Niccolò Machiavelli
Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio
Capitolo 11
Della religione de' Romani.
Avvenga che Roma
avesse il primo suo ordinatore Romolo, e che da quello abbi a riconoscere, come figliuola,
il nascimento e la educazione sua, nondimeno, giudicando i cieli che gli ordini di Romolo
non bastassero a tanto imperio, inspirarono nel petto del Senato romano di eleggere Numa
Pompilio per successore a Romolo, acciocché quelle cose che da lui fossero state lasciate
indietro, fossero da Numa ordinate. Il quale, trovando uno popolo ferocissimo, e volendolo
ridurre nelle obedienze civili con le arti della pace, si volse alla religione, come cosa
al tutto necessaria a volere mantenere una civiltà; e la constituì in modo, che per più
secoli non fu mai tanto timore di Dio quanto in quella republica; il che facilitò
qualunque impresa che il Senato o quelli grandi uomini romani disegnassero fare. E chi
discorrerà infinite azioni, e del popolo di Roma tutto insieme, e di molti de' Romani di
per sé, vedrà come quelli cittadini temevono più assai rompere il giuramento che le
leggi; come coloro che stimavano più la potenza di Dio, che quella degli uomini: come si
vede manifestamente per gli esempli di Scipione e di Manlio Torquato. Perché, dopo la
rotta che Annibale aveva dato ai Romani a Canne, molti cittadini si erano adunati insieme,
e, sbigottiti della patria, si erano convenuti abbandonare la Italia, e girsene in
Sicilia; il che sentendo Scipione, gli andò a trovare, e col ferro ignudo in mano li
costrinse a giurare di non abbandonare la patria. Lucio Manlio, padre di Tito Manlio, che
fu dipoi chiamato Torquato, era stato accusato da Marco Pomponio, Tribuno della plebe, ed
innanzi che venisse il dì del giudizio, Tito andò a trovare Marco, e, minacciando di
ammazzarlo se non giurava di levare l'accusa al padre, lo costrinse al giuramento; e
quello, per timore avendo giurato, gli levò l'accusa. E così quelli cittadini i quali lo
amore della patria, le leggi di quella, non ritenevano in Italia, vi furono ritenuti da un
giuramento che furano forzati a pigliare; e quel Tribuno pose da parte l'odio che egli
aveva col padre, la ingiuria che gli avea fatto il figliuolo, e l'onore suo, per ubbidire
al giuramento preso: il che non nacque da altro, che da quella religione che Numa aveva
introdotta in quella città.
E vedesi, chi considera bene le istorie
romane, quanto serviva la religione a comandare gli eserciti, a animire la Plebe, a
mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare i rei. Talché, se si avesse a disputare a
quale principe Roma fusse più obligata, o a Romolo o a Numa, credo più tosto Numa
otterrebbe il primo grado: perché, dove è religione, facilmente si possono introdurre
l'armi e dove sono l'armi e non religione, con difficultà si può introdurre quella. E si
vede che a Romolo, per ordinare il Senato, e per fare altri ordini civili e militari, non
gli fu necessario dell'autorità di Dio; ma fu bene necessario a Numa, il quale simulò di
avere domestichezza con una Ninfa, la quale lo consigliava di quello ch'egli avesse a
consigliare il popolo: e tutto nasceva perché voleva mettere ordini nuovi ed inusitati in
quella città, e dubitava che la sua autorità non bastasse.
E veramente, mai fu alcuno ordinatore di
leggi straordinarie in uno popolo che non ricorresse a Dio; perché altrimente non
sarebbero accettate: perché sono molti i beni conosciuti da uno prudente, i quali non
hanno in sé ragioni evidenti da poterli persuadere a altrui. Però gli uomini savi, che
vogliono tôrre questa difficultà, ricorrono a Dio. Così fece Licurgo, così Solone,
così molti altri che hanno avuto il medesimo fine di loro. Maravigliando, adunque, il
Popolo romano la bontà e la prudenza sua, cedeva ad ogni sua diliberazione. Ben è vero
che l'essere quelli tempi pieni di religione, e quegli uomini, con i quali egli aveva a
travagliare, grossi, gli dettono facilità grande a conseguire i disegni suoi, potendo
imprimere in loro facilmente qualunque nuova forma. E sanza dubbio, chi volesse ne'
presenti tempi fare una republica più facilità troverrebbe negli uomini montanari, dove
non è alcuna civilità, che in quelli che sono usi a vivere nelle cittadi, dove la
civilità è corrotta: ed uno scultore trarrà più facilmente una bella statua d'un marmo
rozzo, che d'uno male abbozzato da altrui.
Considerato adunque tutto, conchiudo che
la religione introdotta da Numa fu intra le prime cagioni della felicità di quella
città: perché quella causò buoni ordini; i buoni ordini fanno buona fortuna; e dalla
buona fortuna nacquero i felici successi delle imprese. E come la osservanza del culto
divino è cagione della grandezza delle republiche, così il dispregio di quello è
cagione della rovina d'esse. Perché, dove manca il timore di Dio, conviene o che quel
regno rovini, o che sia sostenuto dal timore d'uno principe che sopperisca a' difetti
della religione. E perché i principi sono di corta vita, conviene che quel regno manchi
presto, secondo che manca la virtù d'esso. Donde nasce che gli regni i quali dipendono
solo dalla virtù d'uno uomo, sono poco durabili, perché quella virtù manca con la vita
di quello e rade volte accade che la sia rinfrescata con la successione, come
prudentemente Dante dice:
Rade volte discende per li rami
l'umana probitate; e questo vuole
quel che la da', perche' da lui si chiami.
Non è, adunque, la salute di una republica o d'uno regno avere uno principe che prudentemente governi mentre vive; ma uno che l'ordini in modo, che, morendo ancora, la si mantenga. E benché agli uomini rozzi più facilmente si persuada uno ordine o una opinione nuova, non è però per questo impossibile persuaderla ancora agli uomini civili e che presumono non essere rozzi. Al popolo di Firenze non pare essere né ignorante né rozzo: nondimeno da frate Girolamo Savonarola fu persuaso che parlava con Dio. Io non voglio giudicare s'egli era vero o no, perché d'uno tanto uomo se ne debbe parlare con riverenza: ma io dico bene, che infiniti lo credevono sanza avere visto cosa nessuna straordinaria, da farlo loro credere; perché la vita sua la dottrina e il suggetto che prese, erano sufficienti a fargli prestare fede. Non sia, pertanto, nessuno che si sbigottisca di non potere conseguire quel che è stato conseguito da altri; perché gli uomini, come nella prefazione nostra si disse, nacquero, vissero e morirono, sempre, con uno medesimo ordine.
Capitolo 12
Di quanta importanza sia tenere conto della religione,
e come la Italia, per esserne mancata mediante la chiesa romana, è rovinata.
Quelli principi o
quelle republiche, le quali si vogliono mantenere incorrotte, hanno sopra ogni altra cosa
a mantenere incorrotte le cerimonie della loro religione, e tenerle sempre nella loro
venerazione; perché nessuno maggiore indizio si puote avere della rovina d'una provincia,
che vedere dispregiato il culto divino. Questo è facile a intendere, conosciuto che si è
in su che sia fondata la religione dove l'uomo è nato; perché ogni religione ha il
fondamento della vita sua in su qualche principale ordine suo. La vita della religione
Gentile era fondata sopra i responsi degli oracoli e sopra la setta degli indovini e degli
aruspici: tutte le altre loro cerimonie sacrifici e riti, dependevano da queste perché
loro facilmente credevono che quello Iddio che ti poteva predire il tuo futuro bene o il
tuo futuro male, te lo potessi ancora concedere. Di qui nascevano i templi, di qui i
sacrifici, di qui le supplicazioni, ed ogni altra cerimonia in venerarli: perché
l'oracolo di Delo, il tempio di Giove Ammone, ed altri celebri oracoli, i quali riempivano
il mondo di ammirazione e divozione. Come costoro cominciarono dipoi a parlare a modo de'
potenti, e che questa falsità si fu scoperta ne' popoli, diventarono gli uomini
increduli, ed atti a perturbare ogni ordine buono. Debbono, adunque i principi d'una
republica o d'uno regno, i fondamenti della religione che loro tengono, mantenergli; e
fatto questo sarà loro facil cosa mantenere la loro republica religiosa, e, per
conseguente buona e unita. E debbono, tutte le cose che nascano in favore di quella come
che le giudicassono false, favorirle e accrescerle; e tanto più lo debbono fare quanto
più prudenti sono, e quanto più conoscitori delle cose naturali. E perché questo modo
è stato osservato dagli uomini savi, ne è nato l'opinione dei miracoli, che si celebrano
nelle religioni eziandio false; perché i prudenti gli augumentano, da qualunque principio
e' si nascano; e l'autorità loro dà poi a quelli fede appresso a qualunque. Di questi
miracoli ne fu a Roma assai; intra i quali fu, che, saccheggiando i soldati romani la
città de' Veienti, alcuni di loro entrarono nel tempio di Giunone, ed accostandosi alla
imagine di quella, e dicendole: "Vis venire Romam?" parve a alcuno vedere che la
accennasse a alcuno altro che la dicesse di sì. Perché sendo quegli uomini ripieni di
religione (il che dimostra Tito Livio, perché, nello entrare nel tempio, vi entrarono
sanza tumulto, tutti devoti e pieni di riverenza), parve loro udire quella risposta che
alla domanda loro per avventura si avevano presupposta: la quale opinione e credulità da
Cammillo a dagli altri principi della città fu al tutto favorita ed accresciuta. La quale
religione se ne' principi della republica cristiana si fusse mantenuta, secondo che dal
datore d'essa ne fu ordinato, sarebbero gli stati e le republiche cristiane più unite,
più felici assai, che le non sono. Né si può fare altra maggiore coniettura della
declinazione d'essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono più propinqui alla
Chiesa romana, capo della religione nostra hanno meno religione. E chi considerasse i
fondamenti suoi, e vedesse l'uso presente quanto è diverso da quelli, giudicherebbe
essere propinquo, sanza dubbio, o la rovina o il fragello.
E perché molti sono d'opinione, che il
bene essere delle città d'Italia nasca dalla Chiesa romana, voglio, contro a essa,
discorrere quelle ragioni che mi occorrono: e ne allegherò due potentissime ragioni le
quali, secondo me, non hanno repugnanzia. La prima è, che, per gli esempli rei di quella
corte, questa provincia ha perduto ogni divozione e ogni religione: il che si tira dietro
infiniti inconvenienti e infiniti disordini; perché, così come dove è religione si
presuppone ogni bene, così, dove quella manca, si presuppone il contrario. Abbiamo,
adunque, con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obligo, di essere diventati
sanza religione e cattivi: ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda
cagione della rovina nostra. Questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia
divisa. E veramente, alcuna provincia non fu mai unita o felice, se la non viene tutta
alla ubbidienza d'una republica o d'uno principe, come è avvenuto alla Francia ed alla
Spagna. E la cagione che la Italia non sia in quel medesimo termine, né abbia anch'ella o
una republica o uno principe che la governi, è solamente la Chiesa: perché, avendovi
quella abitato e tenuto imperio temporale, non è stata sì potente né di tanta virtù
che l'abbia potuto occupare la tirannide d'Italia e farsene principe; e non è stata,
dall'altra parte, sì debole, che, per paura di non perdere il dominio delle sue cose
temporali, la non abbia potuto convocare uno potente che la difenda contro a quello che in
Italia fusse diventato troppo potente: come si è veduto anticamente per assai esperienze,
quando, mediante Carlo Magno, la ne cacciò i Longobardi, ch'erano già quasi re di tutta
Italia; e quando ne' tempi nostri ella tolse la potenza a' Viniziani con l'aiuto di
Francia; di poi ne cacciò i Franciosi con l'aiuto de' Svizzeri. Non essendo, adunque,
stata la Chiesa potente da potere occupare la Italia, né avendo permesso che un altro la
occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto uno capo; ma è stata sotto
più principi e signori, da' quali è nata tanta disunione e tanta debolezza, che la si è
condotta a essere stata preda, non solamente de' barbari potenti, ma di qualunque
l'assalta. Di che noi altri Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, e non con altri. E chi
ne volesse per esperienza certa vedere più pronta la verità, bisognerebbe che fusse di
tanta potenza che mandasse ad abitare la corte romana, con l'autorità che l'ha in Italia,
in le terre de' Svizzeri; i quali oggi sono, solo, popoli che vivono, e quanto alla
religione e quanto agli ordini militari, secondo gli antichi: e vedrebbe che in poco tempo
farebbero più disordine in quella provincia i rei costumi di quella corte, che qualunque
altro accidente che in qualunque tempo vi potesse surgere.
Capitolo 13
Come i Romani si servivono della religione per
riordinare la città e seguire le loro imprese e fermare i tumulti.
Ei non mi pare fuora
di proposito addurre alcuno esemplo dove i Romani si servivono della religione per
riordinare la città, e per seguire le imprese loro; e quantunque in Tito Livio ne siano
molti, nondimeno voglio essere contento a questi. Avendo creato il Popolo romano i Tribuni
di potestà consolare, e, fuora che uno, tutti plebei; ed essendo occorso, quello anno,
peste e fame, e venuto certi prodigi, usorono questa occasione i Nobili nella nuova
creazione de' Tribuni, dicendo che gl'Iddii erano adirati per avere Roma male usato la
maiestà del suo imperio, e che non era altro rimedio a placare gl'Iddii che ridurre la
elezione de' Tribuni nel luogo suo: di che nacque che la plebe, sbigottita da questa
religione, creò i Tribuni tutti nobili. Vedesi ancora, nella espugnazione della città
de' Veienti, come i capitani degli eserciti si valevano della religione per tenergli
disposti a una impresa; che, essendo il lago Albano, quello anno, cresciuto mirabilmente,
ed essendo i soldati romani infastiditi per la lunga ossidione, e volendo tornarsene a
Roma, trovarono i Romani come Apollo e certi altri risponsi dicevano che quello anno si
espugnerebbe la città de' Veienti, che si derivassi il lago Albano: la quale cosa fece ai
soldati sopportare i fastidi della ossidione, presi da questa speranza di espugnare la
terra: e stettono contenti a seguire la impresa, tanto che Cammillo fatto Dittatore
espugnò detta città, dopo dieci anni che la era stata assediata. E così la religione,
usata bene, giovò e per la espugnazione di quella città, e per la restituzione del
Tribunato nella Nobilità che, sanza detto mezzo, difficilmente si sarebbe condotto e
l'uno e l'altro.
Non voglio mancare di addurre a questo
proposito un altro esemplo. Erano nati in Roma assai tumulti per cagione di Terentillo
tribuno, volendo lui proporre certa legge, per le cagioni che di sotto, nel suo luogo, si
diranno; e tra i primi rimedi che vi usò la Nobilità, fu la religione, della quale si
servirono in due modi. Nel primo, fecero vedere i libri Sibillini, e rispondere come alla
città, mediante la civile sedizione, soprastavano quello anno pericoli di non perdere la
libertà: la quale cosa, ancora che fusse scoperta da' tribuni, nondimeno messe tanto
terrore ne' petti della plebe, che la raffreddò nel seguirli. L'altro modo fu che, avendo
un Appio Erdonio, con una moltitudine di sbanditi e di servi, in numero di quattromila
uomini, occupato di notte il Campidoglio, in tanto che si poteva temere che, se gli Equi e
i Volsci, perpetui inimici al nome romano, ne fossero venuti a Roma, la arebbono
espugnata; e non cessando i tribuni, per questo, continovare nella pertinacia loro, di
proporre la legge Terentilla, dicendo che quello insulto era simulato e non vero; uscì
fuori del Senato un Publio Ruberio, cittadino grave e di autorità, con parole, parte
amorevoli, parte minaccianti, mostrandogli i pericoli della città, e la intempestiva
domanda loro; tanto ch'ei costrinse la plebe a giurare di non si partire dalla voglia del
consolo: tanto che la plebe, ubbidiente, per forza ricuperò il Campidoglio. Ma essendo in
tale espugnazione morto Publio Valerio consolo, subito fu rifatto consolo Tito Quinzio, il
quale, per non lasciare riposare la plebe, né darle spazio a pensare alla legge
Terentilla, le comandò s'uscisse di Roma per andare contro ai Volsci, dicendo che per
quel giuramento aveva fatto di non abbandonare il consolo, era obligata a seguirlo: a che
i tribuni si opponevano, dicendo come quel giuramento s'era dato al consolo morto, e non a
lui. Nondimeno Tito Livio mostra come la Plebe, per paura della religione, volle più
tosto ubbidire al consolo, che credere a' tribuni, dicendo in favore della antica
religione queste parole: "Nondum haec, quae nunc tenet saeculum, negligentia Deum
venerat, nec interpretando sibi quisque jusjurandum et leges aptas faciebat". Per la
quale cosa dubitando i Tribuni di non perdere allora tutta la lor dignità, si accordarono
col consolo di stare alla ubbidienza di quello; e che per uno anno non si ragionasse della
legge Terentilla, ed i Consoli per uno anno non potessero trarre fuori la plebe alla
guerra. E così la religione fece al Senato vincere quelle difficultà, che, sanza essa,
mai averebbe vinte.
Capitolo 14
I Romani interpetravano gli auspizi secondo la
necessità, e con la prudenza mostravano di osservare la religione, quando forzati non la
osservavano; e se alcuno temerariamente la dispregiava, punivano.
Non solamente gli
augurii, come di sopra si è discorso, erano il fondamento, in buona parte, dell'antica
religione de' Gentili, ma ancora erano quelli che erano cagione del bene essere della
Republica romana. Donde i Romani ne avevano più cura che di alcuno altro ordine di
quella; ed usavongli ne' comizi consolari, nel principiare le imprese, nel trar fuora gli
eserciti, nel fare le giornate, ed in ogni azione loro importante, o civile o militare;
né mai sarebbono iti ad una espedizione, che non avessono persuaso ai soldati che gli Dei
promettevano loro la vittoria. Ed in fra gli altri auspicii, avevano negli eserciti certi
ordini di aruspici, ch'e' chiamavano pullarii: e qualunque volta eglino ordinavano di fare
la giornata con il nimico, ei volevano che i pullarii facessono i loro auspicii; e,
beccando i polli, combattevono con buono augurio, non beccando, si astenevano dalla zuffa.
Nondimeno, quando la ragione mostrava loro una cosa doversi fare, non ostante che gli
auspicii fossero avversi, la facevano in ogni modo; ma rivoltavanla con termini e modi
tanto attamente, che non paresse che la facessino con dispregio della religione.
Il quale termine fu usato da Papirio
consolo in una zuffa che ei fece importantissima coi Sanniti, dopo la quale restarono in
tutto deboli ed afflitti. Perché, sendo Papirio in su' campi rincontro ai Sanniti, e
parendogli avere nella zuffa la vittoria certa, e volendo per questo fare la giornata,
comandò ai pullarii che facessono i loro auspicii; ma non beccando i polli, e veggendo il
principe de' pullarii la gran disposizione dello esercito di combattere, e la opinione che
era nel capitano ed in tutti i soldati di vincere, per non tôrre occasione di bene
operare a quello esercito, riferì al consolo come gli auspicii procedevono bene: talché
Papirio, ordinando le squadre, ed essendo da alcuni de' pullarii detto a certi soldati, i
polli non avere beccato, quelli lo dissono a Spurio Papirio nepote del consolo; e quello
riferendolo al consolo, rispose subito, ch'egli attendessi a fare l'ufficio suo bene; che,
quanto a lui ed allo esercito, gli auspicii erano buoni; e se il pullario aveva detto le
bugie, le tornerebbono in pregiudizio suo. E perché lo effetto corrispondesse al
pronostico, comandò ai legati che constituissono i pullarii nella prima fronte della
zuffa. Onde nacque che, andando contro a' nimici, sendo da un soldato romano tratto uno
dardo, a caso ammazzò il principe de' pullarii: la quale cosa udita, il consolo disse
come ogni cosa procedeva bene, e col favore degli Dei; perché lo esercito con la morte di
quel bugiardo s'era purgato da ogni colpa e da ogni ira che quelli avessono presa contro a
di lui. E così, col sapere bene accomodare i disegni suoi agli auspicii, prese partito di
azzuffarsi, sanza che quello esercito si avvedesse che in alcuna parte quello avesse
negletti gli ordini della loro religione.
Al contrario fece Appio Pulcro in
Sicilia, nella prima guerra punica: che, volendo azzuffarsi con l'esercito cartaginese,
fece fare gli auspicii a' pullarii; e riferendogli quelli, come i polli non beccavano,
disse: - Veggiamo se volessero bere! - e gli fece gittare in mare. Donde che azzuffandosi,
perdé la giornata: di che egli fu a Roma condannato, e Papirio onorato, non tanto per
avere l'uno vinto, e l'altro perduto, quanto per avere l'uno fatto contro agli auspicii
prudentemente, e l'altro temerariamente. Né ad altro fine tendeva questo modo dello
aruspicare, che di fare i soldati confidentemente ire alla zuffa; dalla quale confidenza
quasi sempre nasce la vittoria. La qual cosa fu non solamente usata dai Romani, ma dagli
esterni: di che mi pare da addurne uno esemplo nel seguente capitolo.
Capitolo 15
I Sanniti, per estremo rimedio alle cose loro
afflitte, ricorsero alla religione.
Avendo i Sanniti avute più rotte da' Romani, ed essendo stati per ultimo distrutti in Toscana, e morti i loro eserciti e gli loro capitani; ed essendo stati vinti i loro compagni, come Toscani, Franciosi ed Umbri; "nec suis nec externis viribus jam stare poterant, tamen bello non abstinebant adeo ne infeliciter quidem defensae libertatis taedebat, et vinci, quam non tentare victoriam, malebant". Onde deliberarono fare l'ultima prova: e perché ei sapevano che, a volere vincere, era necessario indurre ostinazione negli animi de' soldati, e che a indurvela non era migliore mezzo che la religione; pensarono di ripetere uno antico loro sacrificio, mediante Ovio Paccio, loro sacerdote. Il quale ordinarono in questa forma: che, fatto il sacrificio solenne e fatto, intra le vittime morte e gli altari accesi, giurare tutti i capi dell'esercito di non abbandonare mai la zuffa, citorono i soldati ad uno ad uno: ed intra quegli altari, nel mezzo di più centurioni con le spade nude in mano gli facevano prima giurare che non ridirebbono cosa che vedessono o sentissono; dipoi, con parole esecrabili e versi pieni di spavento, gli facevano promettere agli Dei, d'essere presti dove gl'imperadori gli mandassono, e di non si fuggire mai dalla zuffa, e d'ammazzare qualunque ei vedessono che si fuggisse: la quale cosa non osservata, tornassi sopra il capo della sua famiglia e della sua stirpe. Ed essendo sbigottiti alcuni di loro, non volendo giurare, subito da' loro centurioni erano morti, talché gli altri che succedevono poi, impauriti dalla ferocità dello spettacolo, giurarono tutti. E per fare questo loro assembramento più magnifico, sendo quarantamila uomini, ne vestirono la metà di panni bianchi, con creste e pennacchi sopra le celate; e così ordinati si posero presso ad Aquilonia. Contro a costoro venne Papirio; il quale, nel confortare i suoi soldati, disse: "non enim cristas vulnera facere, et picta atque aurata scuta transire romanum pilum". E per debilitare la opinione che avevono i suoi soldati de' nimici per il giuramento preso, disse che quello era a timore non a fortezza loro; perché in quel medesimo tempo gli avevano avere paura de' cittadini, degl'Iddii, e de' nimici. E venuti al conflitto, furono superati i Sanniti; perché la virtù romana, e il timore conceputo per le passate rotte, superò qualunque ostinazione ei potessero avere presa per virtù della religione e per il giuramento preso. Nondimeno si vede come a loro non parve potere avere altro rifugio, né tentare altro rimedio a potere pigliare speranza di ricuperare la perduta virtù. Il che testifica appieno, quanta confidenza si possa avere mediante la religione bene usata. E benché questa parte più tosto, per avventura, si richiederebbe essere posta intra le cose estrinseche; nondimeno, dependendo da uno ordine de' più importanti della Republica di Roma, mi è parso da connetterlo in questo luogo, per non dividere questa materia e averci a ritornare più volte.
Capitolo 16
Uno popolo, uso a vivere sotto uno principe, se per
qualche accidente diventa libero, con difficultà mantiene la libertà.
Quanta difficultà sia
a uno popolo, uso a vivere sotto uno principe, perservare dipoi la libertà, se per alcuno
accidente l'acquista, come l'acquistò Roma dopo la cacciata de' Tarquinii, lo dimostrono
infiniti esempli che si leggono nelle memorie delle antiche istorie. E tale difficultà è
ragionevole; perché quel popolo è non altrimenti che un animale bruto, il quale, ancora
che di natura feroce e silvestre, sia stato nutrito sempre in carcere ed in servitù; che
dipoi lasciato a sorte in una campagna libero, non essendo uso a pascersi, né sappiendo i
luoghi dove si abbia a rifuggire, diventa preda del primo che cerca rincatenarlo.
Questo medesimo interviene a uno popolo,
il quale, sendo uso a vivere sotto i governi d'altri, non sappiendo ragionare né delle
difese o offese pubbliche, non conoscendo i principi né essendo conosciuto da loro,
ritorna presto sotto uno giogo, il quale il più delle volte è più grave che quello che,
poco inanzi, si aveva levato d'in sul collo: e trovasi in queste difficultà, quantunque
che la materia non sia corrotta. Perché un popolo dove in tutto è entrata la corruzione,
non può, non che piccol tempo, ma punto vivere libero come di sotto si discorrerà: e
però i ragionamenti nostri sono di quelli popoli dove la corruzione non sia ampliata
assai, e dove sia più del buono che del guasto.
Aggiungesi alla soprascritta un'altra
difficultà, la quale è, che lo stato che diventa libero si fa partigiani inimici, e non
partigiani amici. Partigiani inimici gli diventono tutti coloro che dello stato tirannico
si prevalevono, pascendosi delle ricchezze del principe; a' quali sendo tolta la facultà
del valersi, non possono vivere contenti, e sono forzati ciascuno di tentare di ripigliare
la tirannide, per ritornare nell'autorità loro. Non si acquista, come ho detto,
partigiani amici; perché il vivere libero prepone onori e premii, mediante alcune oneste
e determinate cagioni, e fuora di quelle non premia né onora alcuno, e quando uno ha
quegli onori e quegli utili che gli pare meritare, non confessa avere obligo con coloro
che lo rimunerano. Oltre a di questo, quella comune utilità che del vivere libero si
trae, non è da alcuno, mentre che ella si possiede conosciuta: la quale è di potere
godere liberamente le cose sue sanza alcuno sospetto, non dubitare dell'onore delle donne,
di quel de' figliuoli, non temere di sé; perché nessuno confesserà mai avere obligo con
uno che non l'offenda.
Però, come di sopra si dice, viene ad
avere, lo stato libero e che di nuovo surge, partigiani inimici, e non partigiani amici. E
volendo rimediare a questi inconvenienti, e a quegli disordini che le soprascritte
difficultà arrecherebbono seco, non ci è più potente rimedio, né più valido né più
sicuro né più necessario, che ammazzare i figliuoli di Bruto: i quali, come la istoria
mostra, non furono indotti, insieme con altri giovani romani, a congiurare contro alla
patria per altro, se non perché non si potevono valere straordinariamente sotto i consoli
come sotto i re; in modo che la libertà di quel popolo pareva che fosse diventata la loro
servitù. E chi prende a governare una moltitudine, o per via di libertà o per via di
principato, e non si assicura di coloro che a quell'ordine nuovo sono inimici, fa uno
stato di poca vita. Vero è che io giudico infelici quelli principi che, per assicurare lo
stato loro hanno a tenere vie straordinarie, avendo per nimici la moltitudine: perché
quello che ha per nimici i pochi, facilmente e sanza molti scandoli, si assicura, ma chi
ha per nimico l'universale non si assicura mai, e quanta più crudeltà usa tanto più
debole diventa il suo principato. Talché il maggiore rimedio che ci abbia, è cercare di
farsi il popolo amico.
E benché questo discorso sia disforme
dal soprascritto, parlando qui d'uno principe e quivi d'una republica; nondimeno, per non
avere a tornare più in su questa materia, ne voglio parlare brevemente. Volendo,
pertanto, uno principe guadagnarsi uno popolo che gli fosse inimico, parlando di quelli
principi che sono diventati della loro patria tiranni, dico ch'ei debbe esaminare prima
quello che il popolo desidera, e troverrà sempre che desidera due cose: l'una, vendicarsi
contro a coloro che sono cagione che sia servo; l'altra, di riavere la sua libertà. Al
primo desiderio il principe può sodisfare in tutto, al secondo in parte. Quanto al primo,
ce n'è lo esemplo appunto. Clearco, tiranno di Eraclea, sendo in esilio, occorse che, per
controversia venuta intra il popolo e gli ottimati di Eraclea, che, veggendosi gli
ottimati inferiori, si volsono a favorire Clearco e congiuratisi seco lo missono, contro
alla disposizione popolare, in Eraclea e tolsono la libertà al popolo. In modo che,
trovandosi Clearco intra la insolenzia degli ottimati, i quali non poteva in alcuno modo
né contentare né correggere, e la rabbia de' popolari, che non potevano sopportare lo
avere perduta la libertà, diliberò a un tratto liberarsi dal fastidio de' grandi, e
guadagnarsi il popolo. E presa, sopr'a questo, conveniente occasione, tagliò a pezzi
tutti gli ottimati, con una estrema sodisfazione de' popolari. E così egli per questa via
sodisfece a una delle voglie che hanno i popoli, cioè di vendicarsi. Ma quanto all'altro
popolare desiderio, di riavere la sua libertà, non potendo il principe sodisfargli, debbe
esaminare quali cagioni sono quelle che gli fanno desiderare d'essere liberi; e troverrà
che una piccola parte di loro desidera di essere libera per comandare; ma tutti gli altri,
che sono infiniti, desiderano la libertà per vivere sicuri. Perché in tutte le
republiche, in qualunque modo ordinate, ai gradi del comandare non aggiungono mai quaranta
o cinquanta cittadini: e perché questo è piccolo numero, è facil cosa assicurarsene, o
con levargli via, o con fare loro parte di tanti onori, che, secondo le condizioni loro,
e' si abbino in buona parte a contentare. Quelli altri, ai quali basta vivere sicuri, si
sodisfanno facilmente, faccendo ordini e leggi, dove insieme con la potenza sua si
comprenda la sicurtà universale. E quando uno principe faccia questo, e che il popolo
vegga che, per accidente nessuno, ei non rompa tali leggi, comincerà in breve tempo a
vivere sicuro e contento. In esemplo ci è il regno di Francia, il quale non vive sicuro
per altro che per essersi quelli re obligati a infinite leggi, nelle quali si comprende la
sicurtà di tutti i suoi popoli. E chi ordinò quello stato, volle che quelli re,
dell'armi e del danaio facessero a loro modo, ma che d'ogni altra cosa non ne potessono
altrimenti disporre che le leggi si ordinassero. Quello principe, adunque, o quella
republica che non si assicura nel principio dello stato suo, conviene che si assicuri
nella prima occasione, come fecero i Romani. Chi lascia passare quella, si pente tardi di
non avere fatto quello che doveva fare.
Sendo, pertanto, il popolo romano ancora
non corrotto quando ei ricuperò la libertà, potette mantenerla, morti i figliuoli di
Bruto e spenti i Tarquinii, con tutti quelli modi ed ordini che altra volta si sono
discorsi. Ma se fusse stato quel popolo corrotto, né in Roma né altrove si truova rimedi
validi a mantenerla; come nel seguente capitolo mosterreno.
Capitolo 17
Uno popolo corrotto, venuto in libertà, si può con
difficultà grandissima mantenere libero.
Io giudico ch'egli era
necessario, o che i re si estinguessono in Roma, o che Roma in brevissimo tempo divenisse
debole e di nessuno valore; perché, considerando a quanta corruzione erano venuti quelli
re, se fossero seguitati così due o tre successioni, e che quella corruzione, che era in
loro, si fosse cominciata ad istendere per le membra, come le membra fossero state
corrotte, era impossibile mai più riformarla. Ma perdendo il capo quando il busto era
intero, poterono facilmente ridursi a vivere liberi ed ordinati. E debbesi presupporre per
cosa verissima, che una città corrotta che viva sotto uno principe, come che quel
principe con tutta la sua stirpe si spenga, mai non si può ridurre libera, anzi conviene
che l'un principe spenga l'altro: e sanza creazione d'uno nuovo signore non si posa mai,
se già la bontà d'uno, insieme con la virtù, non la tenesse libera; ma durerà tanto
quella libertà, quanto durerà la vita di quello: come intervenne, a Siracusa, di Dione e
di Timoleone: la virtù de' quali in diversi tempi, mentre vissono, tenne libera quella
città; morti che furono, si ritornò nell'antica tirannide. Ma non si vede il più forte
esemplo che quello di Roma; la quale, cacciati i Tarquinii, poté subito prendere e
mantenere quella libertà; ma, morto Cesare, morto Caio Caligola, morto Nerone, spenta
tutta la stirpe cesarea, non poté mai, non solamente mantenere, ma pure dar principio
alla libertà. Né tanta diversità di evento in una medesima città nacque da altro, se
non da non essere ne' tempi de' Tarquinii il popolo romano ancora corrotto, ed in questi
ultimi tempi essere corrottissimo. Perché allora, a mantenerlo saldo e disposto a fuggire
i re, bastò solo farlo giurare che non consentirebbe mai che a Roma alcuno regnasse; e
negli altri tempi non bastò l'autorità e severità di Bruto, con tutte le legioni
orientali, a tenerlo disposto a volere mantenersi quella libertà che esso, a similitudine
del primo Bruto, gli aveva renduta. Il che nacque da quella corruzione che le parti
mariane avevano messa nel popolo; delle quali sendo capo Cesare, potette accecare quella
moltitudine, ch'ella non conobbe il giogo che da sé medesima si metteva in sul collo.
E benché questo esemplo di Roma sia da
preporre a qualunque altro esemplo, nondimeno voglio a questo proposito addurre innanzi
popoli conosciuti ne' nostri tempi. Pertanto dico, che nessuno accidente, benché grave e
violento, potrebbe ridurre mai Milano o Napoli liberi, per essere quelle membra tutte
corrotte. Il che si vide dopo la morte di Filippo Visconti; che, volendosi ridurre Milano
alla libertà, non potette e non seppe mantenerla. Però, fu felicità grande quella di
Roma, che questi rediventassero corrotti presto, acciò ne fussono cacciati, ed innanzi
che la loro corruzione fusse passata nelle viscere di quella città: la quale incorruzione
fu cagione che gl'infiniti tumulti che furono in Roma, avendo gli uomini il fine buono,
non nocerono, anzi giovorono, alla Republica.
E si può fare questa conclusione, che,
dove la materia non è corrotta, i tumulti ed altri scandoli non nuocono: dove la è
corrotta, le leggi bene ordinate non giovano, se già le non sono mosse da uno che con una
estrema forza le faccia osservare, tanto che la materia diventi buona. Il che non so se si
è mai intervenuto o se fusse possibile ch'egli intervenisse: perché e' si vede, come
poco di sopra dissi, che una città venuta in declinazione per corruzione di materia, se
mai occorre che la si rilievi, occorre per la virtù d'uno uomo che è vivo allora, non
per la virtù dello universale che sostenga gli ordini buoni; e subito che quel tale è
morto, la si ritorna nel suo pristino abito: come intervenne a Tebe, la quale, per la
virtù di Epaminonda, mentre lui visse, potette tenere forma di republica e di imperio;
ma, morto quello, la si ritornò ne' primi disordini suoi. La cagione è, che non può
essere uno uomo di tanta vita, che 'l tempo basti ad avvezzare bene una città lungo tempo
male avvezza. E se uno d'una lunghissima vita, o due successione virtuose continue, non la
dispongano; come la manca di loro, come di sopra è detto, rovina, se già con dimolti
pericoli e dimolto sangue e' non la facesse rinascere. Perché tale corruzione e poca
attitudine alla vita libera, nasce da una inequalità che è in quella città: e volendola
ridurre equale, è necessario usare grandissimi straordinari, i quali pochi sanno o
vogliono usare; come in altro luogo più particularmente si dirà.
Capitolo 18
In che modo nelle città corrotte si potesse mantenere
uno stato libero, essendovi; o, non vi essendo, ordinarvelo.
Io credo che non sia
fuora di proposito, né disforme dal soprascritto discorso, considerare se in una città
corrotta si può mantenere lo stato libero, sendovi; o quando e' non vi fusse, se vi si
può ordinare. Sopra la quale cosa, dico, come gli è molto difficile fare o l'uno o
l'altro: e benché sia quasi impossibile darne regola, perché sarebbe necessario
procedere secondo i gradi della corruzione; nondimanco, essendo bene ragionare d'ogni
cosa, non voglio lasciare questa indietro. E presupporrò una città corrottissima, donde
verrò ad accrescere più tale difficultà; perché non si truovano né leggi né ordini
che bastino a frenare una universale corruzione. Perché, così come gli buoni costumi,
per mantenersi, hanno bisogno delle leggi; così le leggi, per osservarsi, hanno bisogno
de' buoni costumi. Oltre a di questo, gli ordini e le leggi fatte in una republica nel
nascimento suo, quando erano gli uomini buoni, non sono dipoi più a proposito, divenuti
che ei sono rei. E se le leggi secondo gli accidenti in una città variano, non variano
mai, o rade volte, gli ordini suoi: il che fa che le nuove leggi non bastano, perché gli
ordini, che stanno saldi, le corrompono.
E per dare ad intendere meglio questa
parte, dico come in Roma era l'ordine del governo, o vero dello stato; e le leggi dipoi,
che con i magistrati frenavano i cittadini. L'ordine dello stato era l'autorità del
Popolo, del Senato, de' Tribuni, de' Consoli, il modo di chiedere e del creare i
magistrati, ed il modo di fare le leggi. Questi ordini poco o nulla variarono negli
accidenti. Variarono le leggi che frenavano i cittadini; come fu la legge degli adulterii,
la suntuaria, quella della ambizione, e molte altre; secondo che di mano in mano i
cittadini diventavano corrotti. Ma tenendo fermi gli ordini dello stato, che nella
corruzione non erano più buoni, quelle legge, che si rinnovavano, non bastavano a
mantenere gli uomini buoni, ma sarebbono bene giovate, se con la innovazione delle leggi
si fussero rimutati gli ordini.
E che sia il vero, che tali ordini nella
città corrotta non fussero buoni, si vede espresso in doi capi principali, quanto al
creare i magistrati e le leggi. Non dava il popolo romano il consolato, e gli altri primi
gradi della città, se non a quelli che lo domandavano. Questo ordine fu, nel principio,
buono, perché e' non gli domandavano se non quelli cittadini che se ne giudicavano degni
ed averne la repulsa era ignominioso sì che, per esserne giudicati degni, ciascuno
operava bene. Diventò questo modo, poi, nella città corrotta, perniziosissimo; perché
non quelli che avevano più virtù, ma quelli che avevano più potenza domandavano i
magistrati; e gl'impotenti, comecché virtuosi, se ne astenevano di domandarli, per paura.
Vennesi a questo inconveniente, non a un tratto, ma per i mezzi, come si cade in tutti gli
altri inconvenienti: perché avendo i Romani domata l'Africa e l'Asia, e ridotta quasi
tutta la Grecia a sua ubbidienza, erano divenuti sicuri della libertà loro, né pareva
loro avere più nimici che dovessono fare loro paura. Questa sicurtà e questa debolezza
de' nimici fece che il popolo romano, nel dare il consolato, non riguardava più la
virtù, ma la grazia; tirando a quel grado quelli che meglio sapevano intrattenere gli
uomini, non quelli che sapevano meglio vincere i nimici: dipoi da quelli che avevano più
grazia, ei discesono a darlo a quegli che avevano più potenza; talché i buoni, per
difetto di tale ordine, ne rimasero al tutto esclusi. Poteva uno tribuno, e qualunque
altro cittadino, preporre al Popolo una legge; sopra la quale ogni cittadino poteva
parlare, o in favore o incontro, innanzi che la si deliberasse. Era questo ordine buono,
quando i cittadini erano buoni; perché sempre fu bene che ciascuno che intende uno bene
per il publico lo possa preporre; ed è bene che ciascuno sopra quello possa dire
l'opinione sua, acciocché il popolo, inteso ciascuno, possa poi eleggere il meglio. Ma
diventati i cittadini cattivi, diventò tale ordine pessimo; perché solo i potenti
proponevono leggi, non per la comune libertà, ma per la potenza loro; e contro a quelle
non poteva parlare alcuno, per paura di quelli: talché il popolo veniva o ingannato o
sforzato a diliberare la sua rovina.
Era necessario, pertanto, a volere che
Roma nella corruzione si mantenesse libera, che, così come aveva nel processo del vivere
suo fatto nuove leggi, l'avesse fatto nuovi ordini: perché altri ordini e modi di vivere
si debbe ordinare in uno suggetto cattivo, che in uno buono; né può essere la forma
simile in una materia al tutto contraria. Ma perché questi ordini, o e' si hanno a
rinnovare tutti a un tratto, scoperti che sono non essere più buoni, o a poco a poco, in
prima che si conoschino per ciascuno; dico che l'una e l'altra di queste due cose è quasi
impossibile. Perché, a volergli rinnovare a poco a poco, conviene che ne sia cagione uno
prudente, che vegga questo inconveniente assai discosto, e quando e' nasce. Di questi tali
è facilissima cosa che in una città non ne surga mai nessuno: e quando pure ve ne
surgessi, non potrebbe persuadere mai a altrui quello che egli proprio intendesse; perché
gli uomini, usi a vivere in un modo, non lo vogliono variare; e tanto più non veggendo il
male in viso, ma avendo a essere loro mostro per coniettura. Quanto all'innovare questi
ordini a un tratto, quando ciascuno conosce che non son buoni, dico che questa inutilità,
che facilmente si conosce, è difficile a ricorreggerla; perché, a fare questo, non basta
usare termini ordinari, essendo modi ordinari cattivi; ma è necessario venire allo
straordinario, come è alla violenza ed all'armi, e diventare innanzi a ogni cosa principe
di quella città, e poterne disporre a suo modo. E perché il riordinare una città al
vivere politico presuppone uno uomo buono, e il diventare per violenza principe di una
republica presuppone uno uomo cattivo; per questo si troverrà che radissime volte
accaggia che uno buono, per vie cattive, ancora che il fine suo fusse buono, voglia
diventare principe; e che uno reo, divenuto principe, voglia operare bene, e che gli
caggia mai nello animo usare quella autorità bene, che gli ha male acquistata.
Da tutte le soprascritte cose nasce la
difficultà, o impossibilità, che è nelle città corrotte, a mantenervi una republica, o
a crearvela di nuovo. E quando pure la vi si avesse a creare o a mantenere, sarebbe
necessario ridurla più verso lo stato regio, che verso lo stato popolare; acciocché
quegli uomini i quali dalle leggi, per la loro insolenzia, non possono essere corretti,
fussero da una podestà quasi regia in qualche modo frenati. E a volergli fare per altre
vie diventare buoni, sarebbe o crudelissima impresa o al tutto impossibile; come io dissi,
di sopra, che fece Cleomene: il quale se, per essere solo, ammazzò gli Efori; e se
Romolo, per le medesime cagioni, ammazzò il fratello e Tito Tazio Sabino, e dipoi usarono
bene quella loro autorità; nondimeno si debbe avvertire che l'uno e l'altro di costoro
non aveano il suggetto di quella corruzione macchiato, della quale in questo capitolo
ragioniamo, e però poterono volere, e, volendo, colorire il disegno loro.
Capitolo 19
Dopo uno eccellente principe si può mantenere uno
principe debole; ma, dopo uno debole, non si può con un altro debole mantenere alcuno
regno.
Considerato la virtù
ed il modo del procedere di Romolo, Numa e di Tullo, i primi tre re romani, si vede come
Roma sortì una fortuna grandissima, avendo il primo re ferocissimo e bellicoso, l'altro
quieto e religioso, il terzo simile di ferocità a Romolo, e più amatore della guerra che
della pace. Perché in Roma era necessario che surgesse ne' primi principii suoi un
ordinatore del vivere civile, ma era bene poi necessario che gli altri re ripigliassero la
virtù di Romolo; altrimenti quella città sarebbe diventata effeminata, e preda de' suoi
vicini. Donde si può notare che uno successore, non di tanta virtù quanto il primo, può
mantenere uno stato per la virtù di colui che lo ha retto innanzi, e si può godere le
sue fatiche: ma s'egli avviene o che sia di lunga vita, o che dopo lui non surga un altro
che ripigli la virtù di quel primo, è necessitato quel regno a rovinare. Così, per il
contrario, se dua, l'uno dopo l'altro, sono di gran virtù, si vede spesso che fanno cose
grandissime, e che ne vanno con la fama in fino al cielo.
Davit, sanza dubbio, fu un uomo, per
arme, per dottrina, per giudizio, eccellentissimo; e fu tanta la sua virtù, che, avendo
vinti e battuti tutti i suoi vicini, lasciò a Salomone suo figliuolo uno regno pacifico:
quale egli si potette con l'arte della pace, e non con la guerra, conservare; e si potette
godere felicemente la virtù di suo padre. Ma non potette già lasciarlo a Roboam suo
figliuolo; il quale, non essendo per virtù simile allo avolo, né per fortuna simile al
padre, rimase con fatica erede della sesta parte del regno. Baisit, sultan de' Turchi,
come che fussi più amatore della pace che della guerra, potette godersi le fatiche di
Maumetto suo padre; il quale avendo, come Davit, battuto i suoi vicini, gli lasciò un
regno fermo, e da poterlo con l'arte della pace facilmente conservare. Ma se il figliuolo
suo Salì, presente signore, fusse stato simile al padre, e non all'avolo, quel regno
rovinava; ma e' si vede costui essere per superare la gloria dell'avolo. Dico pertanto con
questi esempli, che, dopo uno eccellente principe, si può mantenere uno principe debole;
ma, dopo un debole, non si può, con un altro debole, mantenere alcun regno, se già e'
non fusse come quello di Francia, che gli ordini suoi antichi lo mantenessero: e quelli
principi sono deboli, che non stanno in su la guerra.
Conchiudo pertanto, con questo discorso,
che la virtù di Romolo fu tanta, che la potette dare spazio a Numa Pompilio di potere
molti anni con l'arte della pace reggere Roma: ma dopo lui successe Tullo, il quale per la
sua ferocità riprese la riputazione di Romolo: dopo il quale venne Anco, in modo dalla
natura dotato, che poteva usare la pace e sopportare la guerra. E prima si dirizzò a
volere tenere la via della pace, ma subito conobbe come i vicini, giudicandolo effeminato,
lo stimavano poco: talmente che pensò che, a volere mantenere Roma, bisognava volgersi
alla guerra, e somigliare Romolo, e non Numa.
Da questo piglino esemplo tutti i
principi che tengono stato; che chi somiglierà Numa, lo terrà o non terrà, secondo che
i tempi o la fortuna gli girerà sotto; ma chi somiglierà Romolo, e fia come esso armato
di prudenza e d'armi, lo terrà in ogni modo, se da una ostinata ed eccessiva forza non
gli è tolto. E certamente si può stimare che, se Roma sortiva per terzo suo re un uomo
che non sapesse con le armi renderle la sua riputazione non arebbe mai poi, o con
grandissima difficultà, potuto pigliare piede, né fare quegli effetti ch'ella fece. E
così, in mentre che la visse sotto i re la portò questi pericoli di rovinare sotto uno
re o debole o malvagio.
Capitolo 20
Dua continove successioni di principi virtuosi fanno
grandi effetti; e come le republiche bene ordinate hanno di necessità virtuose
successioni, e però gli acquisti ed augumenti loro sono grandi.
Poiché Roma ebbe cacciati i re, mancò di quelli pericoli, i quali di sopra sono detti che la portava succedendo in lei uno re o debole o cattivo. Perché la somma dello imperio si ridusse ne' consoli, i quali, non per eredità o per inganni o per ambizione violenta, ma per suffragi liberi venivano a quello imperio, ed erono sempre uomini eccellentissimi: de' quali godendosi Roma la virtù, e la fortuna di tempo in tempo, poté venire a quella sua ultima grandezza in altrettanti anni che la era stata sotto i re. Perché si vede, come due continove successioni di principi virtuosi sono sufficienti ad acquistare il mondo: come furano Filippo di Macedonia ed Alessandro Magno. Il che tanto più debba fare una republica, avendo per il modo dello eleggere non solamente due successioni ma infiniti principi virtuosissimi che sono l'uno dell'altro successori: la quale virtuosa successione fia sempre in ogni republica bene ordinata.