Niccolò Machiavelli

Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio


Capitolo 21
Quanto biasimo meriti quel principe e quella republica che manca d'armi proprie.

         Debbono i presenti principi e le moderne republiche, le quali circa le difese ed offese mancano di soldati propri, vergognarsi di loro medesime; e pensare con lo esemplo di Tullo, tale difetto essere, non per mancamento di uomini atti alla milizia, ma per colpa sua, che non han saputo fare i suoi uomini militari. Perché Tullo, sendo stata Roma in pace quarant'anni, non trovò, succedendo egli nel regno, uomo che fusse stato mai in guerra: nondimeno, disegnando esso fare guerra, non pensò valersi né de' Sanniti, né de' Toscani, né di altri che fussero consueti stare nell'armi, ma diliberò, come uomo prudentissimo, di valersi de' suoi. E fu tanta la sua virtù, che in un tratto, sotto il suo governo gli poté fare soldati eccellentissimi. Ed è più vero che alcuna altra verità, che, se dove è uomini non è soldati, nasce per difetto del principe, e non per altro difetto o di sito o di natura. Di che ce n'è un esemplo freschissimo. Perché ognuno sa, come ne' prossimi tempi il re d'Inghilterra assaltò il regno di Francia, né prese altri soldati che popoli suoi; e, per essere stato quel regno più che trenta anni sanza fare guerra, non aveva né soldati né capitano che avesse mai militato: nondimeno, non dubitò con quelli assaltare uno regno pieno di capitani e di buoni eserciti, i quali erano stati continovamente sotto l'armi nelle guerre d'Italia. Tutto nacque da essere quel re prudente uomo, e quel regno bene ordinato; il quale nel tempo della pace non intermette gli ordini della guerra.
         Pelopida ed Epaminonda tebani, poiché gli ebbero libera Tebe, e trattala della servitù dello imperio spartano, trovandosi in una città usa a servire, ed in mezzo di popoli effeminati; non dubitarono, tanta era la virtù loro, di ridurgli sotto l'armi, e con quelli andare a trovare alla campagna gli eserciti spartani, e vincergli: e chi ne scrive, dice come questi duoi in brieve tempo mostrarono che non solamente in Lacedemonia nascevano gli uomini da guerra, ma in ogni altra parte dove nascessi uomini, pure che si trovasse chi li sapesse indirizzare alla milizia, come si vede che Tullo seppe indirizzare i Romani. E Virgilio non potrebbe meglio esprimere questa opinione, né con altre parole mostrare di accostarsi a quella, dove dice:

                                          desidesque movebit
               Tullus in arma viros.


Capitolo 22
Quello che sia da notare nel caso de' tre Orazii romani e tre Curiazii albani.

         Tullo re di Roma, e Mezio, re di Alba, convennero che quello popolo fusse signore dell'altro, di cui i soprascritti tre uomini vincessero. Furono morti tutti i Curiazii albani, restò vivo uno degli Orazii romani: e per questo restò Mezio re albano, con il suo popolo suggetto a' Romani. E tornando quello Orazio vincitore in Roma, scontrando una sua sorella, che era a uno de' tre Curiazii morti maritata, che piangeva la morte del marito, l'ammazzò. Donde quello Orazio per questo fallo fu messo in giudizio, e dopo molte dispute fu libero, più per li prieghi del padre, che per li suoi meriti. Dove sono da notare tre cose: l'una, che mai non si debbe con parte delle sue forze arrischiare tutta la sua fortuna; l'altra, che non mai in una città bene ordinata le colpe con gli meriti si ricompensano; la terza, che non mai sono i partiti savi, dove si debba o possa dubitare della inosservanza. Perché, gl'importa tanto a una città lo essere serva, che mai non si doveva credere che alcuno di quelli re o di quelli popoli stessero contenti che tre loro cittadini gli avessero sottomessi: come si vide che volle fare Mezio, il quale, benché subito dopo la vittoria de' Romani si confessassi vinto, e promettessi la ubbidienza a Tullo, nondimeno nella prima espedizione che gli ebbero a convenire contro a' Veienti, si vide come ei cercò d'ingannarlo; come quello che tardi si era avveduto della temerità del partito preso da lui. E perché di questo terzo notabile se n'è parlato assai, parlereno solo degli altri due ne' seguenti duoi capitoli.


Capitolo 23
Che non si debbe mettere a pericolo tutta la fortuna e non tutte le forze; e, per questo, spesso il guardare i passi è dannoso.

         Non fu mai giudicato partito savio mettere a pericolo tutta la fortuna tua e non tutte le forze. Questo si fa in più modi. L'uno è faccendo come Tullo e Mezio, quando e' commissono la fortuna tutta della patria loro, e la virtù di tanti uomini quanti aveva l'uno e l'altro di costoro negli eserciti suoi alla virtù e fortuna di tre de' loro cittadini, che veniva a essere una minima parte delle forze di ciascuno di loro. Né si avvidono, come per questo partito tutta la fatica che avevano durata i loro antecessori nell'ordinare la republica, per farla vivere lungamente libera e per fare i suoi cittadini difensori della loro libertà, era quasi che stata vana, stando nella potenza di sì pochi a perderla. La quale cosa da quelli re non poté essere peggio considerata.
         Cadesi ancora in questo inconveniente quasi sempre per coloro, che, venendo il nimico, disegnano di tenere i luoghi difficili, e guardare i passi: perché quasi sempre questa diliberazione sarà dannosa, se già in quello luogo difficile commodamente tu non potesse tenere tutte le forze tue. In questo caso, tale partito è da prendere; ma sendo il luogo aspro, e non vi potendo tenere tutte le forze, il partito è dannoso. Questo mi fa giudicare così lo esemplo di coloro, che, essendo assaltati da un inimico potente, ed essendo il paese loro circundato da' monti e luoghi alpestri, non hanno mai tentato di combattere il nimico in su' passi ed in su' monti, ma sono iti a rincontrarlo di là da essi; o, quando non hanno voluto fare questo, lo hanno aspettato dentro a essi monti, in luoghi benigni e non alpestri. E la cagione ne è stata la preallegata: perché, non si potendo condurre alla guardia de' luoghi alpestri molti uomini, sì per non vi potere vivere lungo tempo, sì per essere i luoghi stretti e capaci di pochi, non è possibile sostenere uno inimico che venga grosso a urtarti: ed al nimico è facile il venire grosso perché la intenzione sua è passare, e non fermarsi, ed a chi l'aspetta è impossibile aspettarlo grosso, avendo ad alloggiarsi per più tempo, non sappiendo quando il nimico voglia passare in luoghi, come io ho detto, stretti e sterili. Perdendo, adunque, quel passo che tu ti avevi presupposto tenere, e nel quale i tuoi popoli e lo esercito tuo confidava, entra il più delle volte ne' popoli e nel residuo delle genti tua tanto terrore, che, sanza potere esperimentare la virtù d'esse, rimani perdente; e così vieni a avere perduta tutta la tua fortuna con parte delle tue forze.
         Ciascuno sa con quanta difficultà Annibale passasse l'alpe che dividono la Lombardia dalla Francia, e con quanta difficultà passasse quelle che dividono la Lombardia dalla Toscana: nondimeno i Romani l'aspettarono prima in sul Tesino, e dipoi nel piano d'Arezzo: e vollon, più tosto, che il loro esercito fusse consumato da il nimico nelli luoghi dove poteva vincere, che condurlo su per l'alpe a essere distrutto dalla malignità del sito.
         E chi leggerà sensatamente tutte le istorie, troverrà pochissimi virtuosi capitani avere tentato di tenere simili passi, e per le ragioni dette, e perché e' non si possono chiudere tutti, sendo i monti come campagne, ed avendo non solamente le vie consuete e frequentate, ma molte altre le quali, se non sono note a' forestieri, sono note a paesani; con l'aiuto de' quali sempre sarai condotto in qualunque luogo, contro alla voglia di chi ti si oppone. Di che se ne può addurre uno freschissimo esemplo, nel 1515. Quando Francesco re di Francia disegnava passare in Italia per la recuperazione dello stato di Lombardia, il maggior fondamento che facevono coloro ch'erano alla sua impresa contrari, era che gli Svizzeri lo terrebbono a' passi in su' monti. E, come per esperienza poi si vidde, quel loro fondamento restò vano: perché, lasciato quel Re da parte dua o tre luoghi guardati da loro, se ne venne per un'altra via incognita; e fu prima in Italia, e loro apresso, che lo avessono presentito. Talché loro sbigottiti si ritirarono in Milano, e tutti i popoli di Lombardia si accostarono alle genti franciose; sendo mancati di quella opinione avevano, che i Franciosi devessono essere ritenuti in su' monti.


Capitolo 24
Le republiche bene ordinate costituiscono premii e pene a' loro cittadini, né compensono mai l'uno con l'altro.

         Erano stati i meriti di Orazio grandissimi, avendo con la sua virtù vinti i Curiazii: era stato il fallo suo atroce, avendo morto la sorella: nondimeno dispiacque tanto tale omicidio a' Romani, che lo condussono a disputare della vita, non ostante che gli meriti suoi fossero tanto grandi e sì freschi. La quale cosa, a chi superficialmente la considerasse, parrebbe un esemplo d'ingratitudine popolare: nondimeno, chi la esamina meglio e con migliore considerazione ricerca quali debbono essere gli ordini delle republiche, biasimerà quel popolo più tosto per averlo assoluto che per averlo voluto condannare. E la ragione è questa, che nessuna republica bene ordinata non mai cancellò i demeriti con gli meriti de' suoi cittadini; ma avendo ordinati i premii a una buona opera e le pene a una cattiva ed avendo premiato uno per avere bene operato, se quel medesimo opera dipoi male, lo gastiga, sanza avere riguardo alcuno alle sue buone opere. E quando questi ordini sono bene osservati, una città vive libera molto tempo: altrimenti sempre rovinerà tosto. Perché, se a un cittadino che abbia fatto qualche egregia opera per la città, si aggiugne, oltre alla riputazione che quella cosa gli arreca, una audacia e confidenza di poter, senza temere pena, fare qualche opera non buona, diventerà in brieve tempo tanto insolente che si risolverà ogni civilità.
         È bene necessario, volendo che sia tenuta la pena per le malvagie opere, osservare i premii per le buone, come si vide che fece Roma. E benché una republica sia povera, e possa dare poco, debbe da quel poco non astenersi, perché sempre ogni piccol dono, dato ad alcuno per ricompenso di bene ancora che grande, sarà stimato, da chi lo riceve, onorevole e grandissimo. È notissima la istoria di Orazio Cocle, e quella di Muzio Scevola: come l'uno sostenne i nimici sopra un ponte, tanto che si tagliasse; l'altro si arse la mano, che aveva errato, volendo ammazzare Porsenna, re degli Toscani. A costoro per queste due opere tanto egregie fu donato dal pubblico due staiora di terra per ciascuno. È nota ancora la istoria di Manlio Capitolino. A costui, per avere salvato il Campidoglio da' Franciosi che vi erano a campo, fu dato, da quelli che insieme con lui vi erano assediati dentro, una piccola misura di farina. Il quale premio, secondo la fortuna che allora correva in Roma fu grande; e di qualità che, mosso poi Manlio o da invidia o dalla sua cattiva natura, a fare nascere sedizione in Roma e cercando guadagnarsi il popolo, fu, sanza rispetto alcuno de' suoi meriti, gittato precipite da quello Campidoglio che esso prima, con tanta sua gloria, avea salvo.


Capitolo 25
Chi vuole riformare uno stato anticato in una città libera, ritenga almeno l'ombra de' modi antichi.

         Colui che desidera o che vuole riformare uno stato d'una città, a volere che sia accetto, e poterlo con satisfazione di ciascuno mantenere, è necessitato a ritenere l'ombra almanco de' modi antichi, acciò che a' popoli non paia avere mutato ordine, ancorché, in fatto, gli ordini nuovi fussero al tutto alieni dai passati; perché lo universale degli uomini si pascono così di quel che pare come di quello che è: anzi, molte volte si muovono più per le cose che paiono che per quelle che sono. Per questa cagione i Romani, conoscendo nel principio del loro vivere libero questa necessità, avendo in cambio d'uno re creati duoi consoli, non vollono ch'egli avessono più che dodici littori, per non passare il numero di quelli che ministravano ai re. Oltre a di questo, faccendosi in Roma uno sacrificio anniversario, il quale non poteva essere fatto se non dalla persona del re, e volendo i Romani che quel popolo non avesse a desiderare per la assenzia degli re alcuna cosa delle antiche; crearono uno capo di detto sacrificio, il quale loro chiamarono Re Sacrificulo, e sottomessonlo al sommo Sacerdote: talmente che quel popolo per questa via venne a sodisfarsi di quel sacrificio, e non avere mai cagione, per mancamento di esso, di disiderare la ritornata de' re. E questo si debbe osservare da tutti coloro che vogliono scancellare un antico vivere in una città, e ridurla a uno vivere nuovo e libero: perché, alterando le cose nuove le menti degli uomini, ti debbi ingegnare che quelle alterazioni ritenghino più dello antico sia possibile; e se i magistrati variano, e di numero e d'autorità e di tempo, degli antichi, che almeno ritenghino il nome. E questo, come ho detto, debbe osservare colui che vuole ordinare uno vivere politico, o per via di republica o di regno: ma quello che vuole fare una potestà assoluta, la quale dagli autori è chiamata tirannide, debbe rinnovare ogni cosa, come nel seguente capitolo si dirà.


Capitolo 26
Uno principe nuovo, in una città o provincia presa da lui, debbe fare ogni cosa nuova.

         Qualunque diventa principe o d'una città o d'uno stato, e tanto più quando i fondamenti suoi fussono deboli e non si volga o per via di regno o di republica alla vita civile, il megliore rimedio che egli abbia, a tenere quel principato, è, sendo egli nuovo principe, fare ogni cosa, in quello stato, di nuovo: come è, nelle città, fare nuovi governi con nuovi nomi, con nuove autorità, con nuovi uomini; fare i ricchi poveri, i poveri ricchi come fece Davit quando ei diventò re: "qui esurientes implevit bonis, et divites dimisit inanes"; edificare, oltra di questo, nuove città, disfare delle edificate, cambiare gli abitatori da un luogo a un altro; ed in somma, non lasciare cosa niuna intatta in quella provincia e che non vi sia né grado, né ordine né stato, né ricchezza, che chi la tiene non la riconosca da te; e pigliare per sua mira Filippo di Macedonia, padre di Alessandro, il quale, con questi modi, di piccol re, diventò principe di Grecia. E chi scrive di lui, dice che tramutava gli uomini di provincia in provincia, come e' mandriani tramutano le mandrie loro. Sono questi modi crudelissimi, e nimici d'ogni vivere, non solamente cristiano, ma umano; e debbegli qualunque uomo fuggire, e volere piuttosto vivere privato, che re con tanta rovina degli uomini; nondimeno, colui che non vuole pigliare quella prima via del bene, quando si voglia mantenere conviene che entri in questo male. Ma gli uomini pigliono certe vie del mezzo, che sono dannosissime; perché non sanno essere né tutti cattivi né tutti buoni: come nel seguente capitolo, per esemplo, si mosterrà.


Capitolo 27
Sanno rarissime volte gli uomini essere al tutto cattivi o al tutto buoni.

         Papa Iulio secondo, andando nel 1505 a Bologna, per cacciare di quello stato la casa de' Bentivogli, la quale aveva tenuto il principato di quella città cento anni, voleva ancora trarre Giovampagolo Baglioni di Perugia, della quale era tiranno, come quello che aveva congiurato contro a tutti i tiranni che occupavano le terre della Chiesa. E pervenuto presso a Perugia con questo animo e deliberazione, nota a ciascuno, non aspettò di entrare in quella città con lo esercito suo, che lo guardasse, ma vi entrò disarmato, non ostante vi fusse drento Giovampagolo con gente assai, quale per difesa di sé aveva ragunata. Sì che, portato da quel furore con il quale governava tutte le cose, con la semplice sua guardia si rimisse nelle mani del nimico; il quale dipoi ne menò seco, lasciando un governatore in quella città, che rendesse ragione per la Chiesa. Fu notata, dagli uomini prudenti che col papa erano, la temerità del papa e la viltà di Giovampagolo; né potevono estimare donde si venisse che quello non avesse, con sua perpetua fama, oppresso ad un tratto il nimico suo, e sé arricchito di preda, sendo col papa tutti li cardinali, con tutte le loro delizie. Né si poteva credere si fusse astenuto o per bontà o per conscienza che lo ritenesse; perché in uno petto d'un uomo facinoroso, che si teneva la sorella, che aveva morti i cugini e i nipoti per regnare, non poteva scendere alcun pietoso rispetto: ma si conchiuse, nascesse che gli uomini non sanno essere onorevolmente cattivi, o perfettamente buoni, e, come una malizia ha in sé grandezza, o è in alcuna parte generosa, e' non vi sanno entrare.
         Così Giovampagolo, il quale non stimava essere incesto e publico parricida, non seppe, o, a dir meglio, non ardì, avendone giusta occasione, fare una impresa, dove ciascuno avesse ammirato l'animo suo, e avesse di sé lasciato memoria eterna, sendo il primo che avesse dimostro a' prelati, quanto sia da stimare poco chi vive e regna come loro ed avessi fatto una cosa, la cui grandezza avesse superato ogni infamia, ogni pericolo, che da quella potesse dependere.


Capitolo 28
Per quale cagione i Romani furono meno ingrati contro agli loro cittadini che gli Ateniesi.

Qualunque legge le cose fatte dalle republiche, troverrà in tutte qualche spezie d'ingratitudine contro a' suoi cittadini: ma ne troverrà meno in Roma che in Atene, e per avventura in qualunque altra republica. E ricercando la cagione di questo, parlando di Roma e d'Atene credo accadessi perché i Romani avevano meno cagione di sospettare de' suoi cittadini, che gli Ateniesi. Perché a Roma, ragionando di lei dalla cacciata de' Re infino a Silla e Mario, non fu mai tolta la libertà da alcuno suo cittadino in modo che in lei non era grande cagione di sospettare di loro, e, per conseguente, di offendergli inconsideratamente. Intervenne bene ad Atene il contrario; perché, sendogli tolta La libertà da Pisistrato nel suo più florido tempo, e sotto uno inganno di bontà; come prima la diventò poi libera, ricordandosi delle ingiurie ricevute e della passata servitù, diventò prontissima vendicatrice, non solamente degli errori, ma della ombra degli errori de' suoi cittadini. Quinci nacque lo esilio e la morte di tanti eccellenti uomini, quinci l'ordine dell'ostracismo, ed ogni altra violenza che contro a' suoi ottimati in varii tempi da quella città fu fatta. Ed è verissimo quello che dicono questi scrittori della civilità: che i popoli mordono più fieramente poi ch'egli hanno recuperata la libertà, che poi che l'hanno conservata. Chi considererà, adunque, quanto è detto, non biasimerà in questo Atene, né lauderà Roma; ma ne accuserà solo la necessità, per la diversità degli accidenti che in queste città nacquero. Perché si vedrà, chi considererà le cose sottilmente che, se a Roma fusse stata tolta la libertà come a Atene, non sarebbe stata Roma più pia verso i suoi cittadini, che si fusse quella. Di che si può fare verissima coniettura per quello che occorse, dopo la cacciata de' re, contro a Collatino ed a Publio Valerio: de' quali il primo, ancora che si trovasse a liberare Roma, fu mandato in esilio non per altra cagione che per tenere il nome de' Tarquinii; l'altro, avendo solo dato di sé sospetto per edificare una casa in sul monte Celio, fu ancora per esser fatto esule. Talché si può stimare, veduto quanto Roma fu in questi due sospettosa e severa, che l'arebbe usata la ingratitudine come Atene, se da' suoi cittadini come quella, ne' primi tempi ed innanzi allo augumento suo, fusse stata ingiuriata. E per non avere a tornare più sopra questa materia della ingratitudine, ne dirò, quello ne occorrerà, nel seguente capitolo.


Capitolo 29
Quale sia più ingrato, o uno popolo o uno principe.

        Egli mi pare, a proposito della soprascritta materia, da discorrere quale usi con maggiori esempli questa ingratitudine, o uno popolo o uno principe. E per disputare meglio questa parte, dico, come questo vizio della ingratitudine nasce o dall'avarizia o da il sospetto. Perché, quando o uno popolo o uno principe ha mandato fuori uno suo capitano in una espedizione importante, dove quel capitano, vincendola, ne abbi acquistata assai gloria, quel principe o quel popolo è tenuto allo incontro a premiarlo: e se, in cambio di premio, o e' lo disonora o e' l'offende, mosso dall'avarizia, non volendo, ritenuto da questa cupidità, satisfarli; fa uno errore che non ha scusa, anzi si tira dietro una infamia eterna. Pure si truova molti principi che ci peccono. E Cornelio Tacito dice, con questa sentenzia, la cagione: "Proclivius est iniuriae, quam beneficio vicem exsolvere, quia gratia oneri, ultio in questu habetur". Ma quando ei non lo premia, o, a dir meglio, l'offende, non mosso da avarizia ma da sospetto, allora merita, e il popolo e il principe, qualche scusa. E di queste ingratitudini, usate per tale cagione, se ne legge assai: perché quello capitano il quale virtuosamente ha acquistato uno imperio al suo signore, superando i nimici, e riempiendo sé di gloria e gli suoi soldati di ricchezze, di necessità, e con i soldati suoi, e con i nimici, e con i sudditi propri di quel principe, acquista tanta riputazione, che quella vittoria non può sapere di buono a quel signore che lo ha mandato. E perché la natura degli uomini è ambiziosa e sospettosa, e non sa porre modo a nessuna sua fortuna, è impossibile che quel sospetto che subito nasce nel principe dopo la vittoria di quel suo capitano, non sia da quel medesimo accresciuto per qualche suo modo o termine usato insolentemente. Talché il principe non può pensare a altro che assicurarsene: e, per fare questo, ei pensa o di farlo morire o di torgli la riputazione, che si ha guadagnata nel suo esercito o ne' suoi popoli; e con ogni industria mostrare che quella vittoria è nata non per la virtù di quello ma per fortuna, o per viltà de' nimici, o per prudenza degli altri capi che sono stati seco in tale fazione.
         Poiché Vespasiano, sendo in Giudea fu dichiarato dal suo esercito imperadore, Antonio Primo, che si trovava con un altro esercito in Illiria, prese le parti sue, e vennene in Italia contro a Vitellio, quale regnava a Roma, e virtuosissimamente ruppe dua eserciti Vitelliani, e occupò Roma, talché Muziano, mandato da Vespasiano, trovò, per la virtù d'Antonio, acquistato il tutto, e vinta ogni difficultà. Il premio che Antonio ne riportò, fu che Muziano gli tolse subito la ubbidienza dello esercito, e a poco a poco lo ridusse in Roma sanza alcuna autorità: talché Antonio ne andò a trovare Vespasiano, quale era ancora in Asia, dal quale fu in modo ricevuto, che, in breve tempo, ridotto in nessuno grado, quasi disperato morì. E di questi esempli ne sono piene le istorie. Ne' nostri tempi, ciascuno che al presente vive, sa con quanta industria e virtù Consalvo Ferrante, militando nel regno di Napoli contro a' Franciosi, per Ferrando re di Ragona, conquistassi e vincessi quel regno; e come, per premio di vittoria, ne riportò che Ferrando si partì da Ragona, e, venuto a Napoli, in prima gli levò la ubbidienza delle genti d'armi, dipoi gli tolse le fortezze, ed appresso lo menò seco in Spagna; dove, poco tempo poi, inonorato, morì. È tanto, dunque, naturale questo sospetto ne' principi, che non se ne possono difendere; ed è impossibile ch'egli usino gratitudine a quelli che con vittoria hanno fatto, sotto le insegne loro, grandi acquisti.
         E da quello che non si difende un principe, non è miracolo, né cosa degna di maggior memoria, se uno popolo non se ne difende. Perché, avendo una città che vive libera, duoi fini, l'uno lo acquistare, l'altro il mantenersi libera; conviene che nell'una cosa e nell'altra per troppo amore erri. Quanto agli errori nello acquistare, se ne dirà nel luogo suo. Quanto agli errori per mantenersi libera, sono, intra gli altri, questi: di offendere quegli cittadini che la doverrebbe premiare; avere sospetto di quegli in cui la si doverrebbe confidare. E benché questi modi in una republica venuta alla corruzione sieno cagione di gran mali, e che molte volte piuttosto la viene alla tirannide, come intervenne a Roma di Cesare, che per forza si tolse quello che la ingratitudine gli negava; nondimeno in una republica non corrotta sono cagione di gran beni, e fanno che la ne vive libera; più mantenendosi, per paura di punizione, gli uomini migliori e meno ambiziosi. Vero è che infra tutti i popoli che mai ebbero imperio, per le cagioni di sopra discorse, Roma fu la meno ingrata: perché della sua ingratitudine si può dire che non ci sia altro esemplo che quello di Scipione; perché Coriolano e Cammillo furono fatti esuli per ingiuria che l'uno e l'altro avea fatto alla plebe. Ma all'uno non fu perdonato, per aversi sempre riserbato contro al popolo l'animo inimico; l'altro, non solamente fu richiamato, ma per tutti i tempi della sua vita adorato come principe. Ma la ingratitudine usata a Scipione nacque da uno sospetto che i cittadini cominciarono avere di lui, che degli altri non si era avuto: il quale nacque dalla grandezza del nimico che Scipione aveva vinto, dalla riputazione che gli aveva data la vittoria di sì lunga e pericolosa guerra, dalla celerità di essa, dai favori che la gioventù, la prudenza, e le altre sue memorabili virtudi gli acquistavano. Le quali cose furono tante, che, non che altro, i magistrati di Roma temevano della sua autorità: la quale cosa dispiaceva agli uomini savi, come cosa inusitata in Roma. E parve tanto straordinario il vivere suo, che Catone Prisco, riputato santo, fu il primo a fargli contro; e a dire che una città non si poteva chiamare libera, dove era uno cittadino che fusse temuto dai magistrati. Talché se il popolo di Roma seguì in questo caso la opinione di Catone, merita quella scusa che di sopra ho detto meritare quegli popoli e quegli principi che per sospetto sono ingrati. Conchiudendo adunque questo discorso, dico che, usandosi questo vizio della ingratitudine o per avarizia o per sospetto, si vedrà come i popoli non mai per avarizia la usarono, e per sospetto assai manco che i principi, avendo meno cagione di sospettare: come di sotto si dirà.


Capitolo 30
Quali modi debbe usare uno principe o una republica per fuggire questo vizio della ingratitudine; e quali quel capitano o quel cittadino per non essere oppresso da quella.

         Uno principe, per fuggire questa necessità di avere a vivere con sospetto, o essere ingrato, debbe personalmente andare nelle espedizioni, come facevono nel principio quegli imperadori romani, come fa ne' tempi nostri il Turco, e come hanno fatto e fanno quegli che sono virtuosi. Perché, vincendo, la gloria e lo acquisto è tutto loro, e quando ei non vi sono, sendo la gloria d'altrui, non par loro potere usare quello acquisto, se non spengano in altrui quella gloria che loro non hanno saputo guadagnarsi; e diventono ingrati ed ingiusti: e sanza dubbio è maggiore la loro perdita che il guadagno. Ma quando, o per negligenza o per poca prudenza, e' si rimangono a casa oziosi, e mandano uno capitano; io non ho che precetto dare loro, altro che quello che per loro medesimi si sanno. Ma dico bene a quel capitano, giudicando io che non possa fuggire i morsi della ingratitudine, che facci una delle due cose: o subito dopo la vittoria lasci lo esercito, e rimettasi nelle mani del suo principe, guardandosi da ogni atto insolente o ambizioso, acciocché quello, spogliato d'ogni sospetto, abbia cagione o di premiarlo o di non lo offendere; o, quando questo non gli paia di fare, prenda animosamente la parte contraria, e tenga tutti quelli modi per li quali creda che quello acquisto sia suo proprio e non del principe suo, faccendosi benivoli i soldati ed i sudditi; e facci nuove amicizie co' vicini, occupi con li suoi uomini le fortezze, corrompa i principi del suo esercito, e di quelli che non può corrompere si assicuri; e per questi modi cerchi di punire il suo signore di quella ingratitudine che esso gli userebbe. Altre vie non ci sono: ma, come di sopra si disse, gli uomini non sanno essere né al tutto tristi, né al tutto buoni; e sempre interviene che, subito dopo la vittoria, lasciare lo esercito non vogliono, portarsi modestamente non possono, usare termini violenti e che abbiano in sé l'onorevole non sanno; talché, stando ambigui, intra quella loro dimora ed ambiguità, sono oppressi.
         Quanto a una republica, volendo fuggire questo vizio dello ingrato, non si può dare il medesimo rimedio che al principe; cioè che vadia, e non mandi, nelle espedizioni sue, sendo necessitata a mandare uno suo cittadino. Conviene, pertanto, che per rimedio io le dia, che la tenga i medesimi modi che tenne la Republica romana a essere meno ingrata che l'altre. Il che nacque dai modi del suo governo. Perché, adoperandosi tutta la città, e gli nobili e gli ignobili, nella guerra, surgeva sempre in Roma in ogni età tanti uomini virtuosi, ed ornati di varie vittorie, che il popolo non aveva cagione di dubitare d'alcuno di loro, sendo assai, e guardando l'uno l'altro. E in tanto si mantenevano interi e respettivi di non dare ombra di alcuna ambizione né cagione al popolo, come ambiziosi, l'offendergli, che, venendo alla dittatura quello maggiore gloria ne riportava che più tosto la diponeva. E così, non potendo simili modi generare sospetto, non generavano ingratitudine. In modo che, una republica che non voglia avere cagione d'essere ingrata, si debba governare come Roma, e uno cittadino che voglia fuggire quelli suoi morsi, debbe osservare i termini osservati da' cittadini romani.


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