezzi, è cosa imprudente e inutile.

         Oltre agli altri termini male usati da Appio per mantenere la tirannide, non fu di poco momento saltare troppo presto da una qualità a un'altra. Perché l'astuzia sua nello ingannare la plebe simulando d'essere uomo popolare, fu bene usata; furono ancora bene usati i termini che tenne perché i Dieci si avessono a rifare; fu ancora bene usata quella audacia di creare sé stesso contro alla opinione della Nobilità; fu bene usato creare compagni a suo proposito: ma non fu già bene usato, come egli ebbe fatto questo, secondo che disopra dico, mutare, in uno subito, natura; e, di amico, mostrarsi inimico alla plebe; di umano, superbo; di facile, difficile; e farlo tanto presto, che, sanza scusa niuna, ogni uomo avesse a conoscere la fallacia dello animo suo. Perché chi è paruto buono un tempo, e vuole a suo proposito diventar cattivo, lo debbe fare per i debiti mezzi; ed in modo condurvisi con le occasioni, che, innanzi che la diversa natura ti tolga de' favori vecchi, la te ne abbia dati tanti de' nuovi, che tu non venga a diminuire la tua autorità: altrimenti, trovandoti scoperto e sanza amici, rovini.


Capitolo 42
Quanto gli uomini facilmente si possono corrompere.

         Notasi ancora, in questa materia del Decemvirato, quanto facilmente gli uomini si corrompono, e fannosi diventare di contraria natura, quantunque buoni e bene ammaestrati; considerando quanto quella gioventù che Appio si aveva eletta intorno, cominciò a essere amica della tirannide per uno poco di utilità che gliene conseguiva; e come Quinto Fabio, uno del numero de' secondi Dieci, sendo uomo ottimo, accecato da uno poco d'ambizione, e persuaso dalla malignità di Appio, mutò i suoi buoni costumi in pessimi, e diventò simile a lui. Il che esaminato bene, farà tanto più pronti i latori di leggi delle republiche o de' regni a frenare gli appetiti umani, e tôrre loro ogni speranza di potere impune errare.


Capitolo 43
Quegli che combattono per la gloria propria, sono buoni e fedeli soldati.

         Considerasi ancora, per il soprascritto trattato, quanta differenzia è da uno esercito contento e che combatte per la gloria sua, a quello che è male disposto e che combatte per l'ambizione d'altrui. Perché, dove gli eserciti romani solevano sempre essere vittoriosi sotto i Consoli, sotto i Decemviri sempre perderono. Da questo esemplo si può conoscere, in parte, delle cagioni della inutilità de' soldati mercenari; i quali non hanno altra cagione che gli tenga fermi, che un poco di stipendio che tu dai loro. La qual cagione non è né può essere bastante a fargli fedeli, né tanto tuoi amici, che voglino morire per te. Perché in quegli eserciti che non è un'affezione verso di quello per chi e' combattono, che gli faccia diventare suoi partigiani, non mai vi potrà essere tanta virtù che basti a resistere a uno nimico un poco virtuoso. E perché questo amore non può nascere, né questa gara, da altro che da' sudditi tuoi; è necessario, a volere tenere uno stato, a volere mantenere una republica o uno regno, armarsi de' sudditi suoi: come si vede che hanno fatto tutti quelli che con gli eserciti hanno fatto grandi profitti. Avevano gli eserciti romani sotto i Dieci quella medesima virtù; ma perché in loro non era quella medesima disposizione, non facevono gli usitati loro effetti. Ma come prima il magistrato de' Dieci fu spento, e che loro come liberi cominciorono a militare, ritornò in loro il medesimo animo; e per consequente, le loro imprese avevono il loro fine felice, secondo l'antica consuetudine loro.


Capitolo 44
Una moltitudine sanza capo è inutile: e come è non si debbe minacciare prima, e poi chiedere l'autorità.

         Era la plebe romana, per lo accidente di Virginia, ridotta armata nel Monte Sacro. Mandò il Senato suoi ambasciadori a dimandare con quale autorità gli avevano abbandonati i loro capitani, e ridottosi nel Monte. E tanto era stimata l'autorità del Senato, che, non avendo la plebe intra loro capi, niuno si ardiva a rispondere. E Tito Livio dice, che e' non mancava loro materia a rispondere, ma mancava loro chi facesse la risposta. La qual cosa dimostra appunto la inutilità d'una moltitudine sanza capo. Il quale disordine fu conosciuto da Virginio, e per suo ordine si creò venti Tribuni militari, che fossero loro capi, a rispondere e convenire col Senato. Ed avendo chiesto che si mandasse loro Valerio ed Orazio, a' quali loro direbbono la voglia loro, non vi vollono andare se prima i Dieci non deponevano il magistrato: e arrivati sopra il Monte dove era la Plebe, fu domandato loro da quella, che volevano che si creassero i Tribuni della Plebe, e che si avesse a appellare al Popolo da ogni magistrato, e che si dessono loro tutti i Dieci che gli volevono ardere vivi. Laudarono Valerio ed Orazio le prime loro domande; biasimarono l'ultima come impia, dicendo: "Crudelitatem damnatis, in crudelitatem ruitis"; e consigliarongli che dovessono lasciare il fare menzione de' Dieci, e ch'egli attendessero a ripigliare l'autorità e potestà loro: dipoi non mancherebbe loro modo a sodisfarsi. Dove apertamente si conosce quanta stultizia e poca prudenza è domandare una cosa, e dire prima: io voglio fare il tale male con essa; perché non si debbe mostrare l'animo suo, ma vuolsi cercare di ottenere quel suo desiderio in ogni modo. Perché e' basta a domandare a uno l'arme, sanza dire: io ti voglio ammazzare con esse; potendo, poi che tu hai l'arme in mano, soddisfare allo appetito tuo.


Capitolo 45
È cosa di malo esemplo non osservare una legge fatta, e massime dallo autore d'essa; e rinfrescare ogni di' nuove ingiurie in una città, è, a chi la governa, dannosissimo.

         Seguito lo accordo, e ridotta Roma in l'antica sua forma, Virginio citò Appio innanzi al Popolo, a difendere la sua causa. Quello comparse accompagnato da molti nobili: Virginio comandò che fusse messo in prigione. Cominciò Appio a gridare, ed appellare al Popolo. Virginio diceva che non era degno di avere quella appellagione che egli aveva distrutta, ed avere per difensore quel Popolo che egli aveva offeso: Appio replicava, come e' non avevano a violare quella appellagione che gli aveva con tanto desiderio ordinata. Pertanto egli fu incarcerato, ed avanti al dì del giudizio ammazzò se stesso. E benché la scelerata vita di Appio meritasse ogni supplicio, nondimeno fu cosa poco civile violare le leggi, e tanto più quella che era fatta allora. Perché io non credo che sia cosa di più cattivo esemplo in una republica, che fare una legge e non la osservare; e tanto più, quanto la non è osservata da chi l'ha fatta. Essendo Firenze, dopo al 94, stata riordinata nello stato suo con lo aiuto di frate Girolamo Savonerola, gli scritti del quale mostrono la dottrina, la prudenza, e la virtù dello animo suo; ed avendo, intra le altre costituzioni per assicurare i cittadini, fatto fare una legge, che si potesse appellare al Popolo dalle sentenzie che, per casi di stato, gli Otto e la Signoria dessono; la quale legge persuase più tempo, e con difficultà grandissima ottenne; occorse che, poco dopo la confermazione d'essa, furono condannati a morte dalla Signoria, per conto di stato, cinque cittadini; e volendo quegli appellare, non furono lasciati, e non fu osservata la legge. Il che tolse più riputazione a quel frate, che alcuno altro accidente: perché, se quella appellagione era utile, e' doveva farla osservare, se la non era utile, non doveva farla vincere. E tanto più fu notato questo accidente, quanto che il frate, in tante predicazioni che fece poi che fu rotta questa legge, non mai o dannò chi l'aveva rotta, o lo scusò; come quello che dannare non la voleva come cosa che gli tornava a proposito, e scusare non la poteva. Il che avendo scoperto l'animo suo ambizioso e partigiano, gli tolse riputazione, e dettegli assai carico.
         Offende ancora uno stato assai, rinfrescare ogni dì nello animo de' tuoi cittadini nuovi umori per nuove ingiurie che a questo e quello si facciano: come intervenne a Roma dopo il Decemvirato. Perché tutti i Dieci, ed altri cittadini in diversi tempi, furono accusati e condennati; in modo che gli era uno spavento grandissimo in tutta la Nobilità, giudicando che e' non si avesse mai a porre fine a simili condennagioni, fino a tanto che tutta la Nobilità non fusse distrutta. Ed arebbe generato, in quella città, grande inconveniente, se da Marco Duellio tribuno non vi fusse stato proveduto; il quale fece uno editto, che per uno anno non fusse lecito a alcuno citare o accusare alcuno cittadino romano: il che rassicurò tutta la Nobilità. Dove si vede quanto sia dannoso a una republica o a un principe, tenere con le continove pene ed offese sospesi e paurosi gli animi de' sudditi. E sanza dubbio non si può tenere il più pernizioso ordine: perché gli uomini che cominciono a dubitare di avere a capitare male, in ogni modo si assicurano ne' pericoli, e diventono più audaci, e meno respettivi a tentare cose nuove. Però è necessario o non offendere mai alcuno, o fare le offese a un tratto: e dipoi rassicurare gli uomini, e dare loro cagione di quietare e fermare l'animo.


Capitolo 46
Li uomini salgono da una ambizione a un'altra; e prima si cerca non essere offeso, dipoi si offende altrui.

         Avendo il Popolo romano recuperata la libertà e ritornato nel suo pristino grado ed in tanto maggiore quanto si erano fatte di molte leggi nuove in confermazione della sua potenza; pareva ragionevole che Roma qualche volta quietassi. Nondimeno, per esperienza si vide in contrario; perché ogni dì vi surgeva nuovi tumulti e nuove discordie. E perché Tito Livio prudentissimamente rende la ragione donde questo nasceva, non mi pare se non a proposito referire appunto le sue parole, dove dice che sempre o il Popolo o la Nobilità insuperbiva, quando l'altro si umiliava; e stando la plebe quieta intra i termini suoi, cominciarono i giovani nobili a ingiuriarla; ed i Tribuni vi potevon fare pochi rimedi, perché, loro anche, erano violati. La Nobilità, dall'altra parte, ancora che gli paresse che la sua gioventù fusse troppo feroce, nonpertanto aveva a caro che, avendosi a trapassare il modo, lo trapassassono i suoi, e non la plebe. E così il disiderio di difendere la libertà faceva che ciascuno tanto si prevaleva ch'egli oppressava l'altro. E l'ordine di questi accidenti è che, mentre che gli uomini cercono di non temere, cominciono a fare temere altrui; e quella ingiuria che gli scacciano da loro, la pongono sopra un altro; come se fusse necessario offendere o essere offeso. Vedesi, per questo, in quale modo, fra gli altri, le republiche si risolvono, ed in che modo gli uomini salgono da un'ambizione a un'altra, e come quella sentenza sallustiana, posta in bocca di Cesare, e verissima: "quod omnia mala exempla bonis initiis orta sunt". Cercono, come di sopra è detto, quegli cittadini che ambiziosamente vivono in una republica, la prima cosa, di non potere essere offesi, non solamente dai privati, ma etiam da' magistrati: cercono, per poter fare questo, amicizie; e quelle acquistano per vie in apparenza oneste, o con sovvenire di danari, o con difenderli da' potenti: e perché questo pare virtuoso, inganna facilmente ciascuno, e per questo non vi si pone rimedi; in tanto che lui, sanza ostaculo perseverando, diventa di qualità che i privati cittadini ne hanno paura, ed i magistrati gli hanno rispetto. E quando egli è salito a questo grado, e non si sia prima ovviato alla sua grandezza, viene a essere in termine, che volerlo urtare è pericolosissimo, per le ragioni che io dissi, di sopra, del pericolo ch'è nello urtare un inconveniente che abbi di già fatto assai augumento in una città: tanto che la cosa si riduce in termine che bisogna, o cercare di spegnerlo con pericolo d'una subita rovina, o, lasciandolo fare, entrare in una servitù manifesta, se morte o qualche accidente non te ne libera. Perché, venuto a' soprascritti termini, che i cittadini e magistrati abbino paura a offendere lui e gli amici suoi, non dura dipoi molta fatica a fare che giudichino ed offendino a suo modo. Donde una republica intra gli ordini suoi debbe avere questo, di vegghiare che i suoi cittadini, sotto ombra di bene non possino fare male; e ch'egli abbino quella riputazione che giovi, e non nuoca, alla libertà, come nel suo luogo da noi sarà disputato.


Capitolo 47
Gli uomini, come che s'ingannino ne' generali, ne' particulari non s'ingannono.

         Essendosi il Popolo romano, come di sopra si disse, recato a noia il nome consolare, e volendo che potessono essere fatti Consoli uomini plebei, o che fusse diminuita la loro autorità; la Nobilità, per non maculare l'autorità consolare né con l'una né con l'altra cosa, prese una via di mezzo, e fu contenta che si creassi quattro Tribuni con potestà consolare, i quali potessono essere così plebei come nobili. Fu contenta a questo la plebe, parendole spegnere il Consolato, ed avere in questo sommo grado la parte sua. Nacquene di questo uno caso notabile: che, venendosi alla creazione di questi Tribuni, e potendosi creare tutti plebei, furono dal Popolo romano creati tutti nobili. Onde Tito Livio dice queste parole: "Quorum comitiorum eventus docuit, alios animos in contentione libertatis et honoris, alios secundum deposita certamina in incorrupto iudicio esse". Ed esaminando donde possa procedere questo, credo proceda che gli uomini nelle cose generali s'ingannono assai, nelle particulari non tanto. Pareva generalmente alla Plebe romana di meritare il Consolato, per avere più parte in la città, per portare più pericolo nelle guerre, per essere quella che con le braccia sue manteneva Roma libera, e la faceva potente. E parendogli, come è detto, questo suo desiderio ragionevole, volse ottenere questa autorità in ogni modo. Ma come la ebbe a fare giudicio degli uomini suoi particularmente, conobbe la debolezza di quegli, e giudicò che nessuno di loro meritasse quello che tutta insieme gli pareva meritare. Talché, vergognatasi di loro, ricorse a quegli che lo meritavano. Della quale diliberazione maravigliandosi meritamente Tito Livio, dice queste parole: "Hanc modestiam aequitatemque et altitudinem animi, ubi nunc in uno inveneris, quae tunc populi universi fuit?".
         In confirmazione di questo, se ne può addurre un altro notabile esemplo, seguito in Capova da poi che Annibale ebbe rotti i Romani a Canne. Per la quale rotta sendo tutta sollevata Italia, Capova ancora stava per tumultuare, per l'odio che era intra 'l popolo ed il Senato: e trovandosi in quel tempo nel supremo magistrato Pacuvio Calano, e conoscendo il pericolo che portava quella città di tumultuare, disegnò con suo grado riconciliare la Plebe con la Nobilità; e fatto questo pensiero, fece ragunare il Senato, e narrò loro l'odio che il popolo aveva contro di loro, ed i pericoli che portavano di essere ammazzati da quello, e data la città a Annibale, sendo le cose de' Romani afflitte: dipoi soggiunse che, se volevano lasciare governare questa cosa a lui, farebbe in modo che si unirebbono insieme; ma gli voleva serrare dentro al palagio, e, col fare potestà al popolo di potergli gastigare, salvargli. Cederono a questa sua opinione i Senatori; e quello chiamò il popolo a concione, avendo rinchiuso in palagio il Senato; e disse com'egli era venuto il tempo che potevano domare la superbia della Nobilità, e vendicarsi delle ingiurie ricevute da quella, avendogli rinchiusi tutti sotto la sua custodia: ma perché credeva che loro non volessono che la loro città rimanessi sanza governo, era necessario, volendo ammazzare i Senatori vecchi, crearne de' nuovi: e per tanto aveva messo tutti i nomi de' Senatori in una borsa, e comincerebbe a tragli in loro presenza; e gli farebbe, i tratti, di mano in mano morire, come prima loro avessono trovato il successore. E cominciato a trarne uno, fu al nome di quello levato uno romore grandissimo, chiamandolo uomo superbo, crudele ed arrogante: e chiedendo Pacuvio che facessono lo scambio, si racchetò tutta la concione; e dopo alquanto spazio, fu nominato uno della plebe; al nome del quale chi cominciò a fischiare, chi a ridere, chi a dirne male in uno modo, e chi in uno altro. E così seguitando di mano in mano, tutti quegli che furono nominati, gli giudicavano indegni del grado senatorio. Di modo che Pacuvio, preso sopra questo occasione, disse: Poiché voi giudicate che questa città stia male sanza il Senato, e, a fare gli scambi a' Senatori vecchi non vi accordate, io penso che sia bene che voi vi riconciliate insieme; perché questa paura in la quale i Senatori sono stati, gli arà fatti in modo raumiliare che quella umanità che voi cercavi altrove, troverrete in loro. Ed accordatisi a questo, ne seguì la unione di questo ordine; e quello inganno in che egli erano si scoperse, come e' furno costretti venire a' particulari. Ingannonsi, oltra di questo, i popoli generalmente nel giudicare le cose e gli accidenti di esse; le quali, dipoi si conoscono particularmente, mancano di tale inganno.
         Dopo il 1494, sendo stati i principi della città cacciati da Firenze, e non vi essendo alcuno governo ordinato, ma più tosto una certa licenza ambiziosa, ed andando le cose publiche di male in peggio; molti popolari, veggendo la rovina della città, e non ne intendendo altra cagione, ne accusavano la ambizione di qualche potente che nutrisse i disordini, per potere fare uno stato a suo proposito, e tôrre loro la libertà; e stavano questi tali per le logge e per le piazze, dicendo male di molti cittadini, minacciandogli che, se mai si trovassino de' Signori, scoprirebbero questo loro inganno, e gli gastigarebbero. Occorreva spesso che di simili ne ascendeva al supremo magistrato; e come egli era salito in quel luogo, e che vedeva le cose più da presso, conosceva i disordini donde nascevano, ed i pericoli che soprastavano, e la difficultà del rimediarvi. E veduto come i tempi, e non gli uomini, causavano il disordine, diventava subito d'un altro animo, e d'un'altra fatta; perché la cognizione delle cose particulari gli toglieva via quello inganno che nel considerarle generalmente si aveva presupposto. Dimodoché, quelli che lo avevano prima, quando era privato, sentito parlare, e vedutolo poi nel supremo magistrato stare quieto, credevono che nascessi, non per più vera cognizione delle cose, ma perché fusse stato aggirato e corrotto dai grandi. Ed accadendo questo a molti uomini, e molte volte, ne nacque tra loro uno proverbio che diceva: Costoro hanno uno animo in piazza, ed uno in palazzo. Considerando, dunque, tutto quello si è discorso, si vede come e' si può fare tosto aprire gli occhi a' popoli, trovando modo, veggendo che uno generale gl'inganna, ch'egli abbino a discendere a' particulari; come fece Pacuvio in Capova, ed il Senato in Roma. Credo ancora, che si possa conchiudere, che mai un uomo prudente non debba fuggire il giudicio populare nelle cose particulari, circa le distribuzioni de' gradi e delle dignità: perché solo in questo il popolo non s'inganna; e se s'inganna qualche volta, fia sì rado, che s'inganneranno più volte i pochi uomini che avessono a fare simili distribuzioni. Né mi pare superfluo mostrare, nel seguente capitolo, l'ordine che teneva il Senato per ingannare il popolo nelle distribuzioni sue.


Capitolo 48
Chi vuole che uno magistrato non sia dato a uno vile o a uno cattivo, lo facci domandare o a uno troppo vile e troppo cattivo o a uno troppo nobile e troppo buono.

         Quando il Senato dubitava che i Tribuni con potestà consolare non fussero fatti d'uomini plebei, teneva uno de' due modi: o egli faceva domandare ai più riputati uomini di Roma; o veramente, per i debiti mezzi, corrompeva qualche plebeio vile ed ignobilissimo, che mescolati con i plebei che, di migliore qualità, per l'ordinario se lo domandavano, anche loro lo domandassono. Questo ultimo modo faceva che la plebe si vergognava a darlo; quel primo faceva che la si vergognava a torlo. Il che tutto torna a proposito del precedente discorso, dove si mostra che il popolo, se s'inganna de' generali, de' particulari non s'inganna.


Capitolo 49
Se quelle cittadi che hanno avuto il principio libero, come roma, hanno difficultà a trovare legge che le mantenghino: quelle che lo hanno immediate servo, ne hanno quasi una impossibilità.

         Quanto sia difficile, nello ordinare una republica, provedere a tutte quelle leggi che la mantengono libera, lo dimostra assai bene il processo della Republica romana: dove, non ostante che fussono ordinate di molte leggi da Romolo prima, dipoi da Numa, da Tullo Ostilio e Servio, ed ultimamente dai dieci cittadini creati a simile opera; nondimeno sempre nel maneggiare quella città si scoprivono nuove necessità, ed era necessario creare nuovi ordini: come intervenne quando crearono i Censori i quali furono uno di quegli provvedimenti che aiutarono tenere Roma libera, quel tempo che la visse in libertà. Perché, diventati arbitri de' costumi di Roma, furono cagione potissima che i Romani differissono più a corrompersi. Feciono bene nel principio della creazione di tale magistrato uno errore, creando quello per cinque anni; ma, dipoi non molto tempo, fu corretto dalla prudenza di Mamerco dittatore, il quale per nuova legge ridusse detto magistrato a diciotto mesi. Il che i Censori, che vegghiavano ebbero tanto per male, che privarono Mamerco del Senato: la quale cosa e dalla Plebe e dai Padri fu assai biasimata. E perché la istoria non mostra che Mamerco se ne potessi difendere, conviene o che lo istorico sia difettivo, o gli ordini di Roma in questa parte non buoni: perché e' non è bene che una republica sia in modo ordinata, che uno cittadino per promulgare una legge conforme al vivere libero, ne possa essere, sanza alcuno rimedio, offeso. Ma tornando al principio di questo discorso, dico che si debbe, per la creazione di questo nuovo magistrato, considerare che, se quelle città che hanno avuto il principio loro libero, e che per sé medesimo si è retto, come Roma, hanno difficultà grande a trovare leggi buone per mantenerle libere; non è maraviglia che quelle città che hanno avuto il principio loro immediate servo, abbino, non che difficultà, ma impossibilità a ordinarsi mai in modo che le possino vivere civilmente e quietamente. Come si vede che è intervenuto alla città di Firenze; la quale, per avere avuto il principio suo sottoposto allo Imperio romano, ed essendo vivuta sempre sotto il governo d'altrui, stette un tempo abietta, e sanza pensare a sé medesima: dipoi, venuta la occasione di respirare, cominciò a fare suoi ordini; i quali sendo mescolati con gli antichi, che erano cattivi, non poterono essere buoni: e così è ita maneggiandosi, per dugento anni che si ha di vera memoria, sanza avere mai avuto stato, per il quale la possa veramente essere chiamata republica. E queste difficultà, che sono state in lei, sono state sempre in tutte quelle città che hanno avuto i principii simili a lei. E, benché molte volte, per suffragi pubblici e liberi, si sia data ampla autorità a pochi cittadini di potere riformarla; non pertanto non mai l'hanno ordinata a comune utilità, ma sempre a proposito della parte loro: il che ha fatto, non ordine, ma maggiore disordine in quella città. E per venire a qualche esemplo particulare, dico come, intra le altre cose che si hanno a considerare da uno ordinatore d'una republica è esaminare nelle mani di quali uomini ei ponga l'autorità del sangue contro de' suoi cittadini. Questo era bene ordinato in Roma, perché e' si poteva appellare al Popolo ordinariamente: e se pure fosse occorso cosa importante, dove il differire la esecuzione mediante l'appellagione fusse pericoloso, avevano il refugio del Dittatore, il quale eseguiva immediate; al quale rimedio non refuggivano mai, se non per necessità. Ma Firenze, e le altre città nate nel modo di lei, sendo serve, avevano questa autorità collocata in uno forestiero, il quale, mandato dal principe, faceva tale ufficio. Quando dipoi vennono in libertà, mantennono questa autorità in uno forestiero, il quale chiamavono capitano: il che, per potere essere facilmente corrotto da' cittadini potenti, era cosa perniziosissima. Ma dipoi, mutandosi per la mutazione degli stati questo ordine, crearono otto cittadini che facessino l'uffizio di quel capitano. El quale ordine, di cattivo, diventò pessimo, per le ragioni che altre volte sono dette; che i pochi furono sempre ministri de' pochi, e de' più potenti. Da che si è guardata la città di Vinegia; la quale ha dieci cittadini, che, sanza appello, possono punire ogni cittadino. E perché e' non basterebbono a punire i potenti, ancora che ne avessino autorità, vi hanno constituito la Quarantia: e di più, hanno voluto che il Consiglio de' Pregai, che è il Consiglio maggiore, possa gastigargli; in modo che, non vi mancando lo accusatore, non vi manca il giudice a tenere gli uomini potenti a freno. Non è adunque maraviglia, veggendo come in Roma, ordinata da sé medesima e da tanti uomini prudenti, surgevano ogni dì nuove cagioni per le quali si aveva a fare nuovi ordini in favore del viver libero; se nell'altre città, che hanno più disordinato principio, vi surgano tante difficultà, che le non si possino riordinarsi mai.


Capitolo 50
Non debba uno consiglio o uno magistrato potere fermare le azioni delle città.

         Erano consoli in Roma Tito Quinzio Cincinnato e Gneo Giulio Mento, i quali, sendo disuniti, avevono ferme tutte le azioni di quella Republica. Il che veggendo il Senato, gli confortava a creare il Dittatore, per fare quello che per le discordie loro non potevon fare. Ma i Consoli, discordando in ogni altra cosa, solo in questo erano d'accordo, di non volere creare il Dittatore. Tanto che il Senato, non avendo altro rimedio, ricorse allo aiuto de' Tribuni; i quali, con l'autorità del Senato, sforzarono i Consoli a ubbidire. Dove si ha a notare, in prima, la utilità del Tribunato; il quale non era solo utile a frenare l'ambizione che i potenti usavano contro alla Plebe, ma quella ancora ch'egli usavano infra loro: l'altra, che mai si debbe ordinare in una città, che i pochi possino tenere alcuna diliberazione di quelle che ordinariamente sono necessarie a mantenere la republica. Verbigrazia, se tu dài una autorità a uno consiglio di fare una distribuzione di onori e d'utile, o ad uno magistrato di amministrare una faccenda; conviene o imporgli una necessità perché ci l'abbia a fare in ogni modo, o ordinare, quando non la voglia fare egli, che la possa e debba fare uno altro: altrimenti, questo ordine sarebbe difettivo e pericoloso; come si vedeva che era in Roma, se alla ostinazione di quegli Consoli non si poteva opporre l'autorità de' Tribuni. Nella Republica viniziana il Consiglio grande distribuisce gli onori e gli utili: occorreva alle volte che l'universalità, per isdegno o per qualche falsa persuasione, non creava i successori a' magistrati della città, ed a quelli che fuori amministravano lo imperio loro. Il che era disordine grandissimo: perché in un tratto, e le terre suddite e la città propria mancavano de' suoi legittimi giudici, né si poteva ottenere cosa alcuna, se quella universalità di quel Consiglio o non si soddisfaceva o non si sgannava. Ed avrebbe ridotta questo inconveniente quella città a mal termine, se dagli cittadini prudenti non vi si fusse proveduto: i quali, presa occasione conveniente, fecero una legge, che tutti i magistrati che sono o fusseno dentro e fuori della città, mai vacassero, se non quando fussono fatti gli scambi e i successori loro. E così si tolse la commodità a quel Consiglio di potere, con pericolo della republica, fermare le azioni publiche.


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