Carlo Goldoni

La famiglia dell'Antiquario

ATTO SECONDO

Scena prima

Camera di Doralice
Doralice ed il conte Giacinto.

Giacinto: Gran disgrazia! Gran disgrazia! In questa nostra casa non si può vivere un giorno in pace.
Doralice: Lo dite a me? Io non do fastidio a nessuno.
Giacinto: Eh, Doralice mia, se mi voleste bene, non vi regolereste cosí.
Doralice: Ma di che mai vi potete dolere?
Giacinto: Voi non volete rispettare mia madre.
Doralice: Che cosa pretendete ch'io faccia, per darle un segno del mio rispetto? Volete che vada a darle l'acqua da lavare le mani? Che vada a tirarle le calze, quando va a letto?
Giacinto: Oh! non la vogliamo finir bene.
Doralice: Dite, non lo sapete ch'io sono stata stamattina la prima a salutarla?
Giacinto: Sí e nel salutarla l'avete strapazzata.
Doralice: L'ho strapazzata? Non è vero.
Giacinto: Le avete detto vecchia.
Doralice: Oh, oh, oh! Mi fate ridere. Perché le ho detto vecchia, s'intende ch'io l'abbia strapazzata? Pretende forse di essere giovane?
Giacinto: Non è una giovanetta, ma non le si può dire ancor vecchia.
Doralice: È vostra madre.
Giacinto: Quando sarete voi di quell'età, avrete piacere che vi dicano vecchia?
Doralice: Quando sarò di quell'età, vi risponderò.
Giacinto: Fate con gli altri quello che vorreste che fosse fatto con voi.
Doralice: Se a mia suocera le dicessi che è giovane, mi parrebbe in verità di burlarla.
Giacinto: Che bisogno c'è che le diciate giovane o vecchia? Questo è il discorso piú odioso che possa farsi a voi altre donne. Non vi è nessuna, per vecchia che sia, che se lo voglia sentir dire. Sino ai trent'anni ve li nascondete a tre o quattro per volta; dai trenta in su, si nascondono a diecine e dozzine. Voi adesso avete ventitré anni; scommetto qualche cosa di bello, che da qui a dieci anni ne avrete ventiquattro.
Doralice: Via, bravo. Se volete che vostra madre sia piú giovane di me, lo sarà.
Giacinto: Queste sono freddure. Vorrei, vi torno a dire, che consideraste che ella è mia madre, che le portaste un poco piú di rispetto.
Doralice: Sí, le farò carezze, le ballerò anche una furlanetta alla veneziana.
Giacinto: Orsú, vedo che non posso sperar niente; e converrà pensare al rimedio.
Doralice: Se foste un uomo, a quest'ora ci avreste pensato. Ma, compatitemi, siete ancora ragazzo.
Giacinto: Io? Perché?
Doralice: Perché se foste un uomo di senno, non avreste permesso che vostro padre e vostra madre consumassero miseramente ventimila scudi, senza nemmeno fare un abito alla vostra moglie.
Giacinto: A proposito, l'abito mi ha detto mia madre che si farà...
Doralice: Non ho bisogno di lei. Lo farò senza di lei; questi sono denari, e or ora verrà il mercante (gli fa vedere una borsa).
Giacinto: Chi ve li ha dati?
Doralice: Mio padre mi ha regalato cinquanta zecchini e questo orologio.
Giacinto: Ho rossore che vostro padre abbia ad incomodarsi per voi. Ma gli sono obbligato e voglio andare io medesimo a ringraziarlo.
Doralice: Fatemi un piacere, mandatemi Colombina.
Giacinto: Non vorrà venire.
Doralice: Mandatela con qualche pretesto; mi preme di parlarle.
Giacinto: Per amor del cielo, non fate peggio.
Doralice: Non dubitate.
Giacinto: Avrei piacere che vedeste mia madre.
Doralice: Se mi vuol vedere, questa è la mia camera.
Giacinto: Non so che dire, vi vuol pazienza (parte).


Scena seconda

Doralice sola.
Doralice: Giacinto facilmente si fa piegare dove e come si vuole. Mi preme tenerlo forte e costante dal mio partito, perché a suo tempo spero ridurlo a far quello che non ha coraggio di fare.


Scena terza

Colombina e detta.
Colombina: Oh, questa è bella! Tutti mi comandano. Anche il signor contino si vuol far servire da me.
Doralice: Colombina.
Colombina: Signora.
Doralice: Poverina! ti ho dato quello schiaffo, me ne dispiace infinitamente.
Colombina: Ancora sento il bruciore.
Doralice: Vieni qua, voglio che facciamo la pace.
Colombina: La mia padrona, in tant'anni ch'io la servo, non mi ha mai toccato.
Doralice: La tua padrona ?
Colombina: Signora sí, signora sí, la mia padrona.
Doralice: Dimmi un poco, quanto ti dà di salario la tua padrona?
Colombina: Mi dà uno scudo il mese.
Doralice: Povera ragazza! non ti dà altro che uno scudo il mese? Ti dà molto poco.
Colombina: Certo, per dirla, mi dà poco, perché a servirla come la servo io...
Doralice: Quando io era a casa mia, la mia cameriera aveva da mio padre uno zecchino il mese.
Colombina: Uno zecchino?
Doralice: Sí, uno zecchino, e gl'incerti arrivavano fino a una doppia.
Colombina: Oh, se capitasse a me una fortuna simile!
Doralice: Lascieresti la tua padrona?
Colombina: Per raddoppiare il salario, sarei ben pazza se non la lasciassi.
Doralice: Senti, Colombina, se vuoi, l'occasione è pronta.
Colombina: Oh, il cielo lo volesse! E con chi?
Doralice: Con me, se non isdegni di venirmi a servire.
Colombina: Con voi, signora ?
Doralice: Sí, con me. Vedi bene che senza una cameriera non posso stare, e mio padre supplirà al salario. Io, benché abbia un poco gridato con te, finalmente capisco che sei una giovane di abilità, fedele ed attenta, onde, se non ricusi l'offerta, eccoti due zecchini per il salario anticipato dei due primi mesi.
Colombina: Vossignoria illustrissima mi obbliga in una maniera, che non posso dire di no.
Doralice: Dunque starai al mio servizio?
Colombina: Illustrissima sí.
Doralice: Ma mia suocera che dirà ?
Colombina: Questo è il punto. Che dirà?
Doralice: Troveremo la maniera di farglielo sapere. Per oggi non le diciamo nulla.
Colombina: Benissimo, farò quello che comanda vossignoria illustrissima. Ma se la signora Isabella mi chiama, se mi ordina qualche cosa, l'ho da servire?
Doralice: Sí, l'hai da servire. Anzi non hai da mostrare di essere per me, prima che di ciò le sia parlato.
Colombina: Ma io sono la cameriera di vossignoria illustrissima.
Doralice: Per ora mi basta che tu non mi sia nemica, e che fedelmente mi riporti tutto quello che mia suocera dice di me.
Colombina: Oh! circa alla fedeltà, potete di me star sicura. Vi dirò tutto; anzi, per farvi vedere che sono al vostro servizio, principierò fin da ora a dirvi alcune coserelle che ha dette di voi la mia padrona vecchia.
Doralice: Dimmele, dimmele, che ti sarò grata.
Colombina: Ha detto... Ma per amor del cielo, non le dite nulla.
Doralice: Non dubitate, non parlerò.
Colombina: Ha detto che siete una donna ordinaria, che non si degna di voi, e che vi tiene come la sua serva.
Doralice: Ha detto questo?
Colombina: L'ha detto in coscienza mia. Ha detto che vostro marito fa male a volervi bene, e che vuol far di tutto perché vi prenda odio.
Doralice: Ha detto?
Colombina: Ve lo giuro sull'onor mio.
Doralice: Ha detto altro?
Colombina: Non me ne ricordo; ma starò attenta, e tutto quello che saprò, ve lo dirò.
Doralice: Non occorr'altro, ci siamo intese.
Colombina: Vado, per non dar sospetto. (Per uno zecchino il mese, non solo riporterò quello che si dice di lei, ma vi aggiungerò anche qualche cosa del mio) (da sé, parte).


Scena quarta

Doralice, poi Colombina.
Doralice: Io sono una donna ordinaria? una donna ordinaria? Ardita! Non si degna di me? Io non mi degno di lei, che se non era io, si morirebbe di fame. Mio marito fa male a volermi bene? Fa male mio marito a rompermi il capo, perché io porti rispetto a questa gran dama. Vuol farmi odiare da suo figliuolo? È difficile, poiché ho io delle maniere da farmi amar da chi voglio, e da mettere in disperazione chi non mi va a genio.
Colombina: Illustrissima
Doralice: Che c'è?
Colombina: Il signor cavaliere del Bosco vorrebbe riverirla.
Doralice: Digli che passi.
Colombina: La servo subito. A vossignoria illustrissima sta bene un poco di cavalier servente, ma la signora Isabella dovrebbe aver finito (parte).


Scena quinta

Doralice, poi il Cavaliere Del Bosco.
Doralice: Questi due zecchini li ho spesi bene.
Cavaliere: Madama, compatite s'io torno a darvi il secondo incomodo.
Doralice: Signor cavaliere, conosco di non meritare le vostre grazie, e perciò permettetemi che, prima d'ogni altra cosa, vi faccia un'interrogazione.
Cavaliere: V'ascolterò colla maggior premura del mondo.
Doralice: Ditemi in grazia, ma non mi adulate, perché vi riuscirà di farlo per poco.
Cavaliere: Vi giuro la piú rigorosa sincerità.
Doralice: Ditemi se siete venuto a favorirmi per qualche bontà che abbiate concepita per me, oppure perché unicamente vi prema di riconciliarmi colla contessa Isabella.
Cavaliere: Se ciò mi riuscisse di fare, sarei contento; ma in ogni modo vi accerto, o signora, che unicamente mi preme l'onore della vostra grazia.
Doralice: Siete disposto a preferirmi a mia suocera?
Cavaliere: Lo esige il vostro merito, e una rispettosissima inclinazione mi obbliga a desiderarlo.
Doralice: Non avrete dunque difficoltà a dichiararvi in faccia della medesima.
Cavaliere: Mi basta non mancare alla civiltà, per non offendere il mio carattere.
Doralice: Non sono capace di chiedervi una mala azione.
Cavaliere: Comandate, e farò tutto per obbedirvi.
Doralice: Sappiate ch'io sono da mia suocera gravemente offesa.
Cavaliere: Ma come? anzi mi pare, perdonatemi, che voi l'abbiate molto bene beffata.
Doralice: Eh, queste sono bagattelle. Le offese che ella mi ha fatte, sono di maggior rilievo.
Cavaliere: Sono passate poche ore, dacché ho avuto l'onore di vedervi. È accaduto qualche cosa di nuovo?
Doralice: È accaduto tanto, che mia suocera vuol vedere la rovina di casa sua.
Cavaliere: Per amor del cielo, non dite cosí.
Doralice: Che non dica cosí? che non dica cosí? Dunque avete ancora della parzialità per lei.
Cavaliere: Ma, contessina mia, la rovina di questa casa viene a comprendere vostro marito e voi medesima.
Doralice: Vada tutto, ma la cosa non ha da passare cosí.
Cavaliere: Son curiosissimo di sapere che cosa è stato.
Doralice: Colei ha avuto la temerità di dire che mio marito fa male a volermi bene, e che vuol fare il possibile perché mi odii.
Cavaliere: Signora mia, l'avete sentita voi dir queste cose?
Doralice: Non l'ho sentita, ma lo so di certo.
Cavaliere: Duro fatica a crederlo; non mi pare ragionevole.
Doralice: Mi credete capace di rappresentarvi una falsità?
Cavaliere: Non ardisco ciò pensare di voi. Ma chi vi ha riportate queste ciarle, può aver errato, o per malizia, o per ignoranza.
Doralice: Bene. Colombina! (chiama).


Scena sesta

Colombina e detti.
Colombina: Illustrissima.
Doralice: Dimmi un poco, che cosa ha detto mia suocera di me?
Colombina: Signora... mi perdoni.
Doralice: No, non aver riguardo. Già il signor cavaliere non parla.
Cavaliere: Oh non parlo, non dubitate.
Doralice: Via, di' su, che ha detto quella cara signorina di me?
Colombina: Ha detto che siete una donna ordinaria...
Doralice: Non dico di questo. Che cosa ha detto di mio marito ?
Colombina: Che fa male a volervi bene.
Doralice: Sentite? e poi?
Colombina: Che vi vuol far odiare da lui.
Doralice: Avete inteso?
Colombina: Perché siete una donna ordinaria.
Doralice: Va via di qui. Queste pettegole vi aggiungono sempre qualche cosa del loro.
Colombina: E poi ha detto che non si degna...
Doralice: Va via, non voglio altro.
Colombina: Per amor del cielo, non mi assassinate (al Cavaliere).
Cavaliere: Per me non dubitare, che non parlerò.
Colombina: Ha detto anche qualche cosa di voi... (al Cavaliere).
Cavaliere: E che cosa ha detto di me?
Colombina: Che siete un cavaliere che pratica per le case, e non dona mai niente alla servitú (parte).


Scena settima

Doralice ed il Cavaliere Del Bosco.
Cavaliere: Cara signora contessa, volete credere a questa sorta di gente?
Doralice: Me lo ha detto in una maniera, che mi assicura essere la verità.
Cavaliere: Sapete pure che ella è cameriera antica della contessa Isabella.
Doralice: Appunto per questo; se non fosse la verità, non mi avrebbe detto cosa che potesse pregiudicare alla sua padrona.
Cavaliere: Le avrà gridato; sarà disgustata.
Doralice: Signor cavaliere, la riverisco (vuol partire).
Cavaliere: Perché privarmi delle vostre grazie?
Doralice: Perché siete parziale della signora suocera.
Cavaliere: Io son servitore vostro. Ma vorrei vedervi quieta e contenta
Doralice: Una delle due: o siete per me, o siete per lei.
Cavaliere: Da cavaliere, ch'io sono per voi.
Doralice: Se siete con me, non mi avete da contraddire.
Cavaliere: Dirò tutto quello che dite voi.
Doralice: Fra mia suocera e me, chi ha ragione?
Cavaliere: Voi.
Doralice: Chi è l'offesa?
Cavaliere: Voi.
Doralice: Chi ha da pretendere risarcimento?
Cavaliere: Voi.
Doralice: Chi ha da cedere?
Cavaliere: Voi...
Doralice: Io?
Cavaliere: Voi no, volevo dire
Doralice: Ella ha da cedere
Cavaliere: Certamente.
Doralice: Se c'incontriamo, chi ha da essere la prima a parlare?
Cavaliere: Direi...
Doralice: Come piú vecchia non la posso nemmeno salutare.
Cavaliere: Si potrebbe vedere...
Doralice: Alle corte. Ella ha da essere la prima a parlarmi.
Cavaliere: Sí, lo dicevo. Tocca a lei.
Doralice: L'accordate anche voi?
Cavaliere: Non posso contraddirlo.
Doralice: Quando l'accordate voi, che siete un cavaliere di garbo, son sicura di non fallare.
Cavaliere: Ma io, perdonatemi...
Doralice: Se mi parlerà con amore, io le risponderò con rispetto.
Cavaliere: Brava, bravissima. Lodo la vostra rassegnazione.
Doralice: E mi diranno poi ch'io son cattiva.
Cavaliere: Siete la piú buona damina del mondo.
Doralice: Credetemi, che altro non desidero che farmi voler bene da tutti.
Cavaliere: Si vede in effetto.
Doralice: La servitù mi adora.
Cavaliere: Anco Colombina ?
Doralice: Colombina è tutta mia. Starà con me, e le ho dato due zecchini.
Cavaliere: Se farete cosí, sarete adorabile.
Doralice: Mia suocera, che ha avuto ventimila scudi, non mi può vedere.
Cavaliere: Perché, perché...
Doralice: Perché è una donna cattiva.
Cavaliere: Sarà cosí.
Doralice: È cosí senz'altro.
Cavaliere: Sí, senz'altro.


Scena ottava

Colombina e detti.
Colombina: Illustrissima, vi è l'illustrissimo suo signor padre che vorrebbe dirle una parola.
Doralice: Digli che venga.
Colombina: Non vuol venire; l'aspetta nella camera dell'arcova.
Doralice: Vorrà farmi fare qualche figura ridicola con mia suocera.
Cavaliere: Se il padre comanda...
Doralice: Eh, ora ha finito di comandare. Son maritata.
Cavaliere: Sí, ma da lui potete sempre sperare qualche cosa.
Doralice: Oh, per questo lo ascolto. Basta, se vorrà ch'io parli alla contessa Isabella, quando ella sia la prima, lo farò. Cavaliere, quando è partito mio padre, vi aspetto (parte).
Cavaliere: Che vuol dire, Colombina, cosí attenta a servire la contessina?
Colombina: Io sono una ragazza di buon cuore. Fo servizio volentieri a chi è generoso con me.
Cavaliere: Orsú, sentite; acciò la vostra padrona non dica ch'io non do mai nulla alla servitú, tenete questo mezzo ducato.
Colombina: Grazie. Sapete ora che cosa dirà?
Cavaliere: E che dirà?
Colombina: Che avete fatto una gran cascata (parte).
Cavaliere: Che maladettissima cameriera! Costei è causa principale degli scandali di questa casa. Ella riporta a questa, riporta a quella; le donne ascoltano volentieri tutte le ciarle che sentono riportare; quando odono dir male, credono tutto con facilità, e si rendono nemiche senza ragione. Se posso, voglio vedere che Colombina, scoperta dall'una e dall'altra, paghi la pena delle sue imposture. Pur troppo è vero, tante e tante volte dipende la quiete d'una famiglia dalla lingua di una serva o di un servitore (parte).


Scena nona

Salotto Il conte Anselmo con un libro grosso manoscritto e Brighella.
Anselmo: Quanto mi dispiace non intendere la lingua greca! Questo manoscritto è un tesoro, ma non l'intendo. Brighella.
Brighella: Illustrissimo.
Anselmo: Ho trovato un manoscritto greco, antichissimo, che vale cento zecchini, e l'ho avuto per dieci.
Brighella: (De questi a mi non me ne tocca) (da sé).
Anselmo: Questo è un codice originale.
Brighella: Una bagattella! Un codice original? Cara ella, cossa contienlo?
Anselmo: Sono i trattati di pace fra la repubblica di Sparta e quella d'Atene.
Brighella: Oh che bella cossa!
Anselmo: Questo posso dir che è una gioja, perché è l'unica copia che vi sia al mondo. E poi senti, e stupisci. È scritto di propria mano di Demostene.
Brighella: Cospetto del diavolo! Cossa me tocca a sentir? Che la sia po cussí?
Anselmo: Sarei un bell'antiquario, se non conoscessi i caratteri degli antichi.
Brighella: Cara ella, la prego. La me leza almanco el titolo.
Anselmo: Ti ho pur detto tante volte, che non intendo il greco.
Brighella: Ma come conossela el carattere, se no la ntende la lingua?
Anselmo: Oh bella! Come uno che conosce le pitture e non sa dipingere.
Brighella: (Sa el cielo chi gh'ha magnà sti diese zecchini. Za che el vol andar in malora, l'è meggio che me profitta mi che un altro) (da sé).
Anselmo: Gran bel libro, gran bel codice! Pare scritto ora.
Brighella: La diga, sior padron, conossela el signor capitanio Saracca?
Anselmo: Lo conosco, lo conosco. Egli pretende avere una sontuosa galleria, ma non ha niente di buono.
Brighella: Eppur l'ha speso dei denari assai.
Anselmo: Avrà speso in vent'anni più di diecimila scudi. Ma non ha niente di buono.
Brighella: La sappia che l'ha avudo una desgrazia. L'ha bisogno de quattrini, e el vol vender la galleria.
Anselmo: La vuol vendere? Oh, la vi sarebbe da fare de' buoni acquisti.
Brighella: Se la vol, adesso xe el tempo.
Anselmo: Le cose migliori le prenderò io.
Brighella: El vuol vender tutto in una volta.
Anselmo: Ma vorrà delle migliaia di zecchini.
Brighella: Manco de quello che la se pensa. Con tremille scudi se porta via tutta quella gran roba.
Anselmo: Con tremila scudi? Questo è un negozio da impegnarvi la camicia per farlo. Se l'avessi saputo quattro giorni prima, non avrei consumato il denaro con quegl'impertinenti de' creditori.
Brighella: La senta, se no la gh'ha tutti i denari, no importa; m'impegno de farghe dar la roba, parte col denaro contante, e parte con un biglietto.
Anselmo: Oh il cielo volesse! Caro Brighella, sarebbe la mia fortuna. Quanto denaro credi tu che vi vorrà alla mano?
Brighella: Almanco domille scudi.
Anselmo: Io non ne ho altri che mille cinquecento, gli altri li ho spesi tutti.
Brighella: Vederò che el se contenta de questi.
Anselmo: Brighella mio, non bisogna perder tempo; va subito a serrar il contratto.
Brighella: Bisognerà darghe la caparra.
Anselmo: Sì tieni questi venti zecchini. Daglieli per caparra.
Brighella: Vado subito.
Anselmo: Ma avverti di farti dare l'inventario, riscontra cosa per cosa, poi viemmi ad avvisare, che verrò a vedere ancor io.
Brighella: Vado, perché, se se perde tempo, el negozio pol andar in qualch'altra man.
Anselmo: No, per amor del cielo. Mi appiccherei dalla disperazione.
Brighella: (È vero che el signor capitanio vol vender la galleria, ma con questi venti zecchini comprerò i so scarti, ghe porterò qualch'altra freddura, e el gonzo che non sa gnente, li pagherà a caro prezzo) (da sé, parte).


Scena decima

Il conte Anselmo, poi Pantalone.
Anselmo: Non mi sarei mai creduto un incontro simile. Ma la fortuna capita, quando men si crede.
Pantalone: Se puol vegnir? (di dentro).
Anselmo: Ecco qui quel buon uomo di Pantalone. Non sa niente, non sa niente. Venite, venite, signor Pantalone.
Pantalone: Fazzo reverenza al sior conte.
Anselmo: Ditemi, voi che avete delle corrispondenze per il mondo, sapete la lingua greca?
Pantalone: La so perfettamente. Son stà dies'anni a Corfú. Ho scomenzà là a far el marcante, e tutto el mio devertimento giera a imparar quel linguaggio.
Anselmo: Dunque saprete leggere le scritture greche.
Pantalone: Ghe dirò; altro xe el greco litteral, altro xe el greco volgar. Me n'intendo però un pochetto e dell'un e dell'altro.
Anselmo: Quand'è cosí, vi voglio far vedere una bella cosa.
Pantalone: La vederò volentiera.
Anselmo: Un codice greco.
Pantalone: Bon, ghe n'ho visto dei altri.
Anselmo: Scritto di propria mano di Demostene.
Pantalone: El sarà una bella cossa.
Anselmo: Osservate, e se sapete leggere, leggete.
Pantalone: (osserva) Questo xe scritto da Demostene?
Anselmo: Sí, e sono i trattati di pace tra Sparta e Atene.
Pantalone: I trattati di pace tra Sparta e Atene? Sala cossa che contien sto libro?
Anselmo: Via, che cosa contiene?
Pantalone: Questo xe un libro de canzonette alla grega, che canta i putelli a Corfù.
Anselmo: Già lo sapeva. Voi non sapete leggere il greco.
Pantalone: La senta: mattiamu, mattachiamú, callispera, mattiamú.
Anselmo: Ebbene, questi saranno i nomi propri degli Spartani o de Tebani.
Pantalone: Vuol dir: vita mia, dolce vita mia, bonassera, vita mia.
Anselmo: Non sapete leggere. Questo è un codice greco che mi costa dieci zecchini, e ne vale più di cento.
Pantalone: El formaggier nol ghe dà tre soldi.
Anselmo: Andate a intendervi di panni e di sete, e non di scritture antiche.
Pantalone: Me despiase, sior conte, che per quel che vedo, andemo de mal in pezo.
Anselmo: Come sarebbe a dire?
Pantalone: Ella se perde in ste freddure, e la so casa va in precipizio.
Anselmo: Io mi diverto senza incomodare la casa. L'entrate le maneggia mia moglie, né io pregiudico agl'interessi della famiglia.
Pantalone: E alla pase e alla quiete de casa no la ghe pensa?
Anselmo: Io penso a me e non penso agli altri.
Pantalone: Mo no sala, che quando el capo de casa no gh'abada, tutto va alla roversa?
Anselmo: Quando tacciono, sono capo; quando gridano, sono coda.
Pantalone: Dise mia fia che l'è stada offesa dalla siora contessa Isabella.
Anselmo: E dice mia moglie che è stata offesa da vostra figlia; ora guardate con che razza di matti abbiamo da fare.
Pantalone: Eppur bisogna remediarghe.
Anselmo: Io vi consiglierei a fare quello che fo io.
Pantalone: Che vuol dir?
Anselmo: Lasciarle friggere nel proprio grasso.
Pantalone: Ma se ste cosse le va avanti, no so cossa che possa succeder.
Anselmo: Che cosa volete che succeda?
Pantalone: Siora contessa xe un poco troppo altiera.
Anselmo: E vostra figlia è troppo fastidiosa.
Pantalone: Volemio veder de far sta pase tra niora e madonna?
Anselmo: Che cosa vi vuole per far questa pace?
Pantalone: Mi ho parlà con mia fia; e so che la farà a mio modo.
Anselmo: È inutile ch'io parli a mia moglie.
Pantalone: Perché?
Anselmo: Perché mai abbiamo fatto né ella a mio modo, né io al suo.
Pantalone: Ma questa l'averia da esser una pase general de tutta la fameggia.
Anselmo: Io non sono in collera con nessuno.
Pantalone: Mo no l'è gnanca so decoro, voler comparir un omo de stucco.
Anselmo: Che cosa volete ch'io faccia?
Pantalone: Avemo da procurar che ste do creature se unissa. Avemo da far che le se parla, che le se giustifica, che le se pacifica, e xe ben che la ghe sia anca ella.
Anselmo: Via, vi sarò.
Pantalone: Bisogna metter qualche bona parola.
Anselmo: La metterò.
Pantalone: Ho parlà anca colla siora contessa, e la m'ha promesso de vegnir in camera d'udienza, dove ghe sarà anca mia fia.
Anselmo: Buono, avete fatto assai.
Pantalone: Saremo nualtri soli; ella, mi, so consorte, mia fia e mio zenero.
Anselmo: E non altri?
Pantalone: No gh'ha da esser altri.
Anselmo: Sarà difficile.
Pantalone: Perché? Chi gh'ha da esser?
Anselmo: Le donne hanno sempre i loro consiglieri.
Pantalone: Mia fia no credo che la gh'abbia nissun.
Anselmo: Eh, l'avrà, l'avrà.
Pantalone: Siora contessa lo gh'ala?
Anselmo: Oh, se l'ha? E come!
Pantalone: E ella lo comporta?
Anselmo: Io abbado alle mie medaglie.
Pantalone: Mio zenero non farà cussí.
Anselmo: «Ognun dal canto suo cura si prenda».
Pantalone: Questa no xe la regola che ha da tegnir un capo de casa.
Anselmo: Ditemi, quant'anni avete!
Pantalone: Sessanta, per servirla.
Anselmo: Volete vivere sino a cento?
Pantalone: Magari, ch'el ciel volesse!
Anselmo: Se volete vivere sino a cent'anni, prendetevi quei fastidi che mi prendo io (parte).


Scena undicesima

Pantalone solo.
Pantalone: Vardè che bell'omo! Vardè in che bella casa che ho messo la mia povera fia! Un de sti dí, co ste so medaggie, nol gh'ha piú un soldo, e quel che xe pezo, el lassa che vaga in desordene la casa, senza abbadarghe. Ma se nol ghe bada lu, ghe baderò mi. No gh'ho altro a sto mondo che sta unica fia; se posso, no voi morir col rammarico de vederla malamente sagrificada. Oh quanto meggio che giera, che l'avesse maridada con uno da par mio! Anca a mi me xe vegnù el catarro della nobiltà. Ho speso vintimille scudi. Ma cossa oggio fatto? Ho buttà i bezzi in canal, e ho negà la putta.


Scena dodicesima

Arlecchino, travestito con altr'abito, e detto.
Arlecchino: (Oh, se trovass sto sior conte, ghe vorria piantar dell'altre belle antichità, senza spartir l'utile con Brighella) (da sé).
Pantalone: (Chi diavolo xe costù?) (da sé).
Arlecchino: (Sto barbetta mi nol conoss) (da sé).
Pantalone: Galantomo, chi seu? Chi domandeu?
Arlecchino: Innanz che mi responda, l'am favorissa de dirme chi l'è vussioria.
Pantalone: Son un amigo del sior conte Anselmo.
Arlecchino: Se dilettela de antichità?
Pantalone: Oh assae! (Stè a veder che l'è un de quei che lo tira in trappola) (da sé).
Arlecchino: Za che vussioria se diletta de antichità, la sappia che mi son un antiquari. Son vegnú per far la fortuna del sior conte Anselmo.
Pantalone: (voi torme spasso e scoverzer terren) (da sé). Caro amigo, se me farè a mi sto piaser, oltre al pagamento, ve servirò in quel che poderò, in quel che ve occorrerà.
Arlecchino: Za che ved che l'è un galantomo, l'osserva che roba! L'osserva che antichità! che rarità! che preziosità! Vedel questa? (mostra una pantofola vecchia).
Pantalone: Questa la par una pantofola vecchia.
Arlecchino: Questa l'era la pantofola de Neron, colla qual l'ha dà quel terribil calzo a Poppea, quand el l'ha scazzada dal trono.
Pantalone: Bravo! Oh che rarità! Gh'aveu altro? (Oh che ladro!) (da sé).
Arlecchino: Vedel questa? (mostra una treccia di capelli). Questa l'è la drezza de cavelli de Lugrezia romana, restada in man a Sesto Tarquini, quando el la voleva sforzar.
Pantalone: Bellissima! (Ah tocco de furbazzo!) (da sé).
Arlecchino: La vederà...
Pantalone: No voggio veder altro. Baron, ladro, desgrazià! Credistu che sia un mamalucco? A mi ti me dà da intender ste fandonie? Furbazzo, te farò andar in galía.
Arlecchino: Ah signor, per amor del cielo, ghe domand pietà.
Pantalone: Chi t'ha introdotto in sta casa?
Arlecchino: L'è stà Brighella, signor.
Pantalone: Come! Brighella?
Arlecchino: Sior sì, avem spartì l'altra volta metà per un.
Pantalone: Donca Brighella sassina el so patron?
Arlecchino: El fa anca lu, come che fan tanti alter.
Pantalone: Orsú, vegnì con mi. (Voggio co sto mezzo disingannar sto sior conte) (da sé). Vegnì con mi.
Arlecchino: Dove ?
Pantalone: No ve dubitè. Vegnì con mi, e non abbiè paura.
Arlecchino: Abbiè carità de un poveromo.
Pantalone: Meriteressi de andar in preson; ma no son capace de farlo. Me basta che disè a sior conte quel che avè dito a mi, e no voi altro.
Arlecchino: Sior sí, dirò tutt quel che voll.
Pantalone: Andemo.
Arlecchino: Son qua. (Tolí, anca a robar ghe vol grazia e ghe ghe vol fortuna) (s'incammina).
Pantalone: Femo sta pase, e po con costú farò veder al conte che tutti lo burla, che tutti lo sassina. (Partono).


Scena tredicesima

Camera della contessa Isabella La contessa Isabella e il Dottore.
Isabella: Anche voi mi rompete la testa?
Dottore: Io non parlo; ma ha ella sentito che cosa ha detto il signor Pantalone?
Isabella: Come c'entra quel vecchio in casa mia? Qui comando io, e poi mio marito.
Dottore: Benissimo, non pretende già voler far da padrone; egli mostra dell'amore per questa casa, e desidera di vedere in tutti la concordia e la pace.
Isabella: Se vuol che vi sia la pace, faccia che sua figlia abbia giudizio.
Dottore: Egli protesta ch'ella è innocente.
Isabella: È innocente? È innocente? E voi ancora lo dite? Sia maladetto quando il diavolo vi porta qui!
Dottore: È il signor Pantalone che dice ch'ella è innocente. Io non lo dico.
Isabella: Basta, se vi sentite di dirlo, andate fuori di questa camera.
Dottore: Questa è una bellissima cosa. Ora mi vuole, ora mi scaccia.
Isabella: Se mi fate rabbia. Andatemi a prender da bere.
Dottore: Vado (si parte per prendere da bere).
Isabella: Maladettissima! A me vecchia?
Dottore: Eccola servita (le porta un bicchier di vino colla sottocoppa).
Isabella: Non voglio vino.
Dottore: Anderò a pigliar dell'acqua (si parte, come sopra).
Isabella: Vi saluto, perché siete piú vecchia di me?
Dottore: Ecco l'acqua (porta un bicchier d'acqua).
Isabella: Maladetto! Fredda me la portate?
Dottore: Ma la calda dov'è?
Isabella: Al fuoco, al fuoco.
Dottore: La prenderò calda (si parte, come sopra).
Isabella: Questa parola non me l'ha ancora detta nessuno. Ma che faceva il signor cavaliere in compagnia di colei? Sarebbe bella che avesse lasciata me, per servir Doralice!


Scena quattordicesima

Colombina e detta.
Colombina: Signora, il padrone la prega di passare nel suo appartamento.
Isabella: Che cosa vuole da me?
Colombina: Non lo so, signora; so che vi è il signor Pantalone.
Isabella: Bene, bene, sentiremo le novità. Dimmi un poco, hai veduto quando il cavaliere è andato nelle camere di Doralice?
Colombina: L'ho veduto benissimo.
Isabella: Quanto vi è stato?
Colombina: Più di due ore; e poi poco fa vi è tornato.
Isabella: Vi è tornato?
Colombina: Sí, signora, vi è tornato.
Isabella: Sei punto stata in camera? Hai sentito nulla?
Colombina: Oh! io in quella camera non ci vado. Servo la mia padrona e non servo altri.
Isabella: Che balorda! né anche andar in camera a sentir qualche cosa, per sapermelo dire; va, che sei una scimunita.
Colombina: Balorda! scimunita! Non voleva dirvelo; ma ci sono stata.
Isabella: Si? contami, che cosa facevano?
Colombina: Parlavano segretamente.
Isabella: Discorrevano forse di me?
Colombina: Sicuro.
Isabella: Che cosa dicevano?
Colombina: Che siete fastidiosa, sofistica, e che so io.
Isabella: Cavaliere malnato!


Scena quindicesima

Il Dottore con l'acqua calda, e dette.
Dottore: Ecco l'acqua calda.
Isabella: Andate al diavolo; non sentite che scotta? (la prende, le pare bollente, e gettandola via, coglie il Dottore).
Dottore: Obbligatissimo alle sue grazie.
Isabella: Di grazia, che vi avrò stroppiato!
Dottore: Io non parlo.
Isabella: E cosí, che altro hanno detto di me? (a Colombina).
Colombina: Non ho potuto sentir altro. Ma se sentirò, dirò tutto.
Isabella: Sta attenta; ascolta e osserva, che mi preme infinitamente.
Colombina: Signora padrona, vi ricordate quant'è che mi avete promesso un paio di scarpe?
Isabella: Tieni, comprale a tuo modo (le dà un ducato).
Colombina: Che siate benedetta! (cosí si macina a due mulini) (da sé, parte).
Isabella: (Il cavaliere mi tratta cosi?) (da sé).
Dottore: Vuole ch'io le vada a prendere dell'acqua un poco tiepida?
Isabella: (In casa mia? sugli occhi miei?) (da sé).
Dottore: Signora, è in collera? Non l'ho fatto apposta.
Isabella: (Bell'azione!) (da sé).
Dottore: Dica, signora contessa...
Isabella: Non mi rompete la testa.
Dottore: Ma che cosa le ho fatto? Sempre la mi strapazza; sempre la mi mortifica.
Isabella: Venite con me nell'appartamento di mio marito (parte).


Scena sedicesima

Il Dottore solo.
Dottore: Ecco il bell'onor che si acquista a servire una signora di rango! Per un poco di vanità mi convien soffrir cento villanie. Ma non so che fare. Ci sono avvezzo, e non so distaccarmi (parte).


Scena diciassettesima

Camera del conte Anselmo.
Il conte Anselmo e Pantalone.
Anselmo: Eccomi qui, eccomi qui. Ma quanto ci dovrò stare?
Pantalone: Aspettemo che le vegna. Disemo quattro parole; femo sto aggiustamento, e l'anderà dove che la vuol.
Anselmo: (Brighella non si vede colla risposta della galleria) (da sé).
Pantalone: Vien zente. Chi ela questa, che no ghe vedo troppo?
Anselmo: È mia moglie.
Pantalone: E con ella chi gh'è?
Anselmo: Non ve l'ho detto? Il suo consigliere.
Pantalone: L'è el dottor Balanzoni!
Anselmo: Cose vecchie, cose vecchie.
Pantalone: Ma cossa gh'intrelo ? Averia gusto che fussimo soli.
Anselmo: Eh, lasciatelo venire; che v'importa?
Pantalone: (Che bel carattere che xe sto sior conte!) (da sé).


Scena diciottesima

La contessa Isabella col Dottore, che le dà mano, e detti.
Anselmo: Benvenuti, benvenuti.
Dottore: Fo riverenza al signor conte.
Pantalone: Siora contessa, ghe son umilissimo servitor.
Isabella: La riverisco.
Pantalone: (La ghe diga qualcossa. Femo pulito) (piano al Conte).
Anselmo: (Orsú, giacché ci siamo, bisogna fare uno sforzo) (da sé). Contessa mia, vi ho fatto qui venire per un affar d'importanza; in poche parole mi sbrigo. In casa mia voglio la pace. Se qualche cosa è passata fra voi e vostra nuora, s'ha da obliare il tutto. Voglio che ora vi pacifichiate, e che alla mia presenza torniate come il primo giorno che Doralice è venuta in casa. Avete inteso? Voglio che si faccia cosí (alterato).
Isabella: Voglio?
Anselmo: Signora sí, voglio. Questa parola la dico una volta l'anno; ma quando la dico, la sostengo (come sopra).
Isabella: E volete dunque...
Anselmo: Quello ch'io voglio, l'avete inteso. Non vi è bisogno di repliche.
Isabella: Io dubito sia diventato pazzo: non ha mai piú parlato cosí.
Anselmo: (Che dite? Mi sono portato bene?) (a Pantalone).
Pantalone: Benissimo.
Anselmo: (Ho fatto una fatica terribile).


Scena diciannovesima

Doralice, il Cavaliere Del Bosco, Giacinto e detti.
Pantalone: (Cossa gh'intra quel sior co mia fia?) (ad Anselmo).
Anselmo: (Non ve l'ho detto? Il suo consigliere).
Cavaliere: Padroni miei, con tutto il rispetto.
Doralice: Serva di lor signori.
Anselmo: E voi, signora, non dite niente? (ad Isabella).
Isabella: Divotissima, divotissima (sostenuta).
Anselmo: Sediamo un poco, e quello che abbiamo a fare, facciamolo presto. (Brighella non si vede) (da sé). Che ora è? Signor cavaliere, che ora è? Tutti siedono.
Cavaliere: Non lo so davvero. Ho dato il mio orologio ad accomodare.
Doralice: Guarderò io: è mezzogiorno vicino (guarda sull'orologio).
Anselmo: Avete un bell'orologio. Lasciatemelo un poco vedere.
Doralice: Eccolo.
Isabella: Mi rallegro con lei, signora (a Doralice).
Doralice: È necessario un orologio, dove ognora si scandagliano i quarti della nobiltà.
Isabella: (L'impertinente!) (da sé).
Anselmo: Mi piace questo cammeo; sarà antico: da chi l'avete avuto?
Doralice: Me l'ha dato mio padre.
Isabella: Oh, oh, oh, suo padre! (ridendo forte).
Pantalone: Siora sí, ghe l'ho dà mi, siora sí.
Anselmo: Questo cammeo è bellissimo.
Pantalone: (Orsù, vorla che scomenzemo a parlar? Vorla dir ella?) (piano ad Anselmo).
Anselmo: La chioma di quella sirena non può esser più bella. La voglio veder colla lente (tira fuori una lente, osserva il cammeo, e non bada a chi parla).
Pantalone: (El tempo passa) (come sopra).
Anselmo: Principiate voi, poi dirò io. Intanto lasciatemi prender gusto in questo cammeo.
Pantalone: Signore, se le me permette, qua per ordine del sior conte mio patron, del qual ho l'onor de esser anca parente...
Doralice: Per mia disgrazia.
Pantalone: Tasè là, siora, e fin che parlo, no m'interrompè. Come diseva, se le me permette, farò un piccolo discorsetto. Pur troppo xe vero che tra la madonna e la niora poche volte se va d'accordo.
Isabella: Quando la nuora non ha giudizio.
Pantalone: Cara ella, per carità, la prego, la me lassa parlar; la sentirà con che rispetto, con che venerazion, con che giustizia parlerò de ella (ad Isabella).
Isabella: Io non apro bocca.
Pantalone: E vu tasè (a Doralice).
Doralice: Non parlo.
Pantalone: Credo che per ordinario le dissension che nasce tra ste do persone, le dipenda da chiaccole e pettegolezzi.
Isabella: Questa volta son cose vere.
Doralice: Vere, verissime.
Pantalone: Oh poveretto mi! me lassele dir?
Isabella: Avete finito? Vorrei parlare anch'io.
Doralice: Una volta per uno, toccherà ancora a me.
Pantalone: Mo se non ho gnancora principià. Sior conte, la parla ella, che mi no posso piú (ad Anselmo).
Anselmo: Avete finito? Si sono aggiustate? È fatta la pace?
Pantalone: Dov'elo stà fina adesso? Non l'ha sentio ste do campane che no tase mai?
Anselmo: Con un cammeo di questa sorta davanti agli occhi, non si sentirebbero le cannonate.
Pantalone: Cossa avemio da far?
Anselmo: Parlate voi, che poi parlerò io (torna ad osservare il cammeo).
Pantalone: Me proverò un'altra volta. Siora contessa, voria pregarla de dir i motivi dei so desgusti contro mia fia (ad Isabella).
Isabella: Oh, sono assai.
Doralice: I miei sono molto piú.
Pantalone: Tasè là, siora; lassè che la parla ella, e po parlerè vu.
Doralice: Ah si, deve ella parlare la prima, perché... (Ho quasi detto, perché è più vecchia) (al Cavaliere).
Cavaliere: (Avreste fatto una bella scena).
Pantalone: La favorissa de dirghene qualchedun (ad Isabella).
Isabella: Non so da qual parte principiare.
Giacinto: Signor suocero, se aspettiamo che esse dicano tutto con regola e quiete, è impossibile. Io, che so le doglianze dell'una e dell'altra, parlerò io per tutte due. Signora madre, vi contentate ch'io parli?
Isabella: Parlate pure. (Già m'aspetto che tenga dalla consorte) (da sé).
Giacinto: E voi, Doralice, vi contentate che parli per voi?
Doralice: Sí, sí, quel che volete. (Già terrà dalla madre) (da sé).
Giacinto: Prima di tutto mia madre si lamenta che Doralice le abbia detto vecchia.
Isabella: Via di qua, temerario (a Giacinto).
Giacinto: Dicevo...
Isabella: Va via, che ti do una mano nel viso.
Giacinto: Perdonatemi.
Isabella: Va, ti dico, impertinente.
Giacinto: (Anderò per non irritarla. Eh! lo vedo, lo vedo; qui non si può piú vivere) (da sé, e parte).
Doralice: (Mi ha dato piú gusto, che se avessi guadagnato cento zecchini) (al Cavaliere).
Cavaliere: (Quella parola le fa paura).
Pantalone: Cossa disela, sior conte? No se pol miga andar avanti.
Anselmo: Orsú, la finirò io. Signore mie... Ma prima che mi scordi, questo cammeo si potrebbe avere?
Pantalone: El xe de mia fia, la ghe domanda a ella.
Anselmo: Mi volete vendere questo cammeo? (a Doralice).
Doralice: Venderlo? mi maraviglio. Se ne serva, è padrone.
Anselmo: Me lo donate?
Doralice: Se si degna.
Anselmo: Vi ringrazio, la mia cara nuora, vi ringrazio. Lo staccherò, e vi renderò l'orologio.
Isabella: Via, ora che la vostra dilettissima signora nuora vi ha fatto quel bel regalo, pronunziate la sentenza in di lei favore.
Anselmo: A proposito. Ora, già che ci siamo, bisogna terminare questa faccenda. Signore mie, in casa mia non vi è la pace, e mancando questa, manca la miglior cosa del mondo. Sinora ho mostrato di non curarmene, per stare a vedere sin dove giungevano i vostri opposti capricci; ora non posso piú, e pensandovi seriamente, ho deliberato di porvi rimedio. Ho piacere che si trovino presenti questi signori, i quali saranno giudici delle vostre ragioni e delle mie deliberazioni. Principiamo dunque...


Scena ventesima

Brighella e detti.
Brighella: Sior padron (al conte Anselmo).
Anselmo: Che c'è?
Brighella: El negozio è fatto, la galleria è nostra, e gh'ho qua l'inventario.
Anselmo: Con licenza di lor signori (s'alza).
Pantalone: Tornela presto?
Anselmo: Per oggi non torno piú (parte con Brighella).
Pantalone: Bella da galantomo!
Doralice: Possiamo andarcene ancora noi.
Pantalone: Senza el sior conte gh'è remedio che vegnimo in chiaro del motivo de ste discordie?
Isabella: Ecco qui il signor dottore; è qualche anno che mi conosce. Mi ha tenuta in braccio da bambina, e sa chi sono. Dica egli, se io vado in collera senza ragione.
Dottore: Oh, è vero. Ella non parla mai senza fondamento.
Doralice: Il signor cavaliere è buon testimonio di quello che ha detto di me la signora suocera, e sa egli se con ragione mi lamento.
Cavaliere: Signore, lasciamo queste leggerezze da parte. Stiamo allegramente in buona pace, con buona armonia.
Doralice: Leggerezze le chiamate? leggerezze? Mi avete pure accordato anche voi che io ho ragione, che io sono l'offesa, che non tocca a me cedere.
Isabella: Bravo, signor cavaliere! Vossignoria è quello che consiglia la signora Doralice.
Cavaliere: Io non consiglio nessuno, parlo come l'intendo. Servitor umilissimo di lor signori (parte).
Pantalone: Voleu che ve la diga? Sè una chebba de matti. Destrighevela tra de vualtri, e chi ha la rogna, se la gratta (parte).
Isabella: Son offesa, saprò vendicarmi, e la mia vendetta sarà da dama qual sono. Dottore, andiamo (parte col Dottore).
Doralice: M'impegno colla mia placidezza di confondere e superare tutte le piú furiose del mondo (parte).

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© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 08 novembre 1999