L'ETA' DEL REALISMO
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L'impegno civile. La poeticaNell’ambito della poesia realistica, ma con voce ben più possente e affatto singolare, si inquadra la produzione artistica di Giosue Carducci, il quale, però, non rivolse la propria attenzione al mondo degli umili, dei diseredati, ma guardò più in alto, alla “stirpe” italica, che gli sembrava aver toccato il fondo della miseria morale, aver quasi dimenticato gli antichi fasti, aver perso l’energia primitiva che l’aveva fatta assurgere a regina dei popoli nell’età romana. Il Carducci meditò a lungo, anche se con scarso rigore scientifico e molto indulgendo al suo temperamento gagliardo e impulsivo, sulle cause che avevano determinato l’infiacchimento della coscienza nazionale del suo tempo, e concluse, molto superficialmente, che esse erano da ricercare nell’infausto innesto d’una smidollata letteratura europea sulla pianta vigorosa della secolare gloriosa tradizione italiana: segno, questo, che a lui sfuggì completamente il senso profondo del romanticismo europeo (d’altra parte egli solo in età avanzata si avvicinò ad autori europei come l’Hugo, il Platen, l’Heine e lo Shelley). Da questa visione della realtà sociale del suo tempo e della sua patria, maturò la determinazione di indirizzare la propria attività di poeta e di critico verso un preciso impegno di natura “civile”, tendente al “risorgimento” della coscienza nazionale. Di qui la sua violenta avversione al romanticismo imperante nella letteratura italiana (ovviamente a quello suo contemporaneo, che oggi si definisce “secondo romanticismo” e che in effetti rappresenta solo la crisi dei valori espressi dal vero e proprio romanticismo: una crisi che va attribuita a precise ragioni storiche, come abbiamo visto a suo luogo, e non già alle influenze straniere intraviste dal Carducci) e la risoluzione a ripristinare nelle lettere l’antico splendore dell’arte classica, che egli considerava l’unica congeniale al popolo italiano ed autentica espressione di virilità e di grandezza. “Scudiero dei classici” egli si proclamò e tutta la vita spese nella sua missione civilizzatrice, alternando alle sue vigorose scudisciate critiche contro le facili romanticherie dei contemporanei, esempi di monumenti poetici ispirati all’orgoglio della stirpe, maestosi e solenni, frutto di una elaborazione stilistica lungamente sofferta e faticosamente maturata, che desse già di per sé il segno del decoro, il senso della conquista e rappresentasse già di per sé uno schiaffo beffardo alla faciloneria dei “romantici” rammolliti e impotenti. Ecco come il Carducci definisce il poeta nella lirica che conclude la raccolta delle “Rime nuove” (ed è perciò intitolata “Congedo”):
Il Carducci esercitò un
notevole fascino sulla
gioventù italiana del tempo e dominò largamente nella cultura di circa
mezzo secolo, nonostante i limiti che bisogna purtroppo riconoscere ai
suoi orizzonti culturali. Nota opportunamente il Cappuccio: «La
gioventù italiana per lunghi anni orientò la propria vita sulle sue
parole: fu con lui antiromantica, anticlericale, classicheggiante, esaltò
la patria, la libertà, la giustizia, volle una vita sana, gagliarda,
operosa. Egli fu il maestro, l'ultimo poeta-vate del Risorgimento. Ma
nonostante tutto, i suoi ideali, il suo magistero nazionale ebbero
sempre qualcosa di chiuso e di angusto. Il suo mondo spirituale, la sua
cultura, il suo pensiero si movevano dentro un orizzonte limitato. La
sua cultura fu certo ricchissima, ma quasi interamente ristretta alla
nostra storia e alla nostra tradizione letteraria». Cenni biografici
Nato a Val di Castello il 27 luglio 1835, dal '39 al '49 visse a Bolgheri, dove si era trasferito il padre Michele, medico condotto. A Firenze studiò poi presso gli Scolopi e nel '53 passò a frequentare la facoltà di lettere presso la Normale di Pisa, dove a soli venti anni si laureò. Nel '56, con Chiarini, Gargani e Targioni-Tozzetti, formò il gruppo degli “amici pedanti” che iniziarono pubblicamente un'accesa polemica contro il romanticismo: «Quando sorsero i più grandi uomini d'Italia? quando non v’era né scuole nuove né romanticismo, quando si adoravano i classici, e non si ammiravano e si studiavano né inglesi né tedeschi». Dopo un anno di insegnamento nel ginnasio di S. Miniato al Tedesco, attraversò un momento difficile, uno dei più tristi della sua vita: il fratello Dante si suicidò nel '57, il padre morì l’anno successivo ed egli dovette provvedere ai bisogni della famiglia impartendo lezioni private e curando una collana di classici per conto dell’editore Barbera. Nel '59 sposò la cugina Elvira Menicucci. Erano questi gli anni in cui il Carducci professava idee repubblicane, ma ben presto si convinse che solo la monarchia piemontese avrebbe potuto unificare l’Italia. Deluso
dall’atteggiamento del governo monarchico post-unitario, tornò alle
idee repubblicane per poi avvicinarsi lentamente di nuovo alla
monarchia, ottenendo anche la nomina di senatore del regno. Intanto,
dopo un breve insegnamento nel liceo di Pistoia, era stato chiamato a
ricoprire la cattedra di letteratura italiana nell’università di
Bologna, svolgendo qui il suo magistero dal 1860 al 1904, quando fu
costretto a ritirarsi per motivi di salute. Nel 1906 gli fu assegnato il
Premio Nobel per la letteratura e l’anno dopo morì a Bologna.
“Juvenilia" e "Levia gravia": la polemica
letteraria
Lo svolgimento della
poesia carducciana
prende l’avvio da due raccolte di liriche giovanili, “Juvenilia”
e “Levia
gravia”, che contengono rispettivamente poesie scritte tra il
'50 ed il '60 e tra il '61 ed il '71. Esse rappresentano in effetti il
tirocinio artistico del Carducci condotto sull’esempio dei classici
antichi e dei maggiori poeti italiani da Dante a Foscolo e sono
sostanzialmente prive di una vera originalità, anche se mettono in luce
alcune caratteristiche del temperamento del Carducci ed alcune sue
propensioni tematiche che si riscontreranno anche nella produzione
successiva. Ad esempio è già palese una certa fierezza e indipendenza
morale che egli mostra non solo con atteggiamenti polemici anticlericali
ed antiromantici, ma anche nella dichiarata volontà di non voler
assolutamente cadere in una sorta di sudditanza nei confronti delle
accademie ufficiali, dei salotti mondani, delle mode imperanti. A tal
riguardo è significativo quanto afferma nella prefazione alle “Rime
di San Miniato”, incluse in “Juvenilia”:
«Queste rime, non fatte avanti
la pubblicazione girare per le contrade, né vedute da niuno dei
dittatori chiarissimi, non intrinsecate per le accademie o per gli
uffizi dei giornali, né mormorate nei gabinetti delle femmine
eleganti...io le intitolo e mando a voi, miei cari ed onorevoli amici;
oscure e in condizioni umili, tuttavia sdegnose e salvatiche alcun poco,
il che tengono dalla natura del padre loro». Nella stessa
prefazione dice chiaro e tondo la sua avversione alle tendenze della
poesia moderna ed afferma la sua libera scelta di rifarsi agli antichi:
«Io, non eclettico in
letteratura come né in altro, di poesia sociale e umanitaria non so
nulla, so d’una poesia italiana e civile, come la fecero Dante e il
Parini: la cristiana, qual la scrivono i moderni, parmi declamazione
profana e barbara; e torno volentieri a quella grave e soavissima
dell’Alighieri e del Petrarca e degli altri trecentisti e
quattrocentisti: la popolare a questi
tempi con questi uomini
con questa lingua reputo
non potersi avere: la
intima parmi romanzaccio di gente sfatta in versi per lo più laidi, con
buon condimento di
scostumatezza parigina e metafisica tedesca. Del resto
cosmopolita non sono e ottimista né manco: rìdomi delle utopie: né
credo al furor poetico... sì penso con Giordani non vi sia altro furor
che l’ingegno, non altra ispirazione che dallo studio: liberamente,
non mi piace l’arte rinnovata e sto coi vecchi». L’inno "A Satana": la polemica anticlericale
Sotto il nome di Enotrio
Romano, nel novembre del 1865, il Carducci pubblicò a Pistoia una
poesia che aveva composto in una notte, precisamente quella del 10
settembre, due anni prima: si tratta dell’inno “A
Satana”, che destò scalpore e scandalo negli ambienti
culturali del tempo per le idee rappresentate, decisamente anticlericali
e libertarie. Dal punto di vista estetico non raggiunse risultati
apprezzabili e lo stesso Carducci, diciotto anni dopo, riconosceva
pubblicamente e pesantemente questi limiti (“Non
mai chitarronata - salvo cinque o sei strofe - mi uscì dalle mani tanto
volgare”), che pure aveva intravisto subito dopo la composizione,
tanto è vero che all’amico Chiarini confessava di ritenere necessaria
una sua revisione. In tale occasione il Poeta spiegava
pure il suo intento polemico: «E'
inutile che io avverta aver compreso sotto il nome di Satana tutto ciò
che di nobile e bello e grande hanno scomunicato gli ascetici e i preti
con la formola Vade retro Satana;
cioè la disputa dell’uomo, la resistenza all'autorità e alla forza,
la materia e la forma degnamente nobilitata». La revisione non ci
fu mai, ma l’inno ebbe tanta popolarità, certamente eccessiva
rispetto ai pregi reali, per più di vent’anni, proprio perché veniva
riproposta ogni volta che gli ambienti laici intendevano riaccendere e
vivacizzare la polemica anticlericale. Questo interesse ovviamente
piaceva molto al Carducci e lo stuzzicava ad entrare nelle polemiche:
egli ne andò fiero e sotto questo aspetto definì il suo inno “una
birbonata utile”. Satana rappresenta la Natura, la Ragione, il
Progresso: Satana fu l’ispiratore delle più salutari ribellioni che
la storia ricordi in campo civile, religioso e morale, quelle di Arnaldo
da Brescia, di Wicleff, di Huss, di Girolamo Savonarola, di Martin
Lutero. E' comprensibile allora il motivo per cui questo inno fu
salutato dagli ambienti laici della cultura nazionale come un grido di
riscossa contro l’egemonia secolare della cultura clericale. “Giambi ed epodi”: la polemica politica. Il realismo
In “Giambi ed epodi”, che raccolgono poesie composte tra il '67 e l' '87, il Carducci dà invece libero sfogo alla sua polemica politica contro una classe dirigente che gli sembrava fiacca e corrotta e lontanissima dallo spirito patriottico che aveva animato i grandi del Risorgimento. Si accentua in lui la passione per la storia, ma la mente e il cuore sono maggiormente intenti a scrutare nella decadenza del presente. Con l’ironia e il sarcasmo tipici della poesia giambica antica, egli satireggia la timidezza e la viltà dei nuovi governanti, che spesso accomuna ai languidi e svirilizzati letterati del tardo romanticismo, come nel “Canto dell’Italia che va in Campidoglio”, ove lancia strali pungenti contro il primo ministro Giovanni Lanza, che sembra timoroso di realizzare il sogno di tutti i patrioti italiani che vogliono Roma capitale: l’Italia, circospetta, si affaccia di notte sul Campidoglio e prega le oche di non attirare l’attenzione del cardinale Antonelli col loro clamore:
Nelle trenta poesie di
questo volume, che si rifanno non solo per il tono polemico, ma anche
per la forma metrica ai “Giambi”
del poeta greco Archiloco (VII sec. a.C.) ed agli “Epòdi”
del poeta latino Orazio (I sec. a.C.), il Carducci mette in
risalto la sua vocazione verso un'arte realistica, ma pure la sua
profonda e commossa capacità di rievocare i palpiti più segreti della
propria anima leggendoli nel “paesaggio”.
Ad esempio nella poesia dedicata all’amico Eduardo Corazzini, morto
per una ferita riportata nella battaglia di Mentana (1867), mentre
esaspera la sua polemica politica fino ad arrivare all’insulto nei
confronti del papa Pio IX (“te
io scomunico, o prete... prete empio... infame”), sa anche
rivivere con nostalgia le ore serene trascorse con l'amico in mezzo alla
natura: “...ma de' tuoi monti a
l'aprico / aer e nel chiostro ameno / più non ti rivedrò, mio dolce
amico, / come al tempo sereno”. Tuttavia questa disposizione
elegiaca a cogliere e rappresentare le più antiche memorie,
scandagliando i recessi più nascosti della propria coscienza di uomo
(padre, amante, amico) e di cittadino (storico, critico, maestro),
attraverso anche la rievocazione di paesaggi noti e delle più vibranti
pagine della storia nazionale, sarà una caratteristica saliente della
produzione poetica successiva. Qui prevale l’impegno realistico, come
egli stesso affermò in una lettera del 17 febbraio 1870: «...bisogna
far l’arte realistica; rappresentare quel che è reale, in termini più
naturali e con verità...; a ciò accoppiare lo studio degli antichi,
che sono realistici e liberi (Omero, Eschilo, Dante),
e lo studio della poesia popolare col sentimento moderno e con
l’arte». "Rime nuove" e "Odi barbare": classicismo e romanticismo; storia e paesaggioIl meglio della poesia carducciana è però contenuto nelle due successive raccolte di “Rime nuove” e “Odi barbare”, che raggruppano rispettivamente poesie composte fra il 1861 e il 1887 e fra il 1873 ed il 1889. A spiegare la diversità di tono delle nuove liriche provvide lo stesso Carducci nel poemetto “Intermezzo” (complessivamente cento quartine di endecasillabi e settenari alternati) in cui dichiara esplicitamente l’intenzione di abbandonare la poesia protestataria e di volersi dedicare a cogliere le voci più intime della sua coscienza, promettendo ad un tempo di tenersi ben lontano dal patetico languore dei romantici. In realtà con queste nuove liriche il Poeta non rinuncia affatto alla sua “missione civile”, ma riesce a contenere i suoi impulsi battaglieri, a frenare i suoi impeti polemici, a dare ugualmente un messaggio di dignità e decoro ma con animo più sereno ed attingendo più direttamente alla radice spirituale. D’altra parte i lutti familiari (inclusa la morte del figlioletto Dante di appena tre anni), le ristrettezze economiche e il rancore verso una classe politica inetta fanno parte del passato (nel 1870 Roma fu finalmente occupata e dichiarata capitale d’Italia), mentre il presente appare senza grosse nubi e promette finanche un ringiovanimento del cuore grazie all’amore profondamente nutrito per una certa Lina Cristofori Piva e felicemente ricambiato dalla donna. Forse a queste due raccolte di poesie meglio si addice il giudizio del Croce, secondo il quale: «La battaglia, la gloria, il canto, l’amore, la gioia, la malinconia, la morte, tutte le fondamentali corde umane risuonano e consuonano nella poesia carducciana, che appartiene veramente a quella che il Goethe chiamava poesia tirtaica, atta a preparare e confortare l’uomo nelle pugne della vita con l’efficacia del suo tono alto e virile». In queste liriche il classicismo ed il romanticismo (quello più autentico e profondo della tradizione foscoliana e leopardiana) si fondono in mirabile sintesi ed il Poeta, pur senza rinunziare all’abito morale austero ed icastico derivatogli dalla lezione o, per dir meglio, dal culto degli antichi, sa ripiegarsi su se stesso per trarre dallo scrigno delle memorie gli affetti intimi più puri e farli rivivere entro lo scenario dei paesaggi dell’infanzia, e riscoprire con animo romantico le virtù avite del proprio popolo come erano state espresse nell’età di Roma ed in quelle dei liberi comuni medievali, anch’esse fatte magistralmente rivivere come fantasmi che popolano i paesaggi che furono teatro delle epiche imprese della nostra gente. Il costante pensiero della morte, il contrasto tra il sogno e la realtà, la rievocazione storica, i ricordi della fanciullezza, l’esaltazione degli ideali e degli eroi tanto della Rivoluzione Francese che del Risorgimento italiano sono i motivi che più costantemente ricorrono in queste due raccolte poetiche. Le “Rime
Nuove”sono complessivamente 105 liriche distribuite in nove
libri. Il primo libro presenta una sola poesia, “Alla rima”, nella quale il Poeta, in risposta ad un articolo di Domenico Gnoli, nel quale si affermava che la rima era destinata a scomparire in quanto “tiranna del pensiero”, fa l’elogio della rima:
Il secondo libro contiene 34 sonetti, fra cui i celeberrimi “Il bove”, “Funere mersit acerbo”, “Traversando la Maremma toscana”, ed inizia proprio con la poesia “Il sonetto”, in cui la forma metrica prescelta viene celebrata negli esempi di Dante e del Petrarca:
Al terzo libro appartengono, fra le altre (25 in tutto), le non meno famose liriche “ |